Bibliomanie

Futuro parcellizzato. Distopie della disgregazione in due narratori europei contemporanei
di , numero 54, dicembre 2022, Note e Riflessioni, DOI

Futuro parcellizzato. Distopie della disgregazione in due narratori europei contemporanei
Come citare questo articolo:
Elena Grammann, Futuro parcellizzato. Distopie della disgregazione in due narratori europei contemporanei, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 12, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10234

Come si vivrà in un futuro più o meno prossimo?
Le belle lettere sembrerebbero relativamente ottimiste: certo, gli sconvolgimenti geopolitici e climatici saranno massicci, tuttavia si vivrà – magari un po’ peggio di adesso ma neanche troppo. Nulla che ricordi il McCarthiano La strada per intenderci. L’angoscia, eventualmente, è più sottile.
Mi riferisco all’ultimo romanzo dell’austriaco Christoph Ransmayr: Il maestro della cascata, Feltrinelli 20221, e al romanzo Telluria (2013), del russo Vladimir Sorokin. Di Telluria non esiste traduzione italiana mentre è disponibile in tedesco, francese e inglese. Io ho letto la traduzione tedesca.
Ci si potrebbe chiedere innanzitutto che cosa accomuni due scrittori nati entrambi alla metà degli anni cinquanta, eppure così lontani per esperienze e universo di appartenenza. Legato al mito, persuaso che la chiave del presente sia da ricercare nel passato, in configurazioni fissate prima degli inizi del tempo che ripercorre con scrittura raffinatissima e colta, fin dagli esordi festeggiato dall’establishment letterario2 l’austriaco; in rottura feroce col clima repressivo dell’Unione Sovietica prima e del putinismo trionfante poi, volentieri sulle tracce del parlato e del disfacimento del linguaggio in zone crepuscolari della coscienza, concentrato sul presente nonostante una smisurata conoscenza della letteratura e della storia russe, crudo all’eccesso, gore, esplicito, ironico, accusato di pornografia ecc. il russo.
Ciò che li accomuna – o meglio, che accomuna le due opere citate – è presto detto: in entrambi i romanzi la prima e più vistosa manifestazione della distopia è la frammentazione dell’Europa che conosciamo in una miriade drammatica (Ransmayr) o grottesca (Sorokin) di staterelli, fagocitati all’indietro da una nostalgia di medioevo, talché Principati e Granducati delle dimensioni di un francobollo spuntano come funghi, e dal loro mini-stato occitanico i Cavalieri Templari muovono alla riconquista di Costantinopoli.
Ma andiamo con ordine.
Benché il romanzo di Ransmayr, che reca come sottotitolo Una breve storia dell’uccidere, si proponga come una storia di colpa, espiazione e perdono, il protagonista indiscusso delle circa duecento pagine è in realtà l’acqua. In seguito ai cambiamenti climatici, le acque salate degli oceani hanno sommerso intere regioni costiere mentre la siccità trasformava le terre coltivate in aride steppe; e tuttavia, paradossalmente, per quattro quinti almeno del romanzo il lettore si trova immerso nell’acqua dolce: fiumi maestosi, cascate, isole nella corrente, atmosfere imbevute di pulviscolo d’acqua. In questo universo dolcemente acquatico – anzi, come vedremo, amniotico – la lingua dell’autore scorre essa stessa come un inesauribile fiume di metafore che si increspano e si moltiplicano, mentre le costruzioni participiali lievitano e si gonfiano mettendo a dura prova la concentrazione del lettore. I recensori di lingua tedesca sono sostanzialmente d’accordo che non è il libro migliore di Ransmayr. Perché ne parliamo allora? Perché tocca e intreccia – in un intreccio magari non nuovissimo ma plastico e sufficientemente drammatico – temi che ci interessano: frammentazione politica, identitarismi forsennati, egoismi miopi, glorificazione e esaltazione delle proprie radici e dunque di un lontano passato, rifiuto del nuovo e dell’estraneo e, accadimento puntuale e metafora di tutto ciò, l’incesto.
Intendiamoci, l’incesto come metafora di egocentrismo, autoreferenzialità e narcisismo non è una scoperta di Ransmayr bensì l’ossessione con cui si manifesta la cattiva coscienza del romanticismo3. Ransmayr, più risolutamente archeologo, lo áncora all’antico Egitto e alla consuetudine dei connubi consanguinei dei regnanti, ma poco importa. Più interessante è apprendere che nella Contea di Bandon, uno degli innumerevoli micro-stati indipendenti dell’Europa centrale, dove il protagonista è nato e ha trascorso infanzia e adolescenza, l’incesto è ben visto e sostanzialmente consigliato come strategia per mantenere intatta la purezza del sangue, ovvero l’identità della schiatta nazionale.
D’altra parte la questione dell’identità – un’identità ben distinta, eccellente, possibilmente “più eccellente” di quella dei vicini – è fondamentale per questi stati e staterelli i quali, non trovando ove fondare la propria sedicente distinzione in un presente suppergiù uguale per tutti, non possono che rivolgersi al passato: un passato in cui quella città, quella contrada, quel gruppo etnico o linguistico abbia particolarmente brillato in un ambito qualsiasi; e di quel passato e di quell’ambito si troveranno necessariamente a magnificare le memorie, i personaggi, gli oggetti. Come dire il famoso carroccio per alcune città del Nord Italia. Quindi vai con le rievocazioni storiche, le feste in costume, i monumenti a tema; e, parallelamente, la progressiva epurazione degli individui “esterni” che si fossero casualmente insinuati nella compattezza identitaria della popolazione.
Ossessione dell’identità e ossessione del passato non sono che le due facce della stessa medaglia e avranno entrambe conseguenze esiziali; tuttavia, nel romanzo, esse sono distribuite su due personaggi distinti. Chi rifiuta in toto il presente – anodino e amorfo – e vorrebbe costruirsi attorno strati e strati di passato, esserne avvolto come in un caldo bozzolo significante, è il padre. Il padre è il Guardiano delle chiuse, cioè del complesso sistema che attraverso l’apertura e la chiusura di successive saracinesche permette alle imbarcazioni di superare le cascate del Grande Fiume. Naturalmente, le imbarcazioni che ancora si avvalgono del complicato sistema tecnico e dell’abilità del Guardiano sono solo imbarcazioni turistiche, o appunto quelle, cariche di comparse, delle rievocazioni storiche. Il padre non accetta il fatto della sua diminuita importanza, così come non accetta il presente; rifiuta la prosastica denominazione di Guardiano delle chiuse e si fa chiamare, come un tempo, Maestro della cascata. Naturalmente il tarlo dell’insoddisfazione non lo abbandona, ne fa un essere arcigno, apparentemente privo di affettività e soggetto a spaventosi accessi d’ira. E il tarlo dell’insoddisfazione è sicuramente all’origine della morte di cinque persone la cui imbarcazione stava scendendo attraverso le chiuse. Strage o incidente non viene chiarito, ma ai fini del romanzo non è così importante dal momento che il Maestro vive la morte di queste persone come colpa.
Se il padre è ossessionato dal passato, il figlio e protagonista, che l’idiosincrasia del genitore ha schermato e allontanato dalla frequentazione dei coetanei, nemmeno dopo l’ingresso nella vita lavorativa – una vita che lo condurrà molto lontano dalla Cascata, sulle rive di fiumi esotici e favolosi – troverà una via d’uscita dal proprio bozzolo identitario: l’amore per l’altro se stesso, la sorella; un amore che (forse) un giorno ha esperito nella cornice di un impossibile giardino dell’Eden.
Si può ipotizzare che Mira4, di qualche anno maggiore del fratello, inglobi anche la figura della madre, profuga di una delle molte guerre del continente e dapprima tollerata a Bandon, poi accompagnata al confine e persa per sempre. In questo senso il mondo acquatico del Grande Fiume e l’esperienza erotica (reale? sognata?) con Mira rappresentano una sorta di “bagno amniotico” (di nuovo una fuga all’indietro) dal quale il protagonista non riesce a emanciparsi.
Come per il padre il rifiuto del presente conduce all’uccisione e alla colpa, così anche per il figlio l’incapacità di andare oltre il familiare, identitario riflesso di se stesso avrà conseguenze fatali. Ma non ci interessa qui tanto il tema della colpa, dell’espiazione e del perdono – che comunque non risulta troppo convincente – quanto l’intreccio di identitarismo, ritorno al passato e frammentazione politica che caratterizza anche un’altra narrazione distopica, peraltro molto diversa come tono di fondo: ironica, parodica, grottesca, assurda, fantastica, fiabesca ecc.: il romanzo Telluria di Vladimir Sorokin.
Dico romanzo perché così è dichiarato nel frontespizio, ma i cinquanta capitoli di questo corposo volume sono, con pochissime eccezioni, del tutto scollegati l’uno dall’altro per luoghi, azione, situazioni, personaggi e, last but not least, stile. Una raccolta di racconti contrabbandata sotto falso nome? Nemmeno: i capitoli – privi di titolo – sono sì narrazioni autonome, ma molto più interdipendenti di quanto non lo siano i racconti di una raccolta. Questo perché il mondo a cui normalmente5 fa riferimento una raccolta è un mondo fisicamente, biologicamente e politicamente già noto al lettore e preesistente al lavoro di scrittura; un mondo che perciò, di per sé, non può fungere da tema o momento unificante. Il mondo di Telluria invece, quanto a geografia politica e ontologia, è un mondo ignoto che prende forma attraverso il lavoro dell’autore6. L’esplorazione e definizione di un universo – l’Eurasia della metà del XXI secolo – è ciò che lega e collega i cinquanta capitoli, nonché il tema unitario di quello che, a questo punto a buon diritto, può essere definito romanzo.
Qualche coordinata: dopo essere stata sopraffatta da talebani e wahabiti, l’Europa occidentale ha recuperato l’autonomia al prezzo di una ricaduta nel passato. Frammentazione politica, proliferazione di staterelli medievaleggianti, templari alla riconquista di Costantinopoli, crociati muniti di bolla papale che amministrano la giustizia e sequestrano il bestiame ai contadini. È come se si fosse arrivati a un punto che non prevede un “oltre e al di là” ma soltanto un ripiegamento su posizioni note e trite che sfociano inevitabilmente nella parodia o nel prodotto di genere. A questo – all’ironia e al distacco – serve il magistrale tour de force degli stili di volta in volta diversi: sia chiaro che stiamo recitando.
All’estremità orientale, quella che fu la Federazione Russa non se la passa meglio. In seguito a torbidi e guerre che in parte perdurano, lo stato unitario è imploso disfacendosi in entità minori variamente autocratiche. Si va da una repubblica di ascendenza illuminista il cui presidente, un francese, è un despota amatissimo dalla popolazione rigorosamente rurale, a una Repubblica Socialista Stalinista Sovietica, meta di turisti curiosi di immergersi, in modalità son et lumière, nell’era del defunto Iosif.
La vita materiale è uno strano miscuglio di vintage, rétro, steampunk (a Mosca i trasporti pubblici e le auto dei comuni cittadini vanno a patate) e dispositivi futuristici a distribuzione capillare: ad esempio ognuno dispone di un “cervello”, sorta di pc onnisciente, onniperformante e malleabile che si può ripiegare, distendere o arrotolare come un pezzo di plastilina.
Che sia poi un risultato dell’ingegneria genetica o sia sempre stato così e non ce ne siamo accorti, diverse specie, fra cui quella umana, sono disponibili in tre dimensioni: mignon, standard e gigante. Abbiamo cavallini grandi come grossi topi e cavalloni che superano i quattro o cinque metri e vengono usati come trazione per carrozze ferroviarie di lusso. Incontriamo umani zoomorfi7, cinocefali eruditi che si cibano con soddisfazione di cadaveri su un campo di battaglia in un capitolo che, se si prescinde dai numerosissimi riferimenti alla letteratura russa, potrebbe essere stato scritto da Quentin Tarantino; e perfino un giovane, commovente centauro. Un’umanità al capolinea che ha già visto tutto e non può che ri-vederlo nella modalità dell’ironia, della parodia e del distacco. Un’atmosfera da fine del mondo.
Senza apocalissi però. Si continua pur sempre a vivere. La fine del mondo non è in un cataclisma climatico o geopolitico ma nell’impossibilità di pensare nuove forme di convivenza e organizzazione sociale, nel ricadere nelle solite, parodiche – e tanto più parodiche quando cerchino di ammantarsi di una trascorsa nobiltà.
In un articolo del 20128 – precedente quindi la pubblicazione di Telluria – D. Gillespie, analizzando il romanzo distopico La giornata di un opričnik (2006), dice che la visione della storia russa offerta da Sorokin non è ciclica (ritorno alla tirannia), ma terminale. Non si tratta però soltanto della storia russa. Più avanti nota infatti Gillespie:

«All of European history is ultimately reduced to one historically irrefutable fact: a month in Dachau is ontologically very different from a month in the country à la Turgenev. For Sorokin, this is where European history comes to an end.»

Sembrerebbe che non ci siano vie d’uscita (ci torneremo fra poco); di sicuro il tentativo più sbagliato è riproporre modelli già storicamente esauriti.
Rimane da spiegare il titolo. Cos’è Telluria? Telluria è il nome di una piccola repubblica nell’Altai (quella col presidente francese) in cui si estrae e commercializza la sostanza psicotropa tellur, legale e regolamentata, costosissima e richiestissima nonostante la particolarità della somministrazione. Come nel mondo parzialmente sommerso e idrologicamente sconvolto di Ransmayr il Cartello degli Ingegneri idraulici, dalle cui competenze e abilità dipende l’approvvigionamento idrico di sempre più vasti territori, rappresenta un’organizzazione sovranazionale potente e prestigiosa, così nel futuro di Sorokin la confraternita cosmopolita che garantisce una sorta di vivibilità all’umano è quella dei “Carpentieri” – nel senso di artisti dei chiodi e del martello: i tecnici altamente specializzati e benissimo pagati, capaci di piantare col minimo rischio un chiodo di tellur direttamente nel cranio degli interessati.
A parte il rischio, minimo ma ineliminabile, connesso con la modalità di somministrazione più che con la sostanza stessa, non pare che questa droga potente e beatificante abbia effetti collaterali negativi. Non risulta nemmeno che dia dipendenza. Chi la assume – generalmente una tantum visti i costi – lo fa con uno scopo preciso: rivedere un defunto, partecipare alla vita terrena di Gesù Cristo, disporre della forza e determinazione necessarie a un’impresa eccezionale, rivisitare e modificare il proprio passato ecc. Ora, la domanda che ci si pone è: come vede Sorokin questa via d’uscita dalle impasse della storia? Una via d’uscita non di tipo piattamente edonistico, questo dobbiamo sottolinearlo, ma intesa come accesso a universi alternativi altrimenti preclusi. Un bilancio non è facile, tuttavia il penultimo e l’ultimo capitolo del romanzo possono darci qualche indicazione. L’intero capitolo 49 è un monologo che qualcuno (ma chi?) recita in lode del potere salvifico del tellur:

«Tellur, il cui nome è il superamento di spazio e tempo!
Tellur, che ci rende perfetti!
Tellur!
[…] Tu scacci l’oscurità della storia! Ti sei la Stella Polare! Tu spalanchi le tombe! Resusciti soldati, suicidi e tossicomani, i morti di ferite, di bombe e di veleno, morti di overdose, di disperazione di fronte all’irraggiungibile! Raccogli i cadaveri in putrefazione e gli dai nuovamente forma! Li restituisci ai loro familiari e ai loro cari. Morti! Soffocati nel sangue e nel vomito! Che hanno perso occhi, testa e uova! Stritolati dai panzer! […] Arsi nel veloce incendio della guerra o al fuoco lento della follia! […] Tu formi per loro corpi nuovi, più sani dei vecchi!»


Eccetera.
Anche il capitolo 50, l’ultimo, è un monologo – ma decisamente più sobrio, e non c’è traccia di tellur. Chi parla è un uomo del popolo, di professione carpentiere, che si è inoltrato con una specie di camper – presto a secco di carburante/patate –, in cui ha stivato gli attrezzi e qualche sacco di semente, nella natura selvaggia lontano da ogni insediamento umano. Racconta come si costruisce una capanna di tronchi, come disbosca e recinta il futuro campo per proteggerlo dai cinghiali, a quali altre migliorie e costruzioni di servizio provvederà in futuro. Di seguito la conclusione del capitolo, che è anche la conclusione del romanzo:

«Cuocere il pane, fabbricare la birra, starsene sdraiati sulla stufa calda. Magari addomesticare un animale, per compagnia, metti che a star solo ti immalinconisci. Ci sono cose di cui si può benissimo fare a meno: donne, cinema, cumpa, piramidi9, chiodi10, guerra, grana, autorità. Così si dovrebbero trascorrere i giorni che ci sono destinati. L’importante è un tetto sopra la testa, che non ci piova dentro, e qualcosa da mangiare. Nessuno che ti stia addosso per farti lavorare. Essere il fabbro della propria fortuna. Dormire quando ne hai voglia. Inchinarsi soltanto al sole. Accarezzare si accarezzano solo gli esseri col pelo. Parlare si parla solo con gli uccelli del bosco. Di cos’altro ha bisogno l’uomo?»

Niente contatti con i propri simili, nessuna organizzazione sociale, nessun potere e strutturazione del potere, beatitudine rousseauiana. Fine della storia.

Note

  1. Ch. Ransmayr, Der Fallmeister, S.Fischer 2021.
  2. Il suo secondo romanzo, Die letzte Welt, (trad. it. Il mondo estremo, Feltrinelli 2003) – probabilmente il suo migliore – originale rivisitazione delle Metamorfosi ovidiane, fu pubblicato nel 1988 nella collana Die andere Bibliothek diretta da H.M.Enzensberger e divenne il successo letterario dell’anno.
  3. Oltre al René di Chateaubriand, citiamo almeno il racconto Sangue velsungo di Thomas Mann e il suo romanzo L’eletto, riscrittura in chiave ironica del medievale Gregorius.
  4. Il nome proprio, qualunque sia la sua origine, non può non risvegliare una reminiscenza del latino miror: vedere con meraviglia, ammirare. Avremmo dunque, in questo rapporto con la sorella, una centralità dello sguardo, quell’ammirazione per la propria immagine riflessa che è alla base del narcisismo.
  5. Mi rendo conto che ‘normalmente’ significa qui: all’interno del paradigma realista – che comunque è il più diffuso.
  6. Al lavoro, non necessariamente a questa opera particolare. Diversi aspetti ontologicamente e politicamente “inediti” si trovano già in opere precedenti. Diciamo che Telluria allarga lo sguardo.
  7. Uno dei capitoli a mio avviso più belli ha come protagonista una vaccara dai tratti asinini.
  8. D. Gillespie, Author and authority in the work of Vladimir Sorokin.
  9. Nel mondo creato da Sorokin si tratta di un tipo di droga. Possibile anche un’allusione alla piramide del potere da sempre tipica dello stato russo. (NdR).
  10. Si può immaginare che ci si riferisca ai chiodi di tellur. (NdR).

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