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Eroine romantiche di Francia. Verso una sociologia letteraria di figure nobilmente cristiane
di , numero 54, dicembre 2022, Note e Riflessioni, DOI

Eroine romantiche di Francia. Verso una sociologia letteraria di figure nobilmente cristiane
Come citare questo articolo:
Davide Monda, Eroine romantiche di Francia. Verso una sociologia letteraria di figure nobilmente cristiane, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 18, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10361


Lo stoico abbandona questa vita senza passione, mentre il martire cristiano muore infiammato da una santa passione per la causa di Cristo, perché sa di far parte del grande dramma della salvezza.
O. Cullmann, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? La testimonianza del Nuovo Testamento, 1986

La professione di fede nella resurrezione di Gesù Cristo costituisce per i cristiani l’espressione della certezza che è vera quella parola che sembrerebbe solo un bel sogno: «L’amore è forte come la morte» (Ct 8,6). Nell’Antico Testamento questa massima è incastonata in un inno che esalta la forza dell’eros. Ciò, tuttavia, non significa affatto che possiamo accantonarla semplicemente come un’enfatica esagerazione innodica. Nelle sconfinate esigenze dell’eros, nelle sue apparenti esagerazioni e intemperanze, viene in realtà alla ribalta una problematica fondamentale, anzi il problema fondamentale dell’esistenza umana, in quanto vi si manifestano la natura e l’intrinseca paradossalità dell’amore: l’amore esige infinità, indistruttibilità, anzi esso è, per così dire, un grido che reclama infinità. Ma contemporaneamente si avverte come questo suo grido sia inappagabile, come l’amore aneli all’infinito, ma non possa darlo; come esso aspiri all’eternità, ma si trovi in realtà imprigionato nel mondo della morte, nella sua solitudine e nella sua forza distruttiva. Da questo si può capire che cosa significhi “risurrezione”. Essa è l’essere-più-forte dell’amore sulla morte.
J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, 2000

Non va dimenticato che, per una vita cristiana, l’orizzonte resta escatologico: un discepolo di Cristo nella sua vita non giunge mai ad essere pienamente cristiano […]. È Dio che porta a compimento il lavoro, l’opera iniziata nel cristiano con il battesimo, ma la porta a compimento con la morte, con l’esodo pasquale da questo mondo.
E. Bianchi, Cristiani nella società, 2007


1. Premessa
A quanto oggi mi consta, dopo la pubblicazione di quel faro transdisciplinare1 che è Le Antigoni (1984) di George Steiner, non si è aggiunto granché di realmente nuovo sulle eroine romantiche, ovvero su quelle figure che, in un torno di tempo compreso, all’incirca, tra il Werther (1774) e lo Shakespeare (1864) di Victor Hugo hanno avuto oggettivamente un ruolo decisivo e inconfondibile nella costruzione dell’immaginario moderno e contemporaneo.
Resta indiscusso e inconcusso, a ogni modo, il valore schiettamente formativo, l’incomparabile, luminosa efficacia paideutica della totalità delle eroine romantiche davvero degne di questo nome: a ben vedere, tutti gli autori che le hanno dipinte degnamente, in sintesi estrema, mai le hanno trattate come personaggi di secondo piano, e dunque tanto semplici quanto prevedibili, bensì quali figure capaci di far meditare adagio e a dovere sulle grandi tematiche e problematiche dell’esistenza, su quei fondamenti imprescindibili, abissali e (sovente) misteriosi dell’humana condicio senza i quali nessuna “vita pensata” (Robert Nozick, 1984) merita, alla fin fine, di essere vissuta.
Reputo convenga rileggere alcune considerazioni, pressoché illuminanti sull’argomento, stese ormai cinque lustri or sono da Stéphane Michaud, comparatista di fama, anche rielaborando quanto magistralmente argomentato in Muse et Madone. Visages de la femme de la Révolution française aux apparitions de Lourdes (Paris, Éditions du Seuil, 1985), senz’altro uno dei suoi volumi più riusciti e utili:

Per il suo valore universale, la condizione femminile offre un osservatorio sul mondo. Il soldato, il rivoluzionario difendono un ordine particolare. Il poeta e il prete fanno appello a una consacrazione. Esclusa da ogni funzione, la donna non è investita da nessuno. Ciò non fa che accrescere la sua libertà. La sua parola si fonda sul suo genio (il quale non ha sesso!), sulla sua qualità di paria o di madre. Libere interiormente rispetto alle costrizioni imposte dagli uomini, le donne inventano: forti del ruolo sociale che è loro riconosciuto, costituiscono reti di solidarietà, all’occorrenza aperte anche all’estero. Se si dovesse definire la donna romantica e prendere posizione a favore del movimento, bisognerebbe insistere sulla sua immaginazione pronta a sollevare dei mondi, sul suo gusto della felicità (rivendicazione essenziale rispetto alle prediche incessanti sull’abnegazione), su una malinconia pregnante. E ancora occorrerebbe rilevare la sua attenzione al quotidiano, cui è più vicina (Michaud, La donna, in Furet [a cura di] 1995: 103).

In verità, il panorama europeo dell’Ottocento è assai ricco di figure paradigmatiche in tal senso: basti qui por mente all’Ermengarda manzoniana e a molte delle donne sublimi dipinte da Goethe, nonché, quasi parallelamente, a tante e tante eroine raffigurate con stili inobliabili – e debbo ora fermarmi, per contingenze editoriali, all’esagono francese… – da Chateaubriand, Stendhal, Lamartine, Vigny, Balzac, Musset, Nerval e Hugo, va da sé, fino alla preziosa Roxane del Cyrano de Bergerac (1897) di Rostand e oltre, per non dire di cento e cento eroine che innervano melodrammi tuttora in buona parte celebri a giusto titolo.
D’altro canto, le due protagoniste su cui ho scelto di concentrarmi – specie, a dirla giusta, per i motivi editoriali testé menzionati – sono unite da vincoli profondi di vario ordine. Come cercherò d’illustrare, di là dai rapporti intertestuali dichiarati e, a ogni buon conto, evidenti nelle prose, queste giovani donne (Atala e Girolama) manifestano col pensiero, con le parole e, più che tutto, con la condotta un’adesione incondizionata e radicale ai valori etico-spirituali del Cristianesimo, una fede senz’altro comparabile a quella di molte figure paradigmatiche nell’agiografia cristiana antica e moderna.
Non casualmente la pratica quotidiana del combattimento spirituale2, ossia di quella lotta contro la parte della propria anima che le inclina al male in ogni sua forma, il desiderio di agire sempre e comunque in armonia con l’agàpe cristiana3, ovvero con l’amore autentico verso Dio e verso il prossimo, nonché l’aspirazione ardente e radicale a una vita oltre questa vita, finalmente sgravata da tutte le miserie congenite nell’humana condicio, sono soltanto alcuni degli elementi che, senza ombra di dubbio, accomunano tali personaggi letterari così amati e meditati – a un dipresso fino alla metà del secolo passato – da molti cittadini europei di ogni età e condizione socio-culturale.
Al di là delle apparenze lato sensu esotiche, il messaggio profondo che anima nitidamente le prose qui indagate è duro, severo, pressoché ascetico: il Cristianesimo è, indubitabilmente, una «porta stretta» (Mt 7, 13-14, ma, forse con maggior potenza anche suasiva, Lc 13, 24) – ogni riferimento all’inesauribile Gide è puramente voluto! – che pretende anche da queste fanciulle scelte esistenziali tanto rigide quanto coraggiose, lontanissime da quelle di parecchie loro coetanee ben più prevedibili, disinvolte e spensierate.
Non pochi né piccoli però sono i doni riservati a tali anime naturaliter cristiane (mi riferisco, beninteso, a Tertulliano e a tanta altra illuminante patristica latina e greca) in questa vita e in una «vita migliore» (Manzoni), ossia nella vita dopo la morte. La vera felicità, certo, ma soprattutto la capacità di donarla a tutti, e in primis agli uomini letteratissimi e nobili d’animo che le hanno amate davvero, ossia in maniera severamente platonico-cristiana, nel loro breve tragitto esistenziale. E – ironia della sorte, ironia della morte – saranno proprio questi galantuomini, incondizionatamente devoti da ogni punto d’osservazione, a renderle immortali – almeno in qualche misura.

2. Atala e il suo ruolo nell’opera di Chateaubriand
Atala di Chateaubriand: non si può non ammettere che, anche per diversi intellettuali della nostra epoca, il primo è soltanto il titolo di un libro e il secondo soltanto il cognome eufonico di un personaggio, tanto importante e illustre quanto, di fatto, quasi sconosciuto.
Eppure, quello che il lettore potrebbe meditare (o rivisitare) non è davvero un testo narrativo qualsiasi, e neppure una delle tante creazioni che, quantunque rilevanti o addirittura decisive, giacciono pressoché intonse e mute negli scaffali di migliaia di biblioteche del mondo intero per ragioni essenzialmente legate alle mode e al mercato.
«Par sa brièveté, par son équilibre, par son style – asserì eloquentemente e con ragione Fernand Letessier (1958: 56) –, Atala doit encore, en dépit d’un certain vieillissement qui lui confère le charme des choses anciennes, captiver l’attention et émouvoir les cœurs». Si tratta, anzitutto, di un vero e proprio mito culturale, che godette di grande successo all’alba dell’Ottocento, e che ancora permane indisturbato nei canoni più attendibili della letteratura francese.
Lungamente elaborato (oltre dieci anni), assai ben documentato e composto con arte sapiente, felice e incontentabile, nel 1801 questo piccolo libro rese famoso l’ancor giovane François-René de Chateaubriand (1768-1848), un protagonista assoluto delle lettere sette-ottocentesche che fu, tra l’altro, uno dei “padri fondatori” indiscussi di quel Romanticismo europeo che, come dianzi sottolineato con energia, ancora tanto incide – in maniera, certo, ora più ora meno diretta – sull’immaginario, la società, la vita contemporanee. Basti pensare, in effetti, ai numerosi film di successo che s’ispirano a trame, avventure o, più in generale, a valori squisitamente romantici quali una visione alta, nobile e spesso drammatica dei sentimenti, una passionalità fervente e non di rado incontenibile, l’eroismo doloroso dell’intelligenza geniale o della fede autentica, il culto di una natura grandiosa e incontaminata, consolante e misteriosa, la condizione d’isolamento pressoché totale del vero artista.
Discendente da una nobile famiglia bretone, dopo un rispettabile corso di studi e l’avvio alla carriera militare, il giovane tenente Chateaubriand è presentato a corte nel 1787; a Parigi frequenta salotti alla moda e ambienti letterari che a poco a poco l’allontanano dalla fede cattolica in cui è stato educato sin dall’infanzia. Favorevole dapprima alle istanze rivoluzionarie, non riesce peraltro ad accettarne gli aspetti cruenti, e anche dietro l’impulso della famiglia parte per il suo primo viaggio in America, ove soggiorna dal 10 luglio al 10 dicembre 1791, riportandone i documenti e le forti suggestioni che gli ispireranno Atala e René, due incantevoli e, nel contempo, stricto sensu tragici racconti colmi di riferimenti autobiografici, che incastonerà poi ne Le Génie du Christianisme (1802). La morte della madre e di una sorella, infatti, hanno frattanto contribuito sensibilmente a ricondurlo nell’alveo della sua fede originaria.
Quest’opera apologetica di ampio respiro – un testo prevalentemente letterario, giudicato da più parti debole sul piano filosofico e morale – ottiene notevole successo e risonanza presso l’opinione pubblica francese, contribuendo non poco al poderoso movimento di rinascita religiosa che si manifesterà dopo la Rivoluzione. Nello Génie, si sa, Chateaubriand si propone di rispondere alle tesi di taluni philosophes, che assai spesso avevano liquidato qualsivoglia fenomeno religioso come un coacervo di superstizioni assurde e persino risibili. Dapprima favorevole all’avvento di Napoleone, lo scrittore viene da questi nominato ambasciatore a Roma, ma nel giro di pochi anni egli si dissocia dal regime imperiale, e si ritira vicino a Parigi, ove scrive Les martyrs (1809), una monumentale, documentatissima epopea di conversione, fede, amore e morte ambientata all’epoca di Diocleziano, e l’Itinéraire de Paris à Jérusalem (1811), il libro suggestivo e accattivante ove trasfigura da par suo un viaggio di studio e formazione compiuto fra il 1806 e il 1807.
Eletto all’Académie Française, non può tuttavia pronunciarvi il suo discorso d’ingresso, dal momento che è un vero e proprio atto d’accusa contro il regime napoleonico, e in qualche modo segna l’inizio della sua attività politica. Ma Chateaubriand resterà deluso anche dalla Restaurazione e un po’ alla volta, pur senza rinunciare alle sue convinzioni legittimiste, si allontanerà dalle vicende dell’attualità politica per dedicarsi tota mente al lavoro letterario e storiografico; nel 1826, comincia a dare alle stampe le sue OEuvres complètes.

Opera varia, complessa, di una ricchezza lussureggiante quella di Chateaubriand – affermò da par suo, parecchi decenni or sono, Carlo Pellegrini, egregio e appassionato esploratore del Romanticismo europeo, nonché attento e sottile traduttore del Baudelaire critico – e che non è certo agevole ridurre a una unità di ispirazione dalla quale derivino le varie manifestazioni. Tanto più che non siamo di fronte – anche se qualche volta possiamo averne momentaneamente l’illusione – a uno scrittore che abbia un suo saldo organismo di pensiero, ma ad un poeta che si lascia spesso trascinare dalla sua mobile fantasia o impressionare dalle vicende del momento; né va dimenticato il suo temperamento egocentrico che, dinanzi a uomini ed eventi, non riesce mai a dimenticare se stesso. Quel che importa di tener presente è la forza di trasfigurazione poetica che egli esercita su tutto ciò che forma oggetto della sua attenzione: ricordi di cose viste e dei molti libri letti, figure della storia o persone conosciute, accanto a creazioni della sua immaginazione, a descrizioni di luoghi visti o sognati, a sapienti orchestrazioni di motivi che egli intuisce vivi nel profondo dell’anima francese, anche se da lungo tempo sopiti. Separare i ricordi del vero dagli elementi immaginari o aggiunti in qualsiasi modo, l’invenzione sua dalle reminiscenze culturali non è sempre facile né utile, almeno per quello che riguarda il giudizio sul poeta, che è quello che più importa (1969: 334-335).

Tormentato da una fastidiosa malattia reumatica, Chateaubriand vive gli ultimi anni dedito alla meditazione e muore nel 1848, tre mesi prima dell’apparizione dei Mémoires d’outre-tombe. Nel corso della sua vita lo scrittore bretone è intervenuto sensibilmente nel rinnovamento letterario europeo fra Sette e Ottocento, suscitando altresì un notevole interesse per le grandi epopee del passato, per la Bibbia e la storia del Medioevo, e un sentimento nuovo della natura – ch’egli peraltro si sforza di conciliare con le esigenze della società – e delle sue onnipresenti bellezze. Anche la religione cristiana, con il meraviglioso delle cattedrali e dei riti che ne sono parte integrante, viene ad assumere un ruolo fondamentale non solo di guida, ma anche di compensazione alla solitudine e all’ennui tutto romantico dei protagonisti delle sue opere più famose.
Egocentrico e sognatore, potente nelle grandiose visioni naturali, Chateaubriand, con il suo stile lirico e suggestivo, è universalmente considerato uno dei massimi precursori del Romanticismo e, in qualche misura, il restauratore della “fantasia” già bandita dal razionalismo del Sei e del Sei-Settecento. Di lui e della permanenza nel tempo dei suoi libri Albert Thibaudet, critico – oggi finalmente è notorio – fra i più intelligenti e raffinati della prima metà del Novecento, ha scritto: «Più che una serie di tomi da biblioteca, andrebbe considerato come un grande essere vivente. Certi moti intimi, certi spostamenti ritmici, i temi generali della vita e delle lettere francesi passano e si spiegano per tramite suo. Sarebbero stati diversi, e noi pure con loro, se Chateaubriand fosse nato qualche anno prima o dopo; se, nella bilancia in equilibrio, di due secoli e di due geni, uno dei piatti fosse stato carico di abitudini parigine del 1780, o di romanticismo, e inclinato verso Bernardin o Lamartine» (Thibaudet 1967: 32).
«Figura dominante nella sua epoca – asseriva poi, in anni più vicini ai nostri, un critico di erudizione e gusto ammirevoli come Mario Bonfantini a proposito del ruolo determinante svolto dall’autore di Atala nel Romanticismo internazionale –, Chateaubriand ebbe immensa influenza sulla cultura, con temi destinati a lunga fortuna (la nuova valutazione dello stile gotico, la bellezza della deserta campagna romana, la maestà della Grecia antica nei suoi superstiti monumenti); e anche sulla spiritualità del suo tempo, soprattutto con René, il breve e intenso romanzo contenuto nel Genio del Cristianesimo, il cui protagonista è l’eroe romantico tipico (in parte autobiografico), solitario fra i propri simili, divorato da una fatale, impossibile passione. Ma l’influsso più duraturo lo esercitò sull’arte letteraria vera e propria, col suo stile colorito e musicale, dai periodi ampiamente orchestrati, che servirà di modello a Flaubert» (Bonfantini 1969: 72). Non diversamente da René, anche il personaggio di Atala diverrà un modello assai apprezzato per tanti scrittori dell’Europa ottocentesca: se il primo, in effetti, inciderà su un’autentica legione di figure idealiste e sconsolate, assetate d’assoluto e rose da angosce radicali e laceranti, la seconda influenzerà sensibilmente la creazione di un gran novero d’eroine belle e virtuose, malinconiche e ardite, tormentate ed estreme.
Ma il motivo principale per cui ho pensato di promuovere una meditazione su Atala non è, a dirla giusta, il desiderio di far conoscere davvero un monumento prestigioso e riuscito, un incunabolo forse imprescindibile del patrimonio letterario moderno. Persuaso come sono che questo breve romanzo possegga ricchezza, intensità e forza espressiva affatto straordinarie, e che sia dunque ancora in grado di donare pure alle coscienze postmoderne, sempre più confuse, disorientate e disincantate, validi stimoli e orientamenti specie di natura etica, psicologica e antropologica, auspicherei infatti che i lettori considerassero qualsivoglia confronto con Atala soprattutto come un’occasione eccezionale e preziosa, come una discussione seria e attenta con parecchi dei temi, problemi ed enigmi fondamentali affrontati dall’insigne scrittore e maître à penser di Francia.
Riflettendo senza fretta su questo piccolo capolavoro, vi si potranno cogliere – credo – diversi contenuti importanti quanto coinvolgenti, che appaiono tuttora vivi perché sono intramontabili, universali. D’altronde, la fresca ed eloquente attualità di questo classico si potrà percepire appieno soltanto se, non lasciandosi ammaliare né, viceversa, allontanare da aspetti indubbiamente legati a un mondo e a una sensibilità da gran tempo oramai sfioriti, si ascolteranno con paziente concentrazione i messaggi essenziali e vivificanti che animano le sue studiatissime pagine.
Lucido estimatore e, a dirla giusta, brillante continuatore di quella gloriosa tradizione dei moralistes francesi che va dal Rinascimento al Siècle des Lumières – ovverosia di quegli autori che scandagliarono con avvincente finezza e originalità sovente geniale i labirinti, gli abissi e le incessanti metamorfosi dei costumi, della condotta e del cuore –, Chateaubriand si propone di ragionare, in questa sorta di poema in prosa che, per più motivi di vario ordine, tanto gli era caro, sopra talune questioni decisive e ineludibili, che prima o poi s’impongono nell’esistenza di ogni persona pensante di ieri come di oggi.
Fra le non poche idee centrali superbamente delineate dal nostro malinconico e tormentato homme de lettres, segnalo l’enigmaticità sconcertante e i limiti gravosi propri della natura umana, la complessità sfuggente e disarmante dei rapporti interpersonali, le numerose e difficilmente sormontabili difficoltà che sempre contraddistinguono le relazioni fra civiltà e culture lontane e alquanto diverse, la disciplina e i travagli che accompagnano qualunque sentimento religioso vissuto sino in fondo, gli effetti assurdi, tremendi, ineluttabili di ogni forma di fanatismo, l’equilibrio esemplare e illuminante elargito da un rapporto razionale e ragionevole con la divinità, gli splendori e le miserie dell’amicizia, il potere mirabile dell’amore umano rettamente inteso e manifestato.
A esempio, sia nei Natchez, ampia epopea indiana in prosa, sia nel Voyage en Amérique, diario di viaggio policromo e seducente, sia in Atala e René, fortunatissimi romanzi brevi che tanto influiranno – come s’è accennato – sulla letteratura e la cultura ottocentesche, Chateaubriand rielabora esperienze fatte in America, ove si era recato nel 1791.
Nato come episodio dei Natchez e poi compreso – con le necessarie modifiche – nell’articolata struttura del Génie du Christianisme (1802), un’impegnativa e corposa opera volta a difendere ed esaltare le bellezze e le virtù del cattolicesimo, Atala, ou les amours de deux sauvages dans le désert sarà tuttavia pubblicato un anno prima del Génie. Perché Chateaubriand si mosse in tal modo? Secondo le interpretazioni più recenti e accreditate, egli, ancora pressoché ignoto nel suo paese, aspirava a farsi conoscere, e riteneva altresì necessario preparare il pubblico al suo grande libro apologetico.
Protagonista della vicenda è il vecchio Chactas, un indiano della tribù dei Natchez nato nel 1653 che, nel 1725, racconta al giovane francese René, giunto in Louisiana dopo anni dolorosi, i momenti più significativi della sua gioventù. A seguito della sconfitta della sua tribù ad opera dei Muscogulgi, Chactas viene accolto dallo spagnolo Lopez e dalla sorella, due magnanimi cristiani che gli riservano ogni cura ed attenzione. Sopraffatto dalla nostalgia della sua vita precedente, Chactas lascia nondimeno questa famiglia di benefattori per tornare nei boschi, ma viene ben presto catturato dai temibili Muscogulgi. A salvarlo in extremis da morte certa sul rogo è la splendida Atala, un’indiana cresciuta, in virtù dell’educazione impartitale dalla madre, nella religione cattolica. Fra i due giovani nasce un profondo e autentico amore reciproco, che si rafforzerà gradualmente durante le avventure che vivranno insieme. Fuggiti dall’accampamento, vengono tuttavia ben presto ripresi; ma, grazie ancora una volta alla sagacia e alla prontezza di Atala, riusciranno a liberarsi di nuovo.
Nella loro fuga tra le foreste, nel corso di un violento temporale, la giovane indiana – innamorata toto pectore di Chactas ma, al tempo stesso, tutt’altro che disposta a concedersi a lui – gli narra parte della propria storia: ella rivela così d’esser figlia di un’indiana e di uno spagnolo, che – qual meraviglia! – altri non è che il buon Lopez! Tale confessione improvvisa e stupefacente rafforza più ancora, evidentemente, il legame sentimentale fra i giovani Indiani.
Proprio allorquando Atala è sul punto di cedere al proprio sentimento per Chactas, i due vengono soccorsi da Padre Aubry, un missionario francese di tempra etico-spirituale eccezionale che, grazie a sforzi costanti ed instancabili, è riuscito a convertire al Cristianesimo diverse famiglie d’Indiani, i quali ora vivono bene organizzati in una comunità non lontana dalla sua dimora. Egli ospita quindi i giovani nella grotta ove abita, e li esorta generoso a risiedere definitivamente assieme agli altri Indiani. Il mattino dopo, mentre Atala riposa ancora, padre Aubry invita Chactas ad accompagnarlo alla comunità indiana, che continua a dirigere spiritualmente. Il giovane ha così modo di constatare de visu l’ordine e la prosperità, la serenità e la pace che contraddistinguono quegli Indiani rischiarati dalla religione e dalla ragionevolezza del religioso europeo.
Ma, ritornati alla grotta, il vecchio e il giovane si trovano dinanzi a un’orribile sorpresa: Atala giace morente nel proprio letto. Ben presto la fanciulla confessa d’essersi avvelenata in maniera irrimediabile, in quanto temeva di violare un voto fatto da sua madre, secondo cui ella avrebbe dovuto restar vergine. Con toni e modi semplici quanto efficaci, che il lettore italiano è sùbito tentato di associare a quelli del Padre Cristoforo manzoniano, Padre Aubry le spiega allora che un cristiano non può disporre della propria vita e ch’ella poteva dunque esser sciolta dal voto, ma ormai è troppo tardi: dopo avere incoraggiato il suo diletto a condurre una vita virtuosa e a convertirsi al Cristianesimo, Atala spira. L’indomani il vecchio e il giovane seppelliscono il suo splendido corpo con grande sobrietà, e quindi il primo esorta il secondo a raggiungere la propria tribù.
Nell’Epilogo, un viaggiatore europeo (alter ego palese di Chateaubriand) narra d’avere incontrato, presso il Niagara, gli ultimi Natchez superstiti. Là un’indiana, che si scopre discendere dal francese René, gli descrive la tragica fine del suo avo, di Padre Aubry e di Chactas, che peraltro, prima della morte, aveva abbracciato la “vera religione”.
Oltre che ad opere celebri di Voltaire, di Rousseau e di Bernardin de Saint-Pierre, il racconto deve molto – come ha puntualmente illustrato Armand Weil nell’introduzione alla sua eccellente edizione critica del racconto (1950: passim) – ad opere di viaggiatori che, nel Settecento, osservarono la vita e le abitudini degli Indiani d’America: fra questi, conviene qui menzionare almeno il gesuita francese Pierre-François-Xavier de Charlevoix, che nel 1744 diede alle stampe un’enciclopedica, dettagliatissima Histoire et description générale de la Nouvelle France (1744); l’americano William Bartram, ottimo botanico nonché valente scrittore di gusto preromantico; l’inglese Jonathan Carver che ad onor del vero, a prescindere dall’alta considerazione in cui lo teneva Chateaubriand, sembra non aver mai viaggiato e, di conseguenza, non aver visto nulla di quanto racconta e descrive… Assai diligente e curioso, Chateaubriand, probabilmente, ebbe modo di compulsare altresì i libri del compilatore americano Gilbert Imlay, del barone Lahontan, del marchese La Potherie, di Le Page du Pratz e di altri autori ancora.
Davvero non comune, come già indicato, appare la fortuna di Atala, la prima opera compiuta, originale e romantica di François-René de Chateaubriand, che ha da essere considerato senza tema di smentita il “padre legittimo” del grande Romanticismo francese. Al di là delle critiche mosse da taluni intellettuali ancor legati ad un classicismo rigido, puntiglioso e, per molti versi, ormai invecchiato (l’idéologue Ginguené, Marie-Joseph Chénier e, soprattutto, l’abate Morellet, che pubblicò un intero opuscolo di taglienti osservazioni sul testo), il breve romanzo otterrà un successo di pubblico cospicuo, che lo porterà a divenire persino un vero e proprio fenomeno di costume.
Quanto poi agli scrittori delle generazioni successive, da Alphonse de Lamartine ad Alfred de Vigny, da Victor Hugo a Gérard de Nerval, da Honoré de Balzac a Gustave Flaubert, pochi protagonisti reali dell’Ottocento letterario d’oltralpe rimasero insensibili alla superba perizia stilistica, al pathos seducente e al cesellato esotismo del récit chateaubriandiano.
Ma che ha ancora da dirci (e darci) quest’opera composta oltre due secoli fa? Riprendendo quanto si diceva dianzi, sono convinto che, più dei pur magnifici affreschi di grandiosi e ammalianti paesaggi americani ed anche più delle meticolose descrizioni di usi e costumi indiani, ciò che rende Atala viva e attuale oggi siano i valori, le tematiche e le problematiche che lo scrittore vi ha abilmente inserito.
Posso menzionare, fra il resto, l’amore tra i due giovani, un affetto insieme nobile e appassionato che si fonda su vera stima e profondo rispetto, sull’assoluta fiducia reciproca e su una generosità magnanima disposta a spendersi senza risparmio e, se necessario, a sacrificarsi per la persona amata. Colpisce, poi, la disincantata, dolente consapevolezza dei pesanti limiti connaturati ad una natura umana imperfetta e troppo spesso vittima delle proprie passioni: si tratta di un’idea che Chateaubriand condivide con autori antichi e moderni a lui ben noti e cari, come l’Ecclesiaste, Giobbe, Pascal, Racine, Bossuet, Fénelon, Rousseau e Bernardin de Saint-Pierre, un philosophe e un narratore, quest’ultimo, a lui per più ragioni assai vicino. Le tematiche squisitamente religiose, comunque, hanno un ruolo decisivo in questa narrazione che – non si dimentichi – mira dichiaratamente a raggiungere fini edificanti ben precisi.
Così, al fanatismo cieco e iniquo della madre di Atala e del missionario in cui confida, i quali hanno moralmente costretto la giovane ad ubbidire a un voto ingiusto che la obbliga alla castità ed al nubilato, si oppone con energia animosa Padre Aubry, il cui Cristianesimo – sì severo e rigoroso, ma al tempo stesso alieno da ogni irragionevolezza – non può ammettere violenze psicologiche simili, che schiacciano colpevolmente la libera volontà del singolo. Sarà proprio tale visione distorta e disumana della fede, figlia dell’ignoranza e del pregiudizio, a portare la fanciulla, nella cui coscienza turbata combattono senza requie la terribile promessa fatta alla madre e l’amore leale e profondissimo per Chactas, al suicidio mediante un veleno contro il quale non c’è antidoto.

3. Interludio manzoniano: Lucia come eroina romantica europea
Non solo per sorprendere il lettore, mi sta a cuore introdurre qualche riflessione sulla Lucia manzoniana, e dunque su una delle creazioni letterarie più riuscite e fortunate di quel proteiforme e, per più aspetti, inesauribile homme de lettres europeo che è stato Alessandro Manzoni4.
Come ha ricordato in diverse occasioni anche Umberto Eco5, se gli italiani di cultura media o alta – la quasi totalità, temo, salvo sparute eccezioni (una per tutte: chi scrive queste pagine!) – facessero un sano esame di coscienza, dovrebbero ammettere che da studenti hanno vissuto i Promessi Sposi con mesta rassegnazione, come una sorta di appuntamento didattico sgradevole quanto inevitabile. Nessuna meraviglia, quindi, che generazioni di giovani abbiano più che faticato ad appassionarsi alla lettura del romanzo, e che altrettante generazioni d’insegnanti abbiano faticato non meno al fine di creare un sia pur lieve interesse per quel macroargomento che anche loro, forse, avevano imparato male e insegnato peggio.
Perché mai – viene spontaneo chiedere – al buon Don Lisander è toccato un destino così infausto? Forse perché – si potrebbe rispondere – il suo romanzo è sempre stato considerato “vecchio” rispetto alle generazioni di studenti testé evocate, e dunque portatore di problematiche, valori, situazioni e personalità cristallizzati in un determinato momento storico, denunciato pure dalle scelte linguistiche dell’autore, donde non si poteva de facto tentar di uscire6.
Dal canto mio, sono persuaso non solo che si possa discutere (se non ribaltare!) siffatto paradigma ermeneutico, ma che si debba cominciare a muoversi in tal senso proprio a partire dalla Pubblica Istruzione, mostrando in primis et ante omnia che sussistono ottimi motivi per leggere i Promessi Sposi considerandolo per quello che realmente è, ovverosia un romanzo di grande attualità con il quale è possibile, anzi è auspicabile confrontarsi, instaurando quell’intimo, fruttuoso dialogo sempre e comunque indispensabile allorquando si desideri indagare e penetrare effettivamente il pensiero e la parola di un autore degno di questo nome. Nella presente sede, come oramai intuibile, insisterò particolarmente sulla sostanza severa e, per molti versi, scomoda della sua dimensione escatologica.
I Promessi Sposi è – come nessuno ignora – un romanzo storico: ma che vuol dire romanzo storico? Al di là delle tassonomie dei generi letterari, tale romanzo è quello in cui la storia si esprime, ma non già (salvo rare eccezioni) per bocca dei grandi personaggi, bensì di quelli piccoli e, in apparenza, marginali, che spesso soffrono la storia attraverso soverchierie e silenzi, negazioni dei diritti fondamentali e umiliazioni di ogni sorta: qui il narratore si fa testimone e insieme portavoce, restituisce a esseri umani in carne ed ossa quel diritto a una memoria, collettiva e particolare a un tempo, che appare irrinunciabile a chiunque, oggi.
Diversi studiosi de race hanno chiarito da tempo come Manzoni abbia compiuto il complesso e prolungato travaglio che fiorì nel romanzo più a Parigi che non a Milano, a stretto contatto con una generazione di storiografi e pensatori sovente insigni, che possedevano, fra l’altro, il desiderio e la capacità narrativa di far parlare il popolo: tale fu il crogiolo intellettuale ove – pure sulla scorta di letture decisive come Cervantes, Shakespeare e Walter Scott –, il Nostro affinò la propria capacità critica, nonché la consapevolezza che nulla fosse eticamente più valido, in ambito creativo, che raccontare la verità storica ponendosi in una prospettiva realistica che gli permettesse di ricostruire, attraverso le vicende e le peripezie dei personaggi via via tratteggiati, i conflitti storici e le crisi sociali del passato.
Distillando il proprio pensiero attraverso le lenti e gli specchi della morale cattolica, Manzoni ottenne un risultato di limpidezza e potenza inedite: esiste la sofferenza nella storia umana; esiste una tensione etico-spirituale continua e spesso confusa negli uomini e nel divenire delle cose; esiste la libertà di scelta, il libero arbitrio, un dono divino ch’è insieme miracolo e terribile responsabilità individuale, e non fa sconti né concede dilazioni ad alcuno.
L’opus magnum di questo grande romantico europeo è un sinfonico intreccio di macro e microstoria: lo scenario macrostorico è quello della guerra dei Trent’anni, con il passaggio dei lanzichenecchi attraverso la Lombardia per raggiungere Mantova e stringerla d’assedio, con le conseguenze inevitabili di carestia e di peste, ordinate in crescendo, laddove la microstoria è quella della piccola, vulnerabilissima comunità lombarda all’interno della quale, nello spazio di due anni, accadono vicende e fatti ai quali gli individui rispondono e si propongono in modo corale, polifonico – per usare una fortunata categoria bachtiniana.
Dal momento che i personaggi agiscono e hanno senso autentico in questo contesto polifonico, non credo sia legittimo considerarli quali unità a sé stanti, quali monadi irrelate: ogni microstoria, in fondo, esiste a partire dalle esistenze altrui, che la sostengono, le conferiscono spessore e significato. D’altra parte, ai fini del presente saggio, mi appare necessario fissare con gli occhi della mente quelle figure che meglio esprimono, probabilmente, la tensione escatologica del testo.
Il romanzo, nel suo complesso, risulta quasi sovversivo anzitutto per la pretesa di conferire dignità di protagonisti a personaggi dei quali spesso la Storia si dimentica; si rivela inoltre originalissimo con il suo infaticabile indagare la verità morale nei fatti, anziché modificare o inventare i fatti per dimostrarla, con la sua attenzione finissima alla totalità delle umane emozioni, dalle più alte alle più meschine – si concedono peraltro spazi piuttosto esigui, ma comunque significativi, a quell’amore ch’era stato oggetto di tanta letteratura – e anche col suo scandagliare l’universo ecclesiastico senza indulgenza, rivelando che il male alligna anche all’interno di un convento, che un prete può essere un pavido o che un prelato è stimabile non perché viene da una famiglia illustre, ma perché pone i vantaggi della propria nascita al servizio degli altri.
Giova sottolineare la forza di siffatto uso della storia, cercando di mostrare quanto i temi manzoniani e i personaggi che li rappresentano siano, oggi, assolutamente attuali: se osserviamo con qualche attenzione, cercando di spingerci oltre l’epidermide del testo, percepiamo chiaramente che la narrazione procede sulle tracce di argomenti che sono, contemporaneamente, nel tempo ed oltre il tempo, cioè universali. Invero, il problema della condizione sociale e quello dello status giuridico di donne e uomini – con tutto il loro peso, le loro conseguenze e (spesso) le loro gravi iniquità –, quello della grazia e quello del perdono, quello della giustizia e quello della conversione, quello della morte e quello della speranza sono tutti argomenti di grande attualità, con cui il mondo contemporaneo è tenuto quotidianamente a fare i conti.
Le vicende di Renzo, Lucia e di quasi tutti gli altri personaggi – comparse o comprimari – costituiscono la concretizzazione di quel vero poetico che, ad avviso del gran lombardo, è l’unico spazio ove la letteratura possa impegnarsi con efficacia senza violare le ragioni della storia, bensì prendendo da quest’ultima tutto ciò che ne costituisce parte integrante senza essere mai raccontato.
Manzoni vede il “male radicale” connaturato all’humana condicio esercitarsi in special modo sulla politica, con la presunzione di sostituire alla morale di Dio quella propria, di schiacciare la giustizia sotto l’utilità più egoistica, di prendere atto della debolezza umana solamente per sfruttarla. Il riscatto può venire solamente da una certezza teologica, dalla piena fiducia nella Provvidenza divina, una forza invisibile ma onnipresente e onnipotente, la quale opera sulle trame ordite dagli uomini travolgendole con i propri disegni, che ci sfuggono, sì, ma ci coinvolgono comunque. Non si tratta affatto di una fede passiva, ma di un impegno globale attivissimo, giacché (com’è arcinoto) l’esistenza per Manzoni non è festa per qualcuno e peso per molti, ma impegno per tutti; per soprammercato, essa rappresenta un engagement del quale si è chiamati, senza eccezioni, a render conto dinanzi a Dio. In una visione alta e severa del nostro essere nel mondo e dentro la storia, lo scrittore richiama l’idea di un’uguaglianza sostanziale degli esseri umani, che passa attraverso l’impegno di ciascuno al servizio degli altri e della società.
Tutti i personaggi dei Promessi Sposi fanno parte di un organismo complesso e ben organizzato, mirabilmente corale, ove ciascuno ha una propria parte indispensabile anche per le vicende di tutti gli altri. Storicamente, i due protagonisti della vicenda, Renzo e Lucia, sarebbero da ascrivere al ruolo di vittime, e tuttavia crediamo sia necessario intendere questo termine in un’accezione aliena da ogni passività. In effetti, non si può proprio asserire che i protagonisti escano sconfitti, materialmente e moralmente, dalle prove cui sono sottoposti nel corso dell’intera narrazione: in vari modi e tempi, mai trionfalmente, essi superano, al contrario, tutte quante le sfide che, loro malgrado, hanno dovuto accettare, e ne escono in grado di riprendere la loro esistenza consueta quasi dal punto in cui l’avevano lasciata.
Lucia è una giovane donna che vive sola con la madre; disgraziatamente, non ha un padre che possa costituire un punto di riferimento sociale, economico e giuridico, e sostiene il suo piccolo nucleo familiare con il proprio lavoro. Secondo le norme e le consuetudini del tempo, la giovane è sottoposta all’autorità della madre Agnese che, come capofamiglia, ha il potere di controllo sulla figlia, nonché il dovere di protezione nei suoi confronti. Che Lucia lavori non ha alcuna rilevanza sociale, tranne per il fatto che il suo lavoro è finalizzato, come quello di molte altre sue coetanee nella medesima condizione sociale, a procurarle la dote, un requisito indispensabile per l’accesso al matrimonio. Lucia lavora come operaia in un setificio, realtà comune – nel Seicento ma anche dopo – nel mercato del lavoro settentrionale e, soprattutto, nel comasco.
In quanto giovane donna nubile, Lucia non è, a livello giuridico, soggetto autonomo di diritto, e risulta pertanto esposta da molti punti di vista: il lavoro, necessario per la sopravvivenza del piccolo nucleo familiare femminile a cui appartiene, la fa uscire di casa e la rende troppo visibile; la sua condizione sociale; la mancanza di tutela giuridica; l’assenza di un padre; l’impossibilità, da parte della madre, di proteggerla effettivamente; la necessità di render conto del proprio comportamento non solo alla madre, ma a tutta la comunità.
Poste schematicamente tali premesse, è quasi inevitabile che, nel momento in cui cominciano le molestie da parte di Don Rodrigo, che ritiene di essere nel suo pieno diritto, da uomo e da signore del luogo qual è, Lucia non ne parli ad alcuno: in lei prevalgono l’atavica vergogna, quel senso di colpa che affligge ogni donna molestata o peggio, facendo sorgere a mano a mano, nel suo intimo, l’idea che, dopotutto, la colpa di tale vera e propria persecuzione morale e psicologica sia anche sua. Ella cerca invece di proteggersi in altre maniere: dapprima mettendo in pratica il consiglio del suo confessore di affrettare le nozze e quindi, allorché le cose precipitano, rivolgendosi toto pectore all’unica fonte di difesa che giudica possibile e sicura, la profonda fede cristiana.
Lucia non è certo la svenevole donnetta perennemente in lacrime o in preda ai famosi e famigerati rossori, e neppure – come sostiene Perpetua con una buona dose di sadismo inconsapevole – l’ipocrita pronta a celarsi dietro ai grani del rosario alla prima difficoltà; al contrario, la giovane sa bene di non avere altre risorse oltre alla fede, che in lei è insieme semplice, fonda, adulta e matura: Manzoni, a ben vedere, così ce la presenta fin dall’inizio della storia.
Lucia dunque vi appare già un personaggio a tutto tondo, che non ha bisogno di crescere o di cercare se stessa; Renzo, viceversa, si rivela subito un giovane impulsivo: di lui Manzoni non tarda a evidenziare quella «lieta furia di un uomo di vent’anni» che, come ognun sa, gli farà commettere un’infinità di errori di vario ordine.
Alla conclusione del romanzo, dopo un pandemonio di peripezie, mortificazioni ed angosce, Lucia nulla ha imparato, di fatto, che non sapesse già ab initio: ha ben chiaro, nella sua fede semplice ma profonda, uscita intatta da tutte le prove, il senso del limite radicale connaturato ad ogni sforzo umano, l’insufficienza di qualsivoglia mente umana di fronte alle incognite della vita. La donna osserva con semplicità lucida e disarmante che i guai vengono pure a chi non li cerca, a chi fa di tutto onde mantenersi innocente, e – insieme con un Renzo fatto più saggio dalle amare esperienze vissute – conclude che solo una completa fiducia in Dio sa renderli sopportabili ed edificanti, sa accettarli come occasioni di perfezionamento, conferendo ad essi un senso ben preciso di ordine e respiro oltremondani – l’unico orizzonte, beninteso, davvero appagante.
Il significato profondo della storia di Lucia, a ogni modo, non è circoscrivibile negli angusti confini dell’hic et nunc, ma li oltrepassa, va al di là del divenire implacabile della storia e diventa così universale, proprio perché implica un’antica, immane questione teologica, ossia la gratuità del male, della sofferenza e del dolore, che aggrediscono inesorabili finanche coloro che non hanno responsabilità o colpe. Il fulcro di tutta la questione resta comunque l’autentica fede in Dio, il superamento della dimensione dell’hic et nunc nella consapevolezza che la vita terrena altro non è che un passaggio e una preparazione a «una vita migliore» (XXXVIII 68), a una condizione che trascende di gran lunga quella «valle di lacrime» che è – sempre e comunque, in un’ottica cristiana – l’esistere nell’imperfezione connaturata alla persona umana.
In più riprese la critica (forse) più attendibile ha sottolineato l’indubbia consonanza di queste posizioni con quello che ha da essere considerato il testamento etico-spirituale di Padre Cristoforo, l’infaticabile, eroico «cavaliere della fede» (Kierkegaard 2019: passim) che, da psicagogo insieme perspicace, inflessibile e umanissimo, ha sapientemente orientato la crescita interiore di Lucia. Nel lazzaretto, oramai sfibrato dalle fatiche e dalla peste, aveva infatti affermato, rivolgendosi prima a Renzo e poi ad entrambi i promessi:

E tu, […] ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura d’alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutt’e due sulla strada della consolazione che non avrà fine. Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’istillar loro l’amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto (XXXV 76-77).

Di catastrofi, disgrazie, ingiustizie, miserie et similia, Renzo e Lucia ne hanno vedute e vissute a profusione: dal dispotismo scatenato, cupido e, alla fin fine, assurdo di Don Rodrigo sino ai disastri crudeli della peste, passando per mille altre follie, meschinità e perfidie, essi hanno davvero avuto modo di esperire quanto dura e penosa sia «l’aspra tragedia de lo stato umano» (Tasso, Liberata, XX 73). Le parole proferite qui da Fra Cristoforo potrebbero sembrare ictu oculi la previsione di un’altra raggelante disgrazia, ma in realtà additano, viceversa, l’unica vera via di liberazione da un mondo, da una società, da un sistema irreversibilmente dominati dal male.
Così, secondo la sapienza e la saggezza severamente cristiane dell’animoso cappuccino, i due giovani, oltre a dover attribuire il valore che meritano alle gioie terrene, sempre fragili, transeunti e frammiste d’affanni, dovranno stimare la morte non già come la fine inesorabile e straziante di un percorso compiuto insieme, bensì – tutt’al contrario – come il solo passaggio praticabile in grado di condurli alla dimensione celeste, incommensurabilmente superiore per bellezza, giustizia, felicità ed ogni altro bene rispetto a quanto hanno lasciato dietro di loro.
Vero campione del Cristianesimo militante è, come nessuno ignora, padre Cristoforo. Questi nasce come Lodovico, un giovane borghese senz’altro magnanimo e animato da encomiabili intenzioni, ma al tempo stesso orgoglioso e instabile, che si trova ben presto a vivere un’esperienza unica, rivoluzionaria, palingenetica, che muterà radicalmente il corso della sua esistenza: quella del perdono7. È risaputo che Lodovico si macchia di un omicidio, anzi de facto di due: a motivo di una stolida questione di precedenza sulla strada, che peraltro si rivelerà tragica, uccide un nobile e perde il suo servitore, Cristoforo, colpito a morte nel tentativo, generoso quanto vano, di salvar la vita e la reputazione del suo padrone.
Sconvolto dall’atroce consapevolezza d’esser stato causa di ben due morti, Lodovico si avvicina alla religione non già per paura, ma piuttosto perché si rende conto che un amico è morto per lui. Nel suo animo sensibilissimo, la necessità di perdono prende il posto dell’orgoglio e dell’ira: simbolo del perdono chiesto e concesso è quel pane che, anzitutto, mangia con una sorta di brama, come se si accostasse a un’eucaristia di cui necessitava da gran tempo, poi depone in una bisaccia quale ricordo prezioso dell’ineffabile consolazione ricevuta, e infine consegna a Renzo, perché mai dimentichi di perdonare il prossimo durante l’ancor lungo ed esigente percorso esistenziale che lo attende.
Nel romanzo risuonano tante voci, flebili o prepotenti, di verità o di menzogna, di pacatezza o di derisione, e il romanzo parla in effetti di amore e di amicizia, di violenze e tradimenti, di malattia, di morte, di dignità, di giustizia, di carità cristiana (agàpe), di delitti e ossessioni attraverso tutte queste voci. Il narratore fonde la “lingua della verità” con la “lingua della quotidianità”, dicendo ciò che gli è proprio nella lingua dei suoi personaggi e, parallelamente, nella propria lingua ciò che appartiene ad altri8: in tale universo di voci si può avvertire l’eco di alcuni approdi di Shakespeare e di parecchi altri illustri “moderni”, nonché, senza dubbio, la solennità inconfondibile della parola biblica, che diventa parola corale perché è la parola di un popolo: probabilmente, proprio nella tensione al realismo il capo d’opera del gran Lombardo ricupera e adegua all’umile realtà dei suoi eroi la complessa, studiatissima polifonia di grandi voci e grandi testi.
Su questi temi converrebbe forse soffermarsi a riflettere, perché essi appartengono al loro tempo non meno di quanto appartenessero al tempo di Manzoni – e di quanto, forse, appartengono al nostro. Ed è a partire dalla riflessione sull’universalità severa della proposta manzoniana, sull’universalità della storia e dei comportamenti umani all’interno di essa che si può meditare per rinvenire non solo un valido punto di osservazione in più ma, soprattutto, qualche altra buona ragione per incuriosirsi e avvicinarsi a un’ermeneutica viva e feconda di questo sforzo diegetico davvero sui generis.

4. Miguel Mañara
Sebbene composto all’aurora del Novecento, il dramma Miguel Mañara. Mistero in sei quadri9 (1912) di Oscar Vladislas de Lubicz Milosz (1877-1939) manifesta ancora, come vedremo, diversi tratti inequivocabilmente romantici. In quest’opera breve ma densa e ben ponderata, lo scrittore francofono di origine lituana rielabora adagio e in modo autenticamente poetico – e perciò, presumibilmente, insieme lucido e affascinante – la tormentata vicenda esistenziale di un’epifania originale e avvincente del mito culturale di Don Giovanni10.
Siamo nella Siviglia del Siglo de Oro, e più precisamente nel 1656. L’ardente, temerario e quanto mai spregiudicato cavaliere Miguel Mañara – libertino incallito e famigerato, nonché colpevole di una serie varia e vasta di crimini gravi – ci viene presentato dal drammaturgo slavo proprio nel momento crudele in cui un’insoddisfazione profonda comincia, costante e inesorabile, a travagliarlo: «Ah! Come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte che mai, più folle che mai».
Al culmine dell’insoddisfazione esistenziale, l’incontro con Girolama Carillo de Mendoza suscita in lui una letizia cristallina, appagante, vivificante. Invero, sarà questa giovane «pura siccome un angelo» a fargli comprendere l’essenza del vero amore. Poco più che adolescente (ha sedici anni), la “soave fanciulla” andalusa ama i fiori, ma non li recide per ornarsi come le altre ragazze, giacché «si può benissimo amare, nel mondo in cui siamo, senza aver sùbito voglia di uccidere il proprio amore diletto, o di imprigionarlo fra i vetri (come si fa con gli uccelli), in una gabbia ove l’acqua non ha più sapore d’acqua e i semi dell’estate non hanno più sapore di semi».
Girolama è felice, per quanto beninteso lo si può essere in hac lacrimarum valle, ed è felice soprattutto per la semplicità che custodisce il pudore di una giovinezza naturalmente fedele a una virtù etico-spirituale e civile di rara qualità: «Mi dicevate dianzi che la mia vita era triste: non condivido affatto il vostro punto di vista. C’è la casa, c’è il giardino, e la lezione quotidiana, e i poveri. C’è molta, molta povera gente a Siviglia. Non ho il tempo d’annoiarmi. E poi ci sono i libri […]. Non rimproveratemi questa tranquillità di spirito e di cuore: non trascuro alcuno dei miei doveri».
Nella sua semplicità esemplare quanto consapevole, nella sua giovinezza impeccabilmente vissuta, Girolama accoglie Mañara, quantunque ne conosca l’opaco, tenebroso passato, poiché intuisce, nel cuore di lui, una favilla di bene non del tutto spenta, che può portarlo gradualmente ben al di là dei suoi trascorsi torbidi e inquietanti: «Non ho paura di voi. […] E le donne sanno bene quello che fanno, via, e si lasciano prendere soltanto allorquando Iddio non è più nel loro cuore, e allora non vale più la pena prenderle».
Coronando un magnifico sogno d’amore, i due personaggi si sposano felicemente ma, dopo soli tre mesi, Girolama muore d’improvviso: il dolore immenso, atroce, ineffabile per la dipartita di lei fa riaffiorare nel cuore di Miguel tutta la feroce consapevolezza dell’orribile esistenza che ha preceduto la sua conversione: è come se il dolore tremendo derivante dalla perdita dell’unica persona che egli ha amato come Dio comanda recasse con sé tutti i veri dolori della sua vita, li rendesse – se mai possibile – ancor più laceranti, irreversibili, spietati. E quale dolore è più atroce della coscienza d’aver commesso peccati orribili e quasi innominabili che – agli occhi di un Miguel rinnovato intus et in cute da un amore per Cristo ben coltivato, specie in grazia di una donna prossima alla santità – sembrano adesso imperdonabili?
Ma il Superiore del convento a cui Mañara si presenta nulla condanna di tutto il suo fosco e, per più patenti ragioni, criminale passato, giacché comprende che il giovane uomo vuole recuperare tota anima, con tutto se stesso, il senso più fondo e sincero del proprio percorso esistenziale.
L’aristocratico spagnolo decide quindi d’entrare in convento, animato da una viva speranza di redenzione: là potrà finalmente acquisire, da figlio del dolore qual era, l’illuminante certezza che gli farà dire: «Io sono Mañara. E Colui che amo mi dice: queste cose non sono mai state. Se ha rubato, se ha ucciso: che queste cose non siano mai state! Egli solo è. Tutto è dove dev’essere, e va dove deve andare: al luogo assegnato da una Sapienza che – il Cielo sia lodato! – non è la nostra».

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Note

  1. Si vedano sulla sociologia letteraria inter alios: J. Hall, 1981: spec. pp. 75-115; G. Pagliano, 1994: passim; A. Rondini, 2002: pp. 53-91.
  2. Cfr., per tutti, D. Monda, 2001: spec. 17-68.
  3. La bibliografia sul tema è, come notorio, sconfinata quanto, perlopiù, interessante e convincente. Per ovvie ragioni, mi limito qui a menzionare una sorta di bussola aggiornata e utilissima onde orientarsi nella questione; alludo a un breve ma denso volume di Gianfranco Ravasi, che more solito tratta tematiche prettamente morali e religiose mai negligendo la rilevanza decisiva e incomparabile delle letterature nello sviluppo delle civiltà: Piccolo dizionario dei sentimenti. Amore, nostalgia e altre emozioni, 2019.
  4. Due soli riferimenti bibliografici, che peraltro si sono sforzati di offrire decorosamente un compendio dell’immane bibliografia manzoniana: A. Manzoni, 2009; P. Italia (a cura di), 2020.
  5. Menziono qui soltanto un volumetto deliziosamente divulgativo: La storia de I promessi sposi raccontata da Umberto Eco, Milano, Gedi, 2010.
  6. Cfr. almeno, sul non lieve problema socioculturale tuttora aperto, N. Bottani, 2013, nonché, soprattutto, P. Mastrocola, 2015; pare opportuno infine segnalare, anche per motivi legati a una sociologia insieme pensata e vissuta, il recentissimo P. Mastrocola – L. Ricolfi, 2021.
  7. Circa tale problematica decisiva quanto artigliante cfr., per tutti, M. Bouchard, F. Ferrario, 2008: passim.
  8. Cfr. E. Raimondi, Un romanzo milanese europeo, in A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, 2021: 9-18.
  9. Tutte le traduzioni fornite nel paragrafo sono mie.
  10. Si consulti, ex multis, l’ormai classico Dictionnaire de Don Juan superbamente curato da Pierre Brunel (1999), tuttora – non certo per caso – di anno in anno ristampato e, almeno in parte, aggiornato.

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