Solidarietà illegale. Il fronte intellettuale a sostegno di Danilo Dolci nel “processo all’articolo 4”
Gerardo Litigio, Solidarietà illegale. Il fronte intellettuale a sostegno di Danilo Dolci nel “processo all’articolo 4”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 48, no. 6, dicembre 2019
1. Introduzione
Questo non è un processo “comunissimo”: è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo. Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge con l’aggravante della premeditazione! Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda
1.
Prima che i giudici leggessero la sentenza, l’ultima arringa di Piero Calamandrei concluse il “Processo all’articolo 4 della Costituzione”. Come in tantissimi processi di quegli anni in Sicilia e in tutto il paese, gli imputati erano braccianti disoccupati che manifestavano il loro dissenso contro le politiche statali e locali troppo accondiscendenti verso le prepotenze dei grandi proprietari terrieri. I reati imputati erano sempre gli stessi: invasione di terreni, resistenza a pubblico ufficiale, organizzazione di riunione non autorizzata, rifiuto di sciogliersi. Si aggiungevano in questo caso altri due reati: oltraggio e istigazione a delinquere.2 Anche le dinamiche che portarono agli arresti erano del tutto simili ai casi di quegli anni. Le forze dell’ordine venivano allertate e mobilitate per sedare sul nascere le proteste e agivano in base al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), un codice di polizia di matrice fascista molto discusso per i numerosi conflitti che generava con i nuovi diritti costituzionali. Proprio a questi ultimi si appellava il principale organizzatore della protesta protagonista di questo processo, Danilo Dolci. In particolare, egli si riferiva all’articolo 4, che recita: “i cittadini hanno il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società” poiché “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.
Insieme alla Camera del Lavoro di Partinico, Danilo Dolci aveva organizzato per il 2 febbraio uno sciopero alla rovescia: una particolare manifestazione in cui i disoccupati anziché protestare astenendosi dal lavoro, mettevano in atto un’opera di pubblica utilità gratuitamente, in cerca di un riconoscimento dalle istituzioni. In questo caso, circa duecento braccianti si riunirono per riassestare la “trazzera vecchia” di Partinico, una strada di campagna inagibile a causa del fango che la ricopriva. Gli agenti di pubblica sicurezza però, allertati fin dalla notte precedente dalle autorità, fermarono sul nascere lo sciopero e trassero in arresto gli organizzatori. Fino a questo punto la dinamica dell’accaduto ricalcava quasi totalmente quella di episodi di protesta analoghi di quegli anni che, in taluni casi, al momento dell’intervento degli agenti di PS, avevano avuto risvolti violenti e sanguinosi (meno di un mese prima ad esempio, un manifestante era stato ucciso durante una protesta simile a Venosa). Non casualmente, infatti, durante il processo lo stesso Pubblico Ministero nella sua requisitoria avrebbe parlato di “comunissima vicenda”. In realtà, il coinvolgimento materiale di una figura della cultura italiana rappresentò l’elemento di discontinuità, non tanto nel trattamento della magistratura e delle forze dell’ordine, che semmai operarono con più rigore, ma nella difesa e nell’attenzione mediatica dedicata a quello speciale imputato.
In un periodo storico, quello dei primi governi a guida democristiana, difficile per le libertà di artisti, studiosi e uomini di cultura, era già accaduto che la classe intellettuale si unisse e solidarizzasse con qualche collega per limitazioni, censure e perfino processi subiti. Nonostante queste premesse, il caso di Danilo Dolci rappresenta un unicum non solo per la rilevanza mediatica e per le dimensioni raggiunte dal fronte che si schierò a sua difesa, ma soprattutto per le modalità di azione di quest’ultimo. Il presente studio mira ad indagare e raccontare i motivi che spinsero la classe intellettuale dell’epoca a prendere così decisamente le parti di un loro pari che aveva deciso di autoesiliarsi dalla categoria e condurre una vita che non si limitava all’indagine dei problemi sociali, ma che puntava a risolverli concretamente. Per poter comprendere al meglio questi motivi, verranno analizzate le posizioni ufficiali e le trame sotterranee degli organi che ostacolavano l’opera siciliana di Dolci, le ragioni di alcune decisioni della magistratura, e come tutto questo ha trasformato una eterogenea manifestazione di solidarietà in un moto organizzato e deciso a intervenire nel modo più incisivo possibile. Per questo sarà indispensabile osservare i momenti nevralgici che hanno scandito l’operato del fronte e che hanno poi condotto alla istituzione di un Comitato nazionale con rappresentanti precisi e compiti definiti. Proprio l’analisi della formazione del suddetto fronte aiuterà a spiegare la natura delle voci di protesta e delle azioni pubbliche e private dei suoi aderenti all’interno della cornice storica rappresentata dallo scontro tra i due blocchi ideologici dominanti a quel tempo. Se le ricerche precedenti si sono concentrate unicamente sulla biografia da intellettuale atipico di Danilo Dolci e sulla storia della sua opera in Sicilia -con tutte le vicende giudiziarie che vi sono connesse nei primi otto anni-, il presente lavoro ha cercato di recintare l’indagine al solo “processo all’articolo 4”, concentrandosi sul punto di vista di coloro che si spesero a difesa del pacifista triestino, analizzando le varie fasi di costruzione del fronte, che gradualmente definì la sua struttura, i suoi limiti e le sue azioni. Ciò è avvenuto principalmente tramite lo studio di raccolte epistolari bibliografiche e archivistiche dei protagonisti coinvolti, dei quotidiani e delle riviste che descrissero la questione e in cui intervennero pubblicamente esponenti per l’una o per l’altra parte. In questo modo, si è provato a descrivere una vicenda che ha delle caratteristiche singolari per il suo sviluppo e anche per i suoi esiti, finora analizzati con minore attenzione nei loro nessi con il contesto storico-politico italiano finanche alla luce delle altre vicissitudini vissute da Danilo Dolci successivamente nella sua breve ma significativa carriera da attivista.
2. Biografia giovanile e primo approccio alla Sicilia
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l’eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la santità. Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell’inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d’avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria. Per Danilo no
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Quando all’inizio del 1952 era arrivato nella provincia di Palermo, a Trappeto, per stabilirsi e fondare una comunità dove poter “vivere tra fratelli”, Danilo Dolci aveva solo ventisette anni. Nonostante ciò, aveva già vissuto diverse peripezie e preso delle scelte di vita singolari. Fin da piccolo aveva dimostrato di avere un senso di giustizia unito a un coraggio e un acume fuori dal comune. Durante la guerra, ad esempio, riuscì a scappare da una prigione nazifascista durante un interrogatorio, dopo essere stato arrestato come disertore alla chiamata alle armi repubblichina.3 Negli anni successivi mise in luce un talento naturale per la poesia, principalmente di tema religioso, che gli valse partecipazioni a importanti raccolte e ad ambiti premi, in cui si trovò a concorrere con celebri figure della letteratura italiana del Novecento come Andrea Camilleri e Pier Paolo Pasolini. La poetica rimase per tutta la vita, seppure a fasi alterne, la sua via di comunicazione prediletta.4 Altro ambito in cui il giovane Danilo eccelleva era l’Architettura, nella quale aveva conseguito con successo la maturità artistica all’accademia di Brera e poi frequentato con interesse e ottimi risultati la facoltà universitaria a Milano. Arrivò anche a pubblicare due volumi di esercitazioni in Scienza delle costruzioni, ma a pochi passi dal titolo accademico, Dolci decise di prendere un’altra strada. La sua famiglia gli aveva trasmesso principi etici e morali ancorati alla religione cattolica ma, allo stesso modo, non aveva mai limitato la fantasia e lo spirito di libertà che albergavano in lui, sebbene fosse nato, cresciuto e educato in piena epoca fascista. Allo stesso tempo, infatti, un importante fattore dipendente dalla famiglia e, in particolare dal mestiere del padre, fu il continuo obbligo a spostarsi, a non avere una residenza fissa o prolungata. Enrico Dolci era un ferroviere e ogni sua promozione comportava un trasferimento per sé e per i suoi cari; questa condizione quasi itinerante, unita al fatto che il luogo in cui nacque e mosse i primi passi fu Sesana, un paesino di frontiera nella provincia di Trieste, diede al giovane Danilo una concezione della vita tutt’altro che chiusa o campanilistica. Tutti questi elementi aiutano a comprendere l’indole del personaggio e, in particolare, la sua radicale scelta di vita presa a due passi dalla laurea con un futuro lavorativo molto ben indirizzato e una compagna con cui aveva iniziato a fare importanti progetti di vita insieme. Fu proprio questa serie di certezze a fargli decidere di abbandonare la sua “vita borghese” per seguire nella sua particolare comunità don Zeno Saltini, un atipico prete conosciuto presso la Corsia dei servi di Maria di Milano. Nomadelfia, questo il nome della comunità, riuniva un gran numero di orfani e di famiglie dilaniate dalla guerra presso l’ex campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena, nel tentativo di costruirsi collettivamente una nuova vita secondo i principi cristiani-cattolici. Qui Danilo mise le sue capacità fisiche e intellettive al servizio dei più deboli e poté iniziare quell’operazione di pulizia interiore che si era prefigurato prima di partire, aiutando i meno fortunati e i più bisognosi nella volontà di rifuggire da una vita egoistica che non avrebbe appagato la sua esistenza. Dopo quasi due anni in cui si spese sia nei lavori più umili che nei compiti più complessi, arrivando ad essere il confidente e più vicino collaboratore di Don Zeno, Danilo Dolci comprese di essere riuscito nel suo intento. Si era messo a disposizione di chi non aveva mezzi e opportunità per condurre una vita dignitosa, ripulendosi dallo sterile intellettualismo e dagli agi di una vita mondana, ma allo stesso modo aveva capito che la comunità di Nomadelfia era troppo chiusa in sé stessa e nella sua cattolicità.5 Non era, insomma, il posto in cui ambiva a trascorrere tutta la sua vita. Dopo qualche mese, Dolci pensò al luogo in cui fondare una propria comunità, e optò per il più povero in cui era stato molti anni prima insieme alla sua famiglia: Trappeto.
Dolci aveva soggiornato per due estati sul golfo di Castellammare in Sicilia, quando il padre, dieci anni prima, era stato chiamato a sostituire temporaneamente il capostazione locale. Lì, il giovane Danilo aveva stretto un bel rapporto con i pescatori del posto, che gli avevano fatto vivere un tempo tranquillo e spensierato mentre, in realtà, gli celavano la loro condizione di estrema indigenza. All’inizio del 1952 quindi, decise di stabilirsi a Trappeto per creare una sua comunità a sostegno degli emarginati e delle fasce più deboli ma, avendo fatto la sua scelta con una buona dose di improvvisazione, una volta arrivato non poteva avere idea delle enormi problematiche che stavano dietro alla profonda povertà che attanagliava la zona.6 La prepotenza dell’apparato clientelare – mafioso, spalleggiata dall’ambigua condotta dei dirigenti politici e delle sfere religiose, costringevano gran parte della popolazione a uno stato di deprivazione forzata e sfruttamento. La maggior parte degli abitanti non aveva speranza di un benché minimo miglioramento, e chi provava ad alzare la testa e la voce per rivendicare i propri diritti metteva in serio pericolo la propria vita, come successe a più di quaranta sindacalisti che nel periodo tra il 1948 e il 1955 furono barbaramente assassinati.7 Di fronte a questo terribile scenario, non erano pochi gli individui che per poter sopravvivere dovevano sfociare nell’illegalità compiendo piccoli furti, alimentando in questo modo le voci sul problema del banditismo, un fenomeno molto più complesso che aveva perso ogni connotato sociologico anni prima.
Dopo aver costruito con le sue mani e quelle di qualche generoso volontario il Borgo di Dio, una struttura per accogliere le persone più bisognose, e in particolare i bambini -che vi frequentavano anche l’asilo-Danilo Dolci cominciò a sperimentare le prime pratiche di sviluppo comunitario, comprendendo come la sua opera non poteva fermarsi alla semplice assistenza. Attraverso l’autoanalisi popolare, realizzata con delle riunioni aperte in cui si discuteva dei problemi della zona e delle possibili soluzioni, tutti i cittadini potevano partecipare e condividere pacificamente la propria idea, sentendosi per la prima volta parte di una comunità.8 Fu proprio in una di quelle riunioni che emerse la necessità della costruzione di una diga che immagazzinasse le acque del torrente vicino per sopperire alla penuria di quel bene primario rifornendo il paese durante tutto l’anno. Nonostante l’opera del Borgo di Dio stesse ricevendo il supporto dei comitati “Amici di Trappeto” diffusi per il continente dai più stretti e influenti amici di Dolci e l’aiuto economico di sostenitori privati ed enti regionali, la situazione generale restava sempre grave. La morte di un bambino per inedia tra le sue braccia scosse a tal punto Dolci da portarlo a compiere un gesto rivoluzionario per l’Italia dell’epoca: avrebbe iniziato uno sciopero della fame sul letto del piccolo che sarebbe terminato quando la Regione avrebbe erogato i finanziamenti per costruire la diga e per ovviare alle situazioni più gravi. Dopo una settimana di digiuno in cui mise a repentaglio la sua vita, Dolci riuscì a ottenere la garanzia dal Presidente della regione Restivo che l’intera cifra richiesta sarebbe stata concessa.9 Questo insolito metodo di protesta consentì ai problemi di Trappeto di avere per qualche giorno una risonanza nazionale; inoltre, fece giungere lettere e telegrammi di solidarietà da tutta Italia. In particolare Aldo Capitini, filosofo antifascista e massimo teorico della nonviolenza in Italia, rimase assai colpito dal gesto di Dolci e si premurò di scrivergli durante il digiuno che non aveva il diritto di morire se prima tutta l’opinione pubblica non fosse venuta a conoscenza delle condizioni in cui versava Trappeto, inaugurando in questo modo un sincero rapporto di amicizia e confronto che durò fino alla morte del professore nel 1968.10 Capitini vedeva in quel giovane il continuatore delle teorie nonviolente per le quali tanto si era speso ed aveva prodotto; una sorta di erede che stava applicando gli ideali di rivoluzione aperta e di omnicrazia tanto cari al filosofo umbro. Questo legame permise a Dolci di ponderare attentamente ogni sua futura scelta, ma soprattutto di aprire e stabilire i contatti con la combattiva rete di ex azionisti, di cui Capitini era parte, che lo avrebbe aiutato e appoggiato in tutte le sue iniziative avendo in comune con lui una particolare attenzione etica e una tendenza alla valorizzazione di iniziative puramente sociali. Dopo il successo del digiuno, molte attenzioni cominciarono a concentrarsi sull’opera di Dolci in Sicilia, ma non tutte vi guardavano con ammirazione.
3. Agitatore o santo?
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del Codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana, scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa “spiccata capacità a delinquere” che l’ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Nei due anni successivi Dolci fu coadiuvato da un importante numero volontari che, oltre a gestire le attività del Borgo di Dio, lo aiutarono ad approfondire la sua indagine sociologica sulle condizioni degli abitanti di tutta la zona e poi a denunciare mancanze e irregolarità. Questo enorme lavoro di documentazione fu tradotto in due libri, uno più precoce e connotato ancora da una certa spiritualità “Fare presto (e bene) perché si muore”; l’altro, “Banditi a Partinico”, molto più dettagliato e sistematico, riscosse un successo che ben presto varcò i confini nazionali.11 Fu proprio quella rete di ex azionisti, confluita in gran parte in Unità Popolare -partito nato nel 1953 per contrastare la “legge truffa”-, che diede a Danilo Dolci e al Borgo di Dio il suo aiuto pratico, economico ma soprattutto editoriale. Con la casa editrice dei fratelli Codignola -la De Silva-, fu pubblicato “Fare presto (e bene) perché si muore”, mentre la seconda e più celebre raccolta, confluita in “Banditi a Partinico” godette della prefazione di Norberto Bobbio. Il libro fu pubblicato da Laterza, dietro forte desiderio del proprietario della casa, che scrisse personalmente a Dolci, encomiandolo e invitandolo a inviare materiale e, soprattutto, dettagli biografici.12 Anche se l’ultimo invito fu disatteso, Danilo Dolci e il suo “Banditi a Partinico” andarono ad arricchire il filone meridionalista della collana dei “Libri del tempo” della casa editrice barese, che già vantava un considerevole successo negli anni della ricostruzione.
Se la figura di intellettuale calato nella miseria intrigava e raccoglieva consensi nell’universo culturale italiano, le autorità nazionali e locali cominciarono a insospettirsi e a non gradire esplicitamente che la gravità generale della situazione e l’insufficienza delle misure adottate dal governo diventassero di dominio pubblico. Partì, in questo modo, un’opera di discredito nei confronti del pacifista triestino che non si limitò solo a diffondere falsità sul suo conto e fantasie sul tipo di vita che si conduceva all’interno del Borgo ma arrivò, tramite l’intervento della magistratura e delle forze dell’ordine, a ordinare la chiusura di alcune delle attività che tentavano di portare qualche beneficio alla popolazione, come l’asilo e l’Università popolare.13 Le calunnie che circolavano in paese, unite a un parziale cambiamento che cominciava a viversi a Trappeto, convinsero Dolci e i suoi collaboratori a un passo decisivo alla fine del 1955: il trasferimento nella vicina Partinico, una cittadina dell’entroterra più grande e problematica.
Anche qui disoccupazione e povertà regnavano incontrastate, ma Danilo e i suoi collaboratori non erano i soli a lottare per un rovesciamento della situazione. Presto iniziò un sodalizio con la Camera del Lavoro di Partinico, che negli anni precedenti aveva pagato a caro prezzo le sue posizioni, quando tre sindacalisti furono trucidati in un assalto mafioso nei suoi stessi locali.14 Una delle iniziative comuni fu organizzata a cavallo tra il gennaio e il febbraio del 1956: un digiuno sulla spiaggia di Trappeto avrebbe inaugurato due giorni di proteste, prima contro la mafia di mare che sottraeva il pescato della costa ai piccoli pescatori, e poi contro la disoccupazione con uno sciopero alla rovescia che avrebbe simbolicamente dimostrato la presenza di manodopera e di opere pubbliche da svolgere.
Nel periodo precedente Danilo Dolci aveva organizzato meticolosamente le due manifestazioni e la loro pubblicizzazione con un viaggio di un mese nel continente. A Roma, Milano, Torino e Firenze incontrò tutti i suoi più influenti sostenitori per sottoporgli il piano d’azione e per chiedere consiglio in modo da non cadere in nessun tipo di errore. Dolci, inoltre, tenne alcune conferenze e fu invitato a parlare della situazione siciliana anche in televisione e alla radio, dove spiegò la natura nonviolenta delle proteste che si apprestava a svolgere.15 Tutte queste attenzioni avevano maldisposto i governanti locali che lo aspettarono al varco appena tornato sull’isola. Dolci, infatti, fu invitato in commissariato a sottoscrivere un documento che lo invitava a non intraprendere manifestazioni non autorizzate. Sicuro di non violare la legge con un digiuno collettivo e l’aggiustamento di una strada impraticabile, Dolci firmò la dichiarazione appellandosi all’articolo 4 della Costituzione, scatenando così le ironie del commissario.16 Quando agli albori della giornata successiva i duecento digiunanti si ritrovarono sulla spiaggia di Trappeto seduti a guardare i motopescherecci violare le leggi, giunse un nutrito contingente di agenti di Pubblica Sicurezza ad allontanarli poiché non era lecito “digiunare in pubblico”. Dopo un surreale scambio di battute con il commissario, Dolci, i pescatori e i sindacalisti decisero di proseguire il digiuno in paese, presso la Camera del Lavoro e la Casa del pescatore, inoltrando telegrammi di protesta alle massime autorità locali e statali che, inoltre, confermavano lo sciopero alla rovescia. Lo stesso copione, però, si ripeté due giorni dopo, quando ben prima dell’alba, con rigide temperature, trecento braccianti si recarono alla trazzera vecchia di Partinico per riassestarla. Questa volta, però, l’incontro fu meno cordiale: gli agenti strapparono le pale dalle mani degli organizzatori e li intimarono di mettere fine alla manifestazione; Dolci, in risposta, invitò i braccianti a continuare a lavorare e il Commissario si trovò costretto ad allontanarlo in paese, dove la questione si sarebbe risolta senza ripercussioni. Giunto nella cittadina, Dolci fu messo in libertà, ma non volendo lasciare soli gli scioperanti fece ritorno sulla trazzera percorrendo una strada secondaria. Una volta tornato, comprese che ormai non c’era più nulla da fare: molti disoccupati si erano allontanati dopo l’irruzione delle forze dell’ordine e il Commissario continuava a non voler sentire ragioni. Dopo un’accesa discussione, Dolci decise di sedersi per terra in segno di protesta, imitato dagli altri sei organizzatori: sindacalisti e braccianti della Camera del Lavoro. Per ristabilire l’ordine pubblico -come voleva il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza-, gli agenti li trascinarono di peso nelle camionette per poi fermarli e denunciarli in commissariato.17
4. La difesa e il processo
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
La notizia dell’arresto di Danilo Dolci fece ben presto il giro del paese e già l’indomani, quando i sette denunciati furono trasferiti nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, la stampa italiana riportava l’accaduto. I quotidiani centristi e conservatori parlavano genericamente di “agitatore arrestato” e si affidavano al verbale di denuncia ricco di elementi ingigantiti e perfino falsi -come poi si sarebbe scoperto- scritto dal Commissario di Partinico; ben altro spazio veniva dedicato invece dai quotidiani di opposizione come “L’Unità”, che descrivevano l’accaduto in prima pagina con toni molto critici verso il comportamento del governo, delle istituzioni e delle forze dell’ordine.18 Nei giorni seguenti vennero eseguiti gli interrogatori dal Pubblico Ministero e la causa fissata con rito direttissimo, mentre il Prefetto di Palermo inviò al Viminale e alla direzione generale della PS un dettagliato rapporto biografico su Dolci pieno di informazioni ricavate dalla segreta opera di sorveglianza che gli agenti locali avevano riservato al triestino nei mesi precedenti. Nel frattempo, si facevano sempre più numerose le associazioni, i circoli culturali, i movimenti giovanili, le organizzazioni sindacali e di partito, ma soprattutto lunghe liste di personalità dello spettacolo e della cultura che attraverso i quotidiani fecero sentire la loro voce di sostegno a Danilo Dolci e agli altri arrestati con dichiarazioni di solidarietà. Il caso Dolci si stava facendo largo nell’opinione pubblica nazionale e vedeva un fronte di solidarietà eterogeneo e sempre più esteso a difesa del triestino. Prima del giudizio vennero scarcerati solo due dei sette imputati, poiché erano gli unici a non aver opposto resistenza al momento dell’arresto e, la sera prima dell’udienza, con una mossa inaspettata, il PM decise anche di abbandonare il processo per direttissima. Il collegio di difensori, infatti, aveva precedentemente portato come testimoni altri braccianti che avevano partecipato allo sciopero. Il PM, dopo averli ascoltati, estese le denunce anche a loro dilatando i tempi della fase istruttoria e intimidendo chiunque altro avesse voluto testimoniare sugli accadimenti di quel giorno.19 In seguito a quella scelta, si levò in tutta Italia un coro di voci a sostegno di Dolci e contro il governo che nulla stava facendo per scarcerarlo, ma al contrario lo stava screditando per mezzo stampa servendosi dell’apparato informativo delle forze dell’ordine.20 In particolare, Il senatore democristiano di Partinico, Santi Savarino, si servì del rapporto biografico scritto dal prefetto di Palermo per pubblicare e firmare un articolo in prima pagina sul quotidiano che dirigeva –“Il Giornale d’Italia”-, dove venivano lanciate accuse diffamatorie alla persona di Dolci, alla sua opera e alle sue finalità.
Nemmeno due turbolente interrogazioni parlamentari servirono a trovare un punto d’incontro, anzi alimentarono le polemiche sull’operato del governo nei confronti della disperata situazione siciliana e, nella fattispecie, sull’arresto e la detenzione di Dolci concentrandosi anche su questioni apparentemente irrilevanti, come la sua “cattolicità”, messa in dubbio dagli stretti rapporti che aveva con i valdesi.21 Quest’ultimo tema ebbe un certo rilievo anche nel dibattito mediatico, dove gli organi di stampa vicini alla Democrazia Cristiana facevano buon gioco a dimostrare la distanza tra Dolci e la Chiesa ufficiale. Anche i ripetuti appelli rivolti al ministro dell’Interno Tambroni, giunti fin dal giorno successivo all’arresto sotto forma di telegrammi, rimbalzavano sul muro di gomma rappresentato dall’autonomia della magistratura. Il 19 febbraio il giudice istruttore, dopo aver consultato un verbale del Commissariato di Partinico sulle attività di Dolci, prese la decisione di impedire la scarcerazione preventiva per una “spiccata capacità a delinquere del detto imputato Danilo Dolci” estendendola a tutti i correi sebbene, all’infuori di uno, fossero tutti incensurati.22 Questa surreale motivazione scatenò l’indignazione di tutti coloro che si erano spesi per sostenere l’opera di Dolci, che lo conoscevano direttamente o che semplicemente avevano letto i suoi libri. L’apparato culturale e artistico italiano si mobilitò massicciamente per difenderlo in quella che prendeva sempre più i tratti di una questione di civiltà.
Nel frattempo, in carcere Danilo Dolci non restava inoperoso e anche grazie alla solidarietà ricevuta dai reclusi con lui, cominciò a documentare la situazione e le storie di quella triste realtà. Da quel lavoro nacque l’idea di produrre un libro sulla vicenda che stava vivendo, inserendo tutti i comunicati, i verbali e le testimonianze nel volume che avrebbe preso il nome di “Processo all’articolo 4”. Il 24 febbraio si chiuse la fase istruttoria e il 3 marzo Danilo Dolci e gli altri imputati furono rinviati a giudizio imputati per sei diversi reati. Prima che la data del processo fosse fissata per il 24 marzo, il Prefetto di Palermo si confrontò con il Ministero dell’Interno sull’opportunità di trasferire il procedimento a Roma, ma la decisione fu quella di mantenere la sede siciliana dove Dolci era “screditato e disistimato”, anche per non sconfessare l’operato fino ad allora ineccepibile della magistratura palermitana.23 L’ultima mossa degli uffici invisi a Dolci fu la notifica di una nuova denuncia a suo carico una settimana prima del processo, stavolta non inerente ai fatti della trazzera ma riguardante un estratto del suo nuovo libro “Inchiesta a Palermo” pubblicato dalla rivista “Nuovi Argomenti” e ritenuto osceno e contrario alla pubblica decenza.24
Nei quasi due mesi di carcerazione, l’élite culturale italiana non si era schierata con Dolci solo simbolicamente. Molti intellettuali, più o meno legati al triestino, avevano compreso che c’era bisogno di organizzare e dare forma all’indignazione che aveva creato l’accanimento nei confronti di quell’uomo di cultura che tanto si era speso per migliorare le condizioni del sottoproletariato siciliano. Inizialmente furono le sue più influenti amicizie a tentare di intercedere per lui direttamente con il ministro Tambroni: la poetessa Cristina Campo, amica di vecchia data di Dolci, teneva i contatti con Curzio Malaparte, che insieme a una piccola delegazione di colleghi -tra i quali vi era anche Carlo Levi- si recò al Viminale il giorno dopo l’arresto, senza ovviamente ottenere alcuna indulgenza.25 Anche la rete liberalsocialista si mobilitò subito attraverso ogni suo canale: quotidiani, riviste, associazioni, finanche con il partito di Unità Popolare. Il suo più illustre esponente, Piero Calamandrei, prese immediatamente l’incarico di capo del collegio di difesa. A tal proposito, il movimento di “Solidarietà Democratica”, che organizzava la difesa legale gratuita per i casi in cui gli imputati erano braccianti e disoccupati, formò un autorevole squadra di difensori, tra i quali figuravano oltre a Calamandrei, Arturo Carlo Jemolo, Nino Sorgi, Antonino Varvaro, Francesco Taormina, Achille Battaglia e Federico Comandini.26 Nei giorni immediatamente successivi all’arresto, Maria Fermi Sacchetti attraverso l’Associazione Artistica Internazionale di Roma provò a riunire singoli e gruppi che fino ad allora avevano espresso solidarietà: partì una serie di incontri, comunicati e azioni comuni per organizzare il dissenso ma anche per raccogliere fondi da donare all’opera di Dolci, che in sua assenza faticava enormemente. Tra le varie sigle che stavano partecipando a questa levata di scudi, l’associazione più adatta allo scopo di patrocinare tutte le iniziative sorte in difesa del pacifista triestino era l’Associazione Italiana per la Libertà della Cultura (AILC) presieduta dal sommo letterato Ignazio Silone. Essa riuniva gli intellettuali non schierati e antitotalitari nella “guerra fredda culturale” che si era creata a livello mondiale, cercando di costituire uno spazio di dialogo tra le parti.
Una coalizione formale del fronte intellettuale che si era creato si rese necessaria allorquando il giudice istruttore negò per la seconda volta la scarcerazione degli imputati. L’AILC, quindi, si fece garante della bontà delle operazioni di supporto, riunendo sotto un’unica sigla “persone delle più varie correnti di opinioni e di partito” e allontanando in questo modo il pericolo, secondo l’opinione di molti, di un fronte esclusivamente comunista che avrebbe potuto penalizzare la difesa di Dolci agli occhi dell’opinione pubblica e della magistratura.27 Infatti, una delle principali accuse lanciate a Dolci e alla sua opera dall’apparato conservatore e dai suoi organi di stampa era quella di essere uno strumento nelle mani del PCI manovrato per fini elettorali. A questo scopo fu istituito dall’AILC il “Comitato nazionale di solidarietà per Danilo Dolci” che, come si legge nel manifesto programmatico, si prefiggeva tre principali obiettivi: “unificare le varie iniziative già sorte per orientarle verso la soluzione dei concreti problemi; provvedere alla tutela e alla conservazione delle opere e dalle attività avviate da Danilo Dolci; promuovere iniziative che impegnino la cultura italiana sui problemi del Mezzogiorno”. Il Comitato ottemperava più direttamente al compito di difesa pubblica e legale degli imputati mediante una rappresentanza che avrebbe dovuto “sviluppare e approfondire” l’azione di libertà che aveva caratterizzato la protesta iniziale, volta a “richiamare l’attenzione del paese sulle gravi condizioni di miseria e di arretratezza della Sicilia e dell’intero Mezzogiorno nel quadro delle intenzioni e dei propositi di Danilo Dolci”. Il manifesto ufficiale era firmato da trenta personalità della politica e della cultura la cui varia estrazione doveva garantire che la voce dell’opinione pubblica si levasse “al di sopra di ogni divergenza politica o religiosa”.28
Al Comitato aderirono un gran numero di artisti, politici e intellettuali e, dopo un periodo di organizzazione e mobilitazione in cui si intensificarono incontri e inviti, l’opera di propaganda vide il suo momento più alto nella conferenza stampa tenuta il 20 marzo a Roma, pochi giorni prima dell’inizio del processo. Di fronte a una schiera di giornalisti italiani e stranieri Ferruccio Parri, Alberto Moravia, Giancarlo Vigorelli, Carlo Levi e Ignazio Silone intervennero con autorevolezza su diversi temi che riguardavano direttamente il caso Dolci, quali l’impegno sociale, il linguaggio cristiano, le paradossali contraddizioni dell’Italia, il dovere intellettuale di controllare la correttezza delle istituzioni statali.29 La conferenza si rivelò un evento pregno di significato e un successo comunicativo che riuscì a mettere d’accordo anche i più scettici e conservatori. La stessa Cristina Campo, che in tutto quel periodo si era mossa in maniera indipendente a difesa dell’amico e non aveva lesinato parole aspre per il Comitato, dopo aver presenziato alla conferenza rimase impressionata da quella così alta unità di intenti. Scrisse a tal proposito ad un’amica: “è stato un momento molto alto, una specie di piccola Pentecoste. C’era un silenzio come oggi non credevo possibile tra uomini”.30
L’aiuto più concreto, però, fu fornito all’interno del processo: vennero individuati nove testimoni “morali” tra gli intellettuali che Dolci aveva incontrato nel viaggio precedente allo sciopero, ai quali aveva raccontato delle manifestazioni in programma chiedendo loro consiglio. Valerio Volpini, Vittorio Gorresio, Gigliola Spinelli Venturi, Lucio Lombardo Radice, Maria Fermi Sacchetti, Alberto Carocci, Norberto Bobbio, Elio Vittorini e Carlo Levi deposero in aula puntando a spiegare le intenzioni nonviolente di Dolci e della sua “festa del lavoro” dove era in programma perfino l’ascolto di musica classica. Essi chiarirono anche la natura del suo linguaggio, ritenuto oltraggioso dalle autorità, ma in realtà ripreso dai suoi libri e dalle sue dichiarazioni pubbliche. Tutte queste testimonianze, però, furono in particolar modo volte a includere Dolci nel panorama culturale cui appartenevano evidentemente i testimoni, in modo da sovvertire l’idea dell’accusa di un imputato agitatore e sobillatore di professione.31 Il collegio difensivo badò, invece, a estrinsecare lo scontro tra Costituzione e legge di polizia (TULPS) sostenendo la vaghezza e l’arbitrarietà con cui venivano applicati molti articoli di quest’ultimo codice, che si andavano a scontrare proprio con le neonate libertà costituzionali generando una immane quantità di ingiusti procedimenti giudiziari. Quello stesso anno, infatti, sarebbe entrata in vigore la Corte Costituzionale, che avrebbe cominciato l’opera di smantellamento di molti degli articoli più rigidi e liberticidi del Testo unico di PS ereditati dal regime fascista che le forze dell’ordine, incoraggiate dall’atteggiamento governativo, applicavano con estremo rigore.32 Altro compito dei difensori fu la rivelazione delle incongruenze e contraddizioni nelle diverse testimonianze dell’accusa, che avevano dimostrato come quelle versioni fossero esagerate e fallaci. Oltre a questo, venne evidenziato il comportamento poco trasparente degli agenti e dei commissari, i quali avevano sequestrato e fatto distruggere arbitrariamente la pellicola di un filmato girato da uno dei reporter convocati da Dolci a partecipare come testimoni dello sciopero.
Tutti questi elementi non servirono a scagionare del tutto gli imputati, che nella sentenza finale furono comunque dichiarati colpevoli di due reati; tuttavia, essi furono immediatamente scarcerati giacché avevano scontato la loro pena in carcere preventivamente nei due mesi precedenti. La gioia per la riacquistata libertà, condivisa anche dalla folla che lo aspettava all’esterno del tribunale, fu tanto grande da cancellare l’amarezza per l’esito formale del processo. Il sostegno ricevuto e l’attenzione che quella vicenda aveva posto sulla situazione siciliana diedero a Dolci grande fiducia per il prosieguo della sua opera, che in quel momento sembrava addirittura poter aspirare a qualcosa di più grande, visto il consenso che si era concentrato attorno alla sua figura. Il suo impegno, invece, continuò sulla stessa lunghezza d’onda per almeno altri quattro anni che avrebbero visto moltiplicarsi gli scontri con le istituzioni e venire gradualmente meno l’appoggio di molti di coloro che lo avevano difeso in questa occasione.
5. Conclusione
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia. Ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia. Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!
Come si è detto, i capi di accusa imputati a Danilo Dolci e agli altri organizzatori dello sciopero alla rovescia erano gli stessi per cui furono incolpati migliaia di braccianti che negli stessi anni rivendicavano i loro diritti. Questo specifico processo ebbe, per forza di cose, dei risvolti completamente diversi dagli altri, che infatti portarono un afflato di speranza nell’Italia della ricostruzione. Naturalmente, il coinvolgimento di un uomo di cultura, seppur prestato all’attivismo, poté amplificare la risonanza e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione. Il passo decisivo, però, fu compiuto da quella generazione di intellettuali che aveva combattuto in prima persona durante la guerra per ottenere quei diritti costituzionali travalicati e umiliati in questo tipo di processi da un codice di leggi di origine fascista. Fu proprio il richiamo a quei valori della Resistenza, a cui Dolci si ispirava esplicitamente, a coinvolgere un così grande numero di intellettuali a suo sostegno. Egli incarnava le speranze di quella generazione, che in lui vedeva l’erede, il custode e il continuatore -sotto nuove forme nonviolente- di quei valori della Resistenza immortalati nella Costituzione.
In particolare, visto lo scenario e il tipico dibattito da guerra fredda che si era prefigurato anche in quell’occasione, fu estremamente prezioso il contributo degli intellettuali non schierati, o perfino di quelli espressamente cattolici e atlantisti che non si limitarono a sostenere semplicemente o controfirmare appelli di solidarietà, ma se ne fecero promotori e coordinatori. L’esempio più esplicativo è costituito proprio dall’AILC, una associazione che nel suo corrispondente mondiale (il Congress for Cultural Freedom) vedeva un’ispirazione decisamente anticomunista, e che invece si mosse nel nostro paese con estrema misura e prudenza tra le parti, costituendo talvolta un prezioso spazio di incontro e confronto.
L’esito del processo non poté dirsi un successo completo ma costituì sicuramente un importante punto di svolta non solo per la figura di Danilo Dolci, ma anche e soprattutto per la situazione siciliana grazie a quel movimento culturale che vi accese i riflettori e inaugurò una riflessione pubblica su quella così delicata questione sociale.
Ultimo aspetto da sottolineare è l’ampiezza informale del fronte, che non si limitò ai più quotati e famosi artisti e intellettuali, ma si estese e ramificò anche in realtà meno considerate come il mondo anarchico e la chiesa valdese.33 Quest’ultima, tramite il pastore Tullio Vinay, collaborava a stretto contatto con l’opera di Dolci in Sicilia, e non erano rari i casi di preziosi scambi tra i due ambienti. Proprio Vinay si offrì ripetutamente di aiutare Dolci dopo l’arresto, ma insieme all’avvocato Sorgi, si decise di non dare risalto ufficiale a questo sostegno per via del polverone mediatico alzatosi in merito alla autentica o presunta cattolicità del principale imputato.34 Tra i vari componenti non si può non evidenziare l’enorme apporto dato dal padre costituente Piero Calamandrei, protagonista fin dall’inizio della difesa di Dolci e dei sindacalisti in quella che per lui si trasformò in una battaglia di civiltà. Fu lui, insieme a Dolci, a coniare la definizione di “Processo all’articolo 4” e segnatamente, a testimoniare l’incisività del suo apporto, resta la sua ultima arringa, che ancora oggi costituisce un manifesto nazionale di cultura sociale e civile che in sede processuale colpì e commosse i giudici, a segno della sua vivissima ispirazione.
Note
- Tutti i virgolettati al principio dei paragrafi sono citazioni estratte dall’arringa difensiva di Piero Calamandrei del 1956.
- Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo, 2011, pp.152-153-154.
- Giacinto Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, Mesogea, Messina, 2013, p. 48.
- Vincenzo Schirripa, Borgo di Dio. La Sicilia di Danilo Dolci (1952-1956), Franco Angeli, Milano, 2010, p. 30.
- Antonio Vigilante, Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del rosone, Foggia, 2012, pp.43-44.
- Prezioso per le testimonianze dell’arrivo di Dolci in Sicilia è: Grazia Fresco, Due pescatori siciliani raccontano la storia del Borgo di Dio, Porto di mare, Milano, 1954.
- Francesco Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. III, Sellerio, Palermo, 2003, pp.1316-1317.
- G. Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, cit., pp. 75-76.
- V. Schirripa, Borgo di Dio, cit., pp.47-48.
- ’intera raccolta epistolare è in: Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere (1952-1968), Giuseppe Barone, Sandro Mazzi (a cura di), Carocci, Roma, 2008.
- Danilo Dolci, Fare presto (e bene) perché si muore, De Silva, Torino, 1954. Id., Banditi a Partinico, Laterza, Bari, 1955.
- Mirko Grasso, Scoprire l’Italia: inchieste e documentari degli anni Cinquanta, Kurumuny, Lecce, 2007, pp.62-63.
- V. Schirripa, Borgo di Dio, cit., pp. 57-58.
- Franco Grasso, A Montelepre hanno piantato una croce, Avanti!, Roma, 1956, pp.74-75.
- V.Schirripa, Borgo di Dio, cit., p.81.
- Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni: nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, p. 120.
- Goffredo Fofi, Perché l’Italia diventi un paese civile. Palermo 1956: il processo a Danilo Dolci, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2006, pp. 32-33.
- Giovanni Lombardi, Il caso Dolci visto attraverso la stampa, Scuola e città, 31 marzo 1958, anno IX, p. 99.
- Pasquale Beneduce, Un autore a verbale. I processi a Danilo Dolci fra celebrità e censura, Ed. Scientifica, Napoli, 2012, pp. 10-11.
- Vincenzo Schirripa., La costruzione narrativa del “caso Dolci” nei fascicoli del ministero dell’Interno, Educazione Democratica, fasc. 2, giugno 2011, pp. 155-156.
- I testi delle interrogazioni si trovano in: https://sellerio.it/it/catalogo/leggi.php?id=4819 visitato il 27/09/2019.
- D. Dolci, Processo all’articolo 4, cit., pp. 132-133.
- V. Schirripa, Borgo di Dio, cit., p. 95.
- P. Beneduce, Un autore a verbale, cit., pp. 11-54.
- Cristina Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953 – 1967), Adelphi, Milano, 2007, pp. 38-39.
- Dolci sarà difeso da Calamandrei, Battaglia, Comandini, Jemolo, Sorgi. “l’Unità”, 8 marzo 1956, p.2.
- Guido Calogero, Aldo Capitini, Lettere 1936-1968, Carocci, Roma, 2009, p. 333.
- Biblioteca Renzo Renzi – Fondazione Cineteca di Bologna, Fondo Renzo Renzi, carteggio, busta 1021, fascicolo 1, Lettera di Maria Sacchetti Fermi a Renzo Renzi, 26 febbraio 1956.
- La cultura italiana rinnova il suo impegno per Dolci e la redenzione del Mezzogiorno, “l’Unità”, 21 marzo 1956, pp.1-2.
- Cristina Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e altri amici del periodo fiorentino, Adelphi, Milano, 2011, pp.138-139.
- D. Dolci, Processo all’articolo 4, cit., pp. 189-193.
- Donatella Della Porta, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai “no global”, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 101-102.
- Natale Musarra, Danilo Dolci e gli anarchici
- P. Beneduce, Un autore a verbale, cit., p. 47.
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