Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, traduzione di Rosella Pellerino, Rocca di Papa (RM), La Noce d’Oro, 2022
Monica Longobardi, Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, traduzione di Rosella Pellerino, Rocca di Papa (RM), La Noce d’Oro, 2022, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 23, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10239
«C’è un solo Dio eterno. Ma ci sono stati alcuni dèi, degli dèi nati dal mondo, che per il mondo ora sono morti. Forse non riesci a comprenderlo davvero. I semidei esistono. Vivono una vita sovrana, abbeverati alle sorgenti dell’etere, inebriati dall’alito della materia, e padroni di un universo in fiore, partecipi della danza delle stagioni e delle stelle, cantano con la stessa voce dei raggi di luce e del mare. […]
C’è un solo Dio eterno. Ma i semidei nascono, vivono e invecchiano, e dopo una vita che nella tua mente non riusciresti a immaginare senza perderti, muoiono, sì, muoiono, tornano agli abissi dello spazio e del tempo, e per parte mia non so dove li riconduca la volontà che un bel giorno li fece apparire.» (pp. 69-70)
Il grande Pan è morto? Non nella Camargue misteriosa evocata da Joseph d’Arbaud ne La Bèstio dóu Vacarés /La bête du Vaccarès (1926), versione in provenzale e francese. Nutrito di cultura classica, per d’Arbaud (1874-1950) l’alieno non può che riaffiorare dalla memoria profonda, da quella paganità demonizzata ed esiliata tra antiche rovine, spelonche e foreste incantate. Il ritorno degli dèi pre-olimpici è un motivo che popola la letteratura dell’Ottocento, e s’intensifica in Francia e Occitania tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Semidei mortali e segnati dalla sofferenza della decrepitezza, esprimono la malinconia del crepuscolo e la fine dei giorni di una civiltà, e ne incarnano l’anima. La Camargue, in particolare, è patrimonio di un habitat unico e di un rapporto ancestrale tra uomo e natura. L’immensità dei suoi paesaggi scarsamente modellati dall’uomo evoca, infatti, un senso di libertà irriducibile alle politiche del centralismo francese che assimilavano le culture provinciali, la cui resistenza si appella poeticamente anche agli dèi della natura. Essa fu dunque al centro di racconti mitici, poemi e romanzi, glorificata e definita nei suoi simboli dal marchese Folco de Baroncelli-Javon (1869-1943), che consacrò la sua vita al riconoscimento della sua identità, spartendosi tra il suo palazzo nobiliare ad Avignone e quei luoghi selvaggi, paladino dei mandriani e dei gitani che là si recavano in pellegrinaggio, devoti al culto di Sara la nera. Anche d’Arbaud, rampollo di una famiglia dell’aristocrazia terriera, stregato dai racconti del marchese su questo paese abitato dai miraggi, volle vivere da poète-manadier, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, l’esistenza epica dei gardian, mandriani di tori e cavalli bradi. Vivere fino ad ammalarsi là, nella malsana palude deltizia bagnata dal Rodano e invasa da stagni e lagune, tra le quali il Vacarés è una delle più vaste. E per la qualità letteraria del suo stile, La Bèstio dóu Vacarés è sicuramente il punto più alto non solo della letteratura moderna che celebra, in lingua provenzale, il “sacro naturale”, ma anche di quella più nota, coeva e di poco posteriore, quale la Trilogie de Pan (1929-30) di Giono, che usa il francese, benché cantore della Provenza ancestrale. La letteratura panica che conosce una sua terra elettiva nella Provenza segue una sua linea genealogica «De Maurice de Guérin à Joseph d’Arbaud, de D’Arbaud à Henri Bosco», anche se raramente espressa in questa lingua bandita dalla storia. La voga mitologica ottocentesca traccia la sua traiettoria “meridionale”, infatti, almeno a partire dal magnifico Le Centaure di Maurice de Guérin (1810-1839), vissuto nel piccolo maniero di Cayla (Tarn), affiliato ad honorem al “Génie d’Oc”. Ne Li Cant Palustre, d’Arbaud fonde e concilia perfettamente nel paesaggio della Camargue, nello spazio di un meriggio, l’antica paganità con l’avvento della cristianità: satiri che, ebbri, dormono distesi sotto l’ombra dei pini, al canto delle cicale, mentre scorgono approdare dal Levante già cristiano la barca senza remi che porta Sara e le Sante Marie. Henri Bosco (1888-1976), a sua volta, si inserirà in questa linea, facendo esplicito tributo a Maurice de Guérin e a Mistral, da una parte, e a d’Arbaud che venererà come maestro, mutuandone temi e motivi in gran parte dei suoi romanzi, tra sauvagerie e magie. Ma il Centauro di de Guérin è ormai giunto all’estrema vecchiaia; decrepita e malconcia la Bestia (così chiama d’Arbaud il suo semidio), planctus sulla morte di Natura e canto del cigno delle sue antiche divinità. Fauni e centauri morenti, d’altronde, proprio in quanto unità di un pantheon minore, più vicino alla terra e alla ‘finitudine’ dei mortali, suscitano un sentimento di comunione più pregnante negli esseri umani che vi si imbattono, come avviene per il gardian di d’Arbaud. L’amore per la terra, una terra-madre, predispone questo legame profondo con i geni dei luoghi, gli spiriti del territorio, abitanti perenni e numi tutelari di tante patrie cancellate dalla storia degli uomini. È la ragione per cui tale territorializzazione degli dèi si radica proprio in Occitania, patria negata e lingua minorizzata, nonostante la rinnovata fierezza del Felibrismo. Perché già Mistral, maestro di d’Arbaud, per celebrare la Provenza fluviale, si rifaceva a leggende rodaniane risalenti a Gervasio di Tilbury, il maresciallo di Arles. Nel suo ultimo poema di respiro epico, Il poema del Rodano (Lou Pouèmo dóu Rose,1897), il drac, genio del fiume, è già presagio della fine di un’epoca gloriosa, quella dei suoi battellieri, insidiati dal primo battello a vapore che aveva solcato le sue acque nel 1829. Travolta e dispersa finisce la flottiglia di questi nuovi Argonauti, simbolo del naufragio di un’età dell’oro. È in questa temperie che d’Arbaud fa, a sua volta, dell’inabissamento del fauno nelle paludi del Vacarés l’allegoria maestosa e malinconica della fine della Camargue, già preda degli appetiti di un’economia del profitto che violava l’incerto equilibrio del paese dei miraggi.
Un mistero circonda l’esperienza di Jaume Roubaud, gardian che vive in questa terra dove natura e sovrannaturale confinano, e tormentato ne scrive nel suo livre de raison, a partire dal 1417. La prodigiosa preda che si era trovato un giorno ad inseguire, sfuggente parvenza nel folto della vegetazione, non si era rivelata una semplice bestia, ma un semidio pagano rifugiatosi in quell’estremo lembo di terra selvaggia. Il mandriano l’aveva braccata e stanata nel groviglio di canne, sino a scorgerne con orrore il volto d’uomo e le corna di un capro. Ed ecco che la circostanza apparentemente naturale della caccia si apre alla prova perturbante dell’incontro con uno spirito implacato, una sorta di Pan damnato, ma riemergente dalla notte dei tempi. Con le stremate energie della sua decrepitezza, la Bestia rivendicherà maestosamente, ma per l’ultima volta, l’antico dominio sul regno animale. I cavalli del mandriano, Clar-de-Luno e Vibre, avvertono prima dell’uomo la sua presenza. L’indomito Vibre, a sua volta, subisce, vinto e mansueto, la doma (o l’incantagione) da parte del semidio, in un rito ipnotico tra i più suggestivi del romanzo.
La Natura e la luna, intanto, ordiscono il loro notturno:
«…ascoltando, fuori, il canto dei chiurli, il gracchiare dei fenicotteri vicini, mescolato al gracidare delle rane, a migliaia. L’ombra indefinita di un uccellaccio che cacciava basso passò accanto al mio rifugio, svanendo. … Lentamente, la fiera nascosta, che per la sorpresa si era immobilizzata, sentendomi arrivare cominciò di nuovo a trafficare. In un cespuglio di alaterno sentii rovistare per un bel po’ un animale che si sarebbe detto piuttosto grande. Ma non mi fu possibile riconoscere nulla. Poco dopo, la luna spuntò. Vidi all’improvviso il bosco illuminarsi, e le ombre farsi nere al suolo. Erano all’incirca le dieci, e un’immensa pace pervadeva la notte. Quanto a me, rimanevo perfettamente immobile trattenendo il fiato e guardandomi dal causare il benché minimo rumore, nonostante le gambe mi si intorpidissero. Un grande barbagianni a caccia venne a posarsi sul ramo del ginepro. Potevo distinguerne i particolari come in pieno giorno. Rimase fermo per un lungo istante, fissando il sacchetto coi suoi occhi tondi, poi repentinamente, come impaurito, distese le ali emettendo un breve grido e si librò nell’aria calma e lattiginosa in cui parve allontanarsi nuotando. Poco dopo apparve una volpe, flessuosa e felpata, e resa argentata dalla luna scivolò rapida ai piedi dell’albero, dove si accucciò col naso per aria, fiutando come i cani.» (pp. 94-95)
È in questa notte fatale che intere mandrie taurine accorrono e concorrono, magnetizzate dal suono incalzante del flauto di canne palustri, alla ridda vorticosa che orbiterà intorno al loro antico signore. La Bèstio torna a incarnare, così, la forma sovrana della wilderness di cui il luogo è pervaso. E Jaume Roubaud ogni volta è testimone orripilato di questi arcani incantesimi («Ho assistito senza dubbio a un sabba di animali sulla sansouiro; ho visto quell’altro dalle gambe caprine inebriarli di ardore demoniaco», pp. 106-107). Lo stesso nome totemico di Bèstio mantiene per tutto il romanzo l’ambiguità dei suoi possibili riferimenti culturali, sospeso tra una paganità silvana previa al cristianesimo e la “Brutta Bestia”, la Bestia nera del demonio. Succube fin nei suoi nervi del magnetismo del semidio, alla riapparizione di un’antica divinità creduta cacciata per sempre dalla fede cristiana, l’uomo era rimasto atterrito come dalla visione di un revenant. E aveva cercato inutilmente di esorcizzarlo con il segno della croce e con il rito latino del «Recede… immundissime!», appreso dallo zio canonico. Ma il semidio fuggiasco rivendica nel Vacarés la sua patria elettiva:
«Questa terra è l’ultima in cui ho trovato un po’ di pace, e quella vastità sacra nella quale un tempo mi compiacevo a esercitare la mia giovane forza, quando signoreggiavo, padrone del silenzio e delle ore, maestro di quel canto sterminato che dagli insetti della piana sale verso le stelle, riecheggia e risuona nei gorghi dell’immensità. Qui, in mezzo ai pantani salmastri tagliati da spiagge sabbiose e lagune, ascoltando il muggito dei tori e il nitrito dei tuoi stalloni selvaggi, mentre di giorno, acquattato, guardavo il velo del miraggio ondeggiare sul calore della terra arsa di sale, e di notte la luna splendente e nuda danzare sull’acqua del mare, ho conosciuto per qualche tempo ciò che potrei definire felicità.» (p. 53)
In quel regno di solitudine, dove il gardian vaga in preda alle tentazioni come un Sant’Antonio nel deserto, si accampa e si dilata l’incubo di Jaume Roubaud. Solo in questa vastità senza tempo poteva avvenire il parto travagliato del cauchemar, del doppio che dorme dalla notte dei secoli dentro di sé, e affiora poi dal pozzo dell’inconscio, come, nella finzione, secreto da quei limosi acquitrini. La vasta palude che, nelle continue insidie degli sprofondi, appare come un’intercapedine pervia e porosa, propiziando l’affioramento delle creature dell’Altrove. Sarà infatti nel Grande-Abisso, bocca d’Averno della palude, che alla fine del romanzo la Bestia sarà inghiottita, dopo essersi mutato (forse) in una forma vegetale («Ho cantato con tutte le voci del mondo. Ho seguito danzando il moto degli astri. E ora, ecco che sento la mia carne antica seccarsi sotto la pelle, come il legno di un vecchio albero la cui linfa, prosciugandosi, non riesce più a far scorrere la vita sotto la corteccia», p. 82). In un analogo abime dei racconti di d’Arbaud (Lou palangre in La caraco), saranno attirati nel misterioso gouffre un altro gardian solitario e un suo alter ego, macabro pasto delle anguille dell’insondabile fondo.
Dall’incontro pieno d’orrore con il semidio, una strana febbre consuma il mandriano, uno stato allucinatorio che lo invade e lo ossessiona. Eppure, alla fine di un tormentato processo di riconoscimento di un’altra forma del sacro, iniziato con il gesto istintivo di sfamare quella ‘bestia’ macilenta, saranno reverenza e misericordia ad esorcizzare i sensi di colpa verso la sua religione. ‘Pietà’ è la parola che più spesso risuona nella coscienza di Jaume Roubaud, il più alto sentimento umano in grado di affratellare qualsiasi alterità.
Dopo un anno scandito dalle confessioni vergate sul suo diario segreto, un legame misterioso si era ormai annodato tra il cristiano e quella antica forma di genius loci. Un semidio ormai ferito dalle ingiurie degli uomini e del tempo, Lare di un paese al crepuscolo, ma ancora capace di sprigionare gli ultimi fuochi di un’energia primitiva. E capace di cementare una fratellanza struggente tra due creature ibride: un dio-capro e un suo simile, una sorta di centauro che percorre a cavallo la natura selvaggia della Camargue per prendersi cura di un universo in pericolo. Dopo la sparizione del semidio, la missione di Jaume Roubaud sarà allora cercare senza requie e senza paura lo spirito della sua terra, nuova queste di un cavaliere all’inseguimento di una meraviglia, di un mito, l’incanto di un paradiso perduto.
La vicenda favolosa del gardian e del suo nume pagano è un magnifico dono dell’immaginazione di Joseph d’Arbaud, figlio di questo grande paese selvaggio insidiato dal disincanto della modernità e dell’accelerazione del progresso. Fiero e malinconico monumento a una lingua provenzale dalla nobile storia letteraria e alla sua cultura, erose da secoli di egemonia francese; presagio della sua fine.
La traduzione italiana di Rosella Pellerino, di cultura e di lingua occitana, sa assecondare l’originale con competenza, con rispetto e amore. Lascia nella lingua di d’Arbaud i termini che tratteggiano la vita quotidiana in Camargue, l’allevamento del bestiame, la Natura con le piante e gli animali che la popolano, dotandoli di note precise e insieme suggestive. Ci restituisce così (a parziale risarcimento della mancanza dell’originale a fronte) il sapore e la poesia di un grande libro che spero apra le porte alla conoscenza di una letteratura ancora tutta da scoprire.
Bibliografia Orientativa
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Filmografia
La Bête du Vaccarès, France, 1963 (dir. Denys Colomb De Daunant) BFI”
Documentaire “La Bête du Vaccarès”, 2006, (dir. Simon Shandor)
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