Bibliomanie

Una felicità immeritata. L’idea di felicità nel Bildungsroman
di , numero 55, giugno 2023, Saggi e Studi, DOI

Una felicità immeritata. L’idea di felicità nel <em>Bildungsroman</em>
Come citare questo articolo:
Giordano Ghirelli, Una felicità immeritata. L’idea di felicità nel Bildungsroman, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 4, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10760

1. Introduzione
Il presente contributo si propone di indagare e mettere in luce una particolare declinazione dell’idea felicità che, per la sua novità e l’influenza che ha esercitato, meriterebbe un ruolo di primo piano in un’ipotetica storia di questa idea. Mi riferisco all’idea di felicità che emerge nel cosiddetto romanzo di formazione (Bildungsroman). Come si evince infatti dalle ultime parole che pronuncia il protagonista dell’opera considerata il capostipite del genere, i Wilhelm Meisters Lehrjahre (Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, 1795-1796) di Goethe: «Io non conosco il valore di un regno; ma so che ho raggiunto una felicità che non merito, e che per nulla al mondo vorrei cambiare»1, il romanzo di formazione è incentrato sulla ricerca della felicità. Ciò in realtà può essere detto di molti racconti, se non di tutti. Tuttavia, come cercheremo di mostrare seguendo il fondamentale studio di Franco Moretti, la «retorica della felicità» propria del Bildungsroman non costituisce un semplice stilema letterario motivato dalla ricerca di un facile «effetto melodrammatico», ma risponde a una logica impeccabile, che investe importanti questioni retoriche e culturali2.
Cominciamo con l’osservare che il Bildungsroman non rappresenta una tipologia romanzesca tra le altre, bensì quella che «domina – o più esattamente rende possibile – il secolo d’oro della narrativa occidentale»3. Va ricordato che prima dell’Ottocento il romanzo era considerato dagli scrittori classicisti europei un genere destinato all’entertainment in cui si raccontano vicende d’amore4. E per quanto ingiusta possa apparire tale opinione, soprattutto pensando a capolavori come il Don Chisciotte (1605-1615) e il Tristam Shandy (1759-1767), non parleremmo del romanzo come di una forma d’arte legittima e importante senza i romanzi venuti nel solco del Meister come, per fare qualche nome, Orgoglio e Pregiudizio (1813), Il rosso e il nero (1830), Evgenij Onegin (1833), Papà Goriot (1835), Grandi speranze (1860-1861), L’educazione sentimentale (1869), Middlemarch (1874). Al centro di queste opere è la storia di un giovane protagonista che attraverso una serie di errori e di disillusioni giunge a instaurare un rapporto positivo o perlomeno di compromesso con il mondo. Il raggiungimento di questo compromesso finale tra le aspirazioni del singolo e le necessità della realtà circostante non deve tuttavia per forza essere realizzato: è importante che esso esista come idea guida e meta finale del processo di formazione, ma può essere anche mancato oppure, come in Flaubert, svuotato ironicamente del suo valore. La felicità, dunque, secondo una concezione tipicamente narrativa consiste nel raggiungimento di un equilibrio tra uomo e mondo che si realizza gradualmente al termine di un percorso orientato nel tempo. Il Bildungsroman, tuttavia, mette in scena alcuni fattori che rendono così arduo il suo raggiungimento da apparire “immeritato”, come si evince dalle parole di Wilhelm – immeritato e nondimeno “possibile”. Precisazione fondamentale, per saggiare la quale cominceremo con l’evidenziare il legame essenziale che sussiste tra narrazione e felicità; quindi, con particolare riferimento alla Teoria del romanzo di György Lukács, vedremo come tale nesso sia diventato «problematico» con l’avvento del romanzo moderno. Infine, sulla scia delle preziose analisi di Moretti, ravviseremo nel «grande archetipo» del Bildungsroman5, il Meister di Goethe, un tentativo unico nella storia della narrativa occidentale di restaurare il nesso tra narrazione e felicità all’interno del mondo «problematico» del romanzo.

2. Narrazione e felicità.
Tra narrazione e felicità sussiste uno stretto legame. Ad innescare una storia, infatti, è sempre un personaggio che perde qualcosa o cerca qualcosa, e la fine si ha quando lo squilibrio si placa, sicché, come osserva Guido Mazzoni: «Alla lettera o per via di metafora, le chiuse dei racconti coincidono con le due situazioni esistenziali nelle quali il tempo e i desideri, la tensione col mondo scompaiono: la felicità e la morte»6. Due modi non certo equivalenti di risolvere la tensione col mondo. Per questo motivo Walter Benjamin, interrogandosi sulla funzione e l’utilità del racconto, ne ha ravvisato la cellula primigenia nella favola:

«“E vissero felici e contenti”, dice la favola. La favola, che è anche oggi la prima consigliere dei bambini, dopo essere stata un tempo quella dell’umanità, continua a vivere clandestinamente nel racconto. Il primo e vero narratore è e rimane quello di fiabe. Dove il consiglio era più difficile, la favola sapeva indicarlo, e dove l’angustia era più grave, il suo aiuto era più vicino.7»

Per Benjamin la favola è stata la prima guida dell’umanità per lo stesso motivo per cui continua ad esserlo per i bambini: perché dispone di un «incantesimo liberatore» di cui ogni uomo inconsciamente ha bisogno e che ogni narratore (se è tale) inevitabilmente riattiva. Tale “incantesimo” consiste nel liberare l’uomo dall’inquietante estraneità con cui la natura si manifesta alla sua coscienza sin dagli albori della civiltà, come testimoniano le schiere di mostri e di divinità ostili che popolano i miti fondativi. Ad esempio la favola «ci fa vedere, nell’immagine degli animali che aiutano il bimbo fortunato, che la natura non è solo infeudata al mito, ma si schiera più volentieri a difesa dell’uomo»8. Così per Benjamin la natura a cui introduce la favola «accenna alla sua complicità con l’uomo liberato» – liberato, appunto, dallo spavento che gli impediva di conoscerla e quindi di sfruttarla a proprio vantaggio. «Questa complicità», conclude il filosofo, «l’uomo adulto la sente solo a tratti, e cioè nella felicità; ma al bambino essa si offre direttamente nella favola e lo rende felice»9. Mentre la sofferenza è «generatrice di intervalli»10, felicità è dunque l’esperienza del sollievo che comunica la risoluzione di un conflitto potenziale fra l’io e la realtà. Come tale, per Benjamin essa costituisce meta implicita di ogni narrazione; in particolare del tipo di narrazione più universalmente diffuso nelle culture umane, quello esemplificato nelle forme semplici della favola, della storiella, dell’epos, della saga e dell’aneddoto.

3. L’antitesi romanzesca
Altro per il filosofo è infatti il mondo del romanzo. Il mondo da cui scaturisce il romanzo non è certo quello della scena dei primordi appena delineata, dove la comunità si serve dei racconti per fare fronte comune contro una natura indomita che minaccia direttamente la sopravvivenza del singolo. Con l’avvento del romanzo moderno, Benjamin osserva, il luogo di nascita delle storie si è spostato nell’«individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino». I romanzi, di conseguenza, «non contengono un briciolo di saggezza»11. Qui egli fa proprio l’assunto di fondo della Teoria del romanzo di Lukács12, che ha origine nelle lezioni di estetica di Hegel e vede nell’epica rappresentata una perfetta unità tra uomo e mondo, di cui il romanzo attesta la disgregazione. Secondo la fondamentale lezione di Hegel, infatti:

«Il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno esso, nella propria cerchia e riguardo sia alla vivacità degli avvenimenti che agli individui e al loro destino, cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto.»13

Il «mondo della prosa» è il mondo dove «le decisioni collettive sono prese dalla politica statale, i rapporti fra le persone sono governati dal diritto e la divisione del lavoro specializza gli individui» e che pertanto «fa, di ogni singola persona, un soggetto limitato, chiuso in una cerchia ristretta di interessi particolari»14. In un mondo siffatto – è questa la tesi che Lukács affida alla sua Teoria del romanzo – la complicità tra individuo e realtà non può che darsi come assenza, o al limite nelle forme soggettive e precarie della speranza e del ricordo, foriere di senso proprio in contrasto all’evidente insensatezza del mondo esterno. Secondo il filosofo ungherese, l’universo romanzesco poggia su un’antitesi costitutiva: alla ricerca dell’«anima» si oppone la cruda realtà del mondo delle «convenzioni». Per cui la totalità del romanzo non è una totalità «organica», ma «formale», in quanto «l’estraneità e l’ostilità tra il mondo interno e quello esterno non sono riscattate, ma solo riconosciute come necessarie»15. Di qui la celebre definizione di romanzo come «l’epopea di un’epoca in cui la totalità estensiva della vita cessa di offrirsi alla percezione sensibile e la viva immanenza del senso diventa problematica»16. Per Lukács l’unica forma in grado di assicurare al personaggio romanzesco una configurazione capace di riscattarlo dalla dispersione vitale è così la biografia:

«Il romanzo supera la cattiva infinità attraverso la forma biografica: […] l’insieme eterogeneo e discreto di uomini isolati, di immagini extrasensibili e di avvenimenti insensati, riceve un’articolazione unitaria dal nesso che ogni singolo elemento istituisce con la figura centrale e dalla simbolizzazione del problema della vita operata attraverso le esperienze di questa figura. […] Inoltre si riscontra nel romanzo la tendenza a dispiegare la sua intera totalità epica nel corso di quella vita che esso giudica essenziale. Il fatto che l’inizio e la fine di questa vita non coincidano con quelli della vita umana, rivela il carattere idealmente orientato di questa forma biografica: è vero che lo svolgersi d’una vita umana è il filo da cui pende e si dispiega il mondo intero, ma questa vita guadagna importanza solo in quanto rappresenta in modo tipico quel sistema di idee e di ideali che determina sul piano regolativo la struttura del romanzo.»17

«Ciò che attira il lettore verso il romanzo», osserva Benjamin a margine di queste riflessioni, «è la speranza di riscaldare la sua vita infreddolita alla morte di cui legge». Ciò che ci aspettiamo dal destino altrui, dalla vita trasformata in significato del romanzo, è il «calore che non possiamo mai ricavare dal nostro»18. In altri termini, il lettore di romanzi è certo di assistere alla morte dei protagonisti, almeno in senso traslato: come fine del romanzo, ma non sa come, quando e perché questa avverrà, gettando la sua particolare luce sull’intera loro vicenda: solo allora, dopo aver seguito le vicende dei personaggi fino alla fine, potrà infatti ricordarli come questa o quella determinata figura, significativa, appunto, nel suo portare alla luce un determinato aspetto «problematico» dell’esistenza, laddove invece le figure mitiche, come è noto, non sono vincolate a una vicenda determinata19. Se allora, per tornare alla distinzione tracciata in apertura, la narrativa tradizionale ha la sua chiusura ideale nella felicità, il romanzo non può invece che finire con la morte, intesa come ricapitolazione di un senso che affiora in negativo, come ciò che un’intera esistenza è servita, tutt’al più, a far presentire. Nel mondo del romanzo l’happy ending appare un gesto di retroguardia, il marchio inequivocabile di una letteratura d’evasione e non di conoscenza; la felicità, osserva Guido Mazzoni citando il celebre incipit di Anna Karenina (1887), è così diventata «l’esperienza più refrattaria alla forma-racconto, perché ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, ma tutte le famiglie felici si assomigliano»20.
Il romanzo annuncia che è sorto un abisso non solo tra individuo e mondo, ma anche tra individuo e individuo. La piena espressione di ciò che l’individuo è, o sente di essere, e il suo inserimento armonico in una società, diventano, nel mondo della prosa, esigenze contrastanti.
Dall’antitesi costitutiva tra «individualità» e «normalità» nascono gli eroi moderni. Secondo quanto afferma Ian Watt nel suo Miti dell’individualismo moderno, le vicende di Faust, don Chisciotte e don Giovanni vengono continuamente rielaborate perché mettono in scena una contraddizione che a partire dall’età moderna non ha cessato di essere avvertita come problematica dalla coscienza occidentale: quella tra le aspirazioni dell’individuo da una parte e la società con le sue norme dall’altra. I tre personaggi nascono infatti a cavallo della transizione dal sistema sociale e intellettuale del Medioevo dove, come sosteneva Jacob Burckhardt, «l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di un’altra qualsiasi collettività», a quello moderno invece viepiù dominato dall’individualismo e dal «sentimento del soggettivo»21. Al di là delle diverse sfumature, ciò che accumuna questi eroi è il fatto di essere individui «monomaniaci» che «concentrano tutte le loro risposte psicologiche nella sola direzione in cui vogliono eccellere, che sia la magia, la cavalleria, o il libertinaggio» e nel fare ciò agiscono «senza preoccuparsi, anzi senza neppure notare l’esistenza di intermediazioni tra se stessi e le realtà sociali»22, finendo così per scontrarsi fatalmente con un mondo che al peso del destino va sostituendo l’arbitrio delle circostanze, ma che la reazione anti-moderna della Controriforma rinsalda ai ranghi di una gerarchia sociale fondata sul volere dell’unico di Dio e dell’istituzione che se ne dichiara portavoce. «È, allora, un individuo punito per la sua superbia conoscitiva (Faust), per la sua miscredenza e per la sua sessualità sfrenata (don Giovanni) o per l’ostinata soggettività della sua visione del mondo (don Chisciotte) che affiora agli inizi della mitologia moderna»23. Anche il Bildungsroman riflette la contraddizione tra «individualità»» e «normalità». A differenza però di quanto accade nei miti moderni, esso non solo la tematizza espressamente, ma lavora a ricomporla.

4. Gioventù
Per iniziare a cogliere la specificità del Bildungsroman basta paragonare la vicenda di Wilhelm a quella degli eroi dell’«individualismo moderno». Ad uno sguardo superficiale, il protagonista del Meister sembra rientrare a pieno titolo in questa categoria. Non diversamente da don Giovanni, don Chisciotte e Faust, infatti, egli è un individuo libero e indipendente che persegue ostinatamente la sua vocazione – che nel suo caso è quella di diventare attore e direttore di spettacoli – senza preoccuparsi di «razza, nazione, gruppo, famiglia o corporazione». Inoltre, come don Chisciotte Wilhelm alimenta la su passione attraverso letture solitarie e ossessive24, con l’Amleto che nel romanzo figura nel ruolo di modello assoluto che l’Amadigi di Gaula riveste nel Quijote25. Tuttavia la passione dell’eroe goethiano matura in gioventù, e non alle soglie della mezza età, come invece accade all’«ingegnoso hidalgo» Alonso Quijano26, ed è questo un punto essenziale da sottolineare, che ci introduce alla logica profonda del Bildungsroman, nonché ai motivi del suo successo.
Per Moretti: «ciò che rende Wilhelm Meister e i suoi successori rappresentativi e interessanti è, in buona sostanza, il mero fatto di essere giovani»27. E non a caso. Nelle società tradizionali, sottolinea lo studioso italiano, il giovane è niente più che un adulto in potenza28, e la gioventù

«Non ha una cultura che la contraddistingua e la valorizzi in quanto tale. È, potremmo dire, una gioventù invisibile e insignificante. Poi la società di status inizia a crollare – le campagne si svuotano e le città crescono, il mondo del lavoro cambia volto con straordinaria e incessante rapidità. La socializzazione incolore e quasi inavvertita cui metteva capo la «vecchia» gioventù diviene sempre più improbabile: si trasforma in un problema, e rende problematica la gioventù stessa. Già con Wilhelm Meister l’«apprendistato» non è più il lento e prevedibile cammino verso il lavoro del padre, ma incerta esplorazione dello spazio sociale […]. Esplorazione necessaria: perché i nuovi squilibri e le nuove leggi del mondo capitalistico rendono aleatoria la continuità tra le generazioni, e impongono una mobilità prima sconosciuta. Esplorazione desiderata: perché quello stesso processo genera speranze inaspettate, e alimenta così un’interiorità non solo più ampia che in passato, ma soprattutto – come ben vide Hegel, che peraltro deprecò tale sviluppo – perennemente insoddisfatta e irrequieta.»29

Tra le età della vita il Bildungsroman sceglie di valorizzare così quella che accentua i caratteri di instabilità e mobilità della nuova epoca. Esso si colloca infatti una soglia storica successiva a quella che partorisce gli eroi dell’individualismo moderno: tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando l’antitesi romanzesca raggiunge livelli che non possono più essere sanati con una condanna moralistica. Se per un verso, infatti, nel corso del Settecento l’uomo acquista una nuova centralità, come testimonia la nascita in quest’epoca delle nuove scienze umane quali l’antropologia e la psicologia, dall’altro la rapida evoluzione della tecnica, il formarsi di nuove classi sociali e in generale l’acuirsi delle differenze e anche dei contrasti sociali, la crescente politicizzazione della vita sociale e quindi anche della letteratura, uniti al conseguente crescente spaesamento dell’individuo di fronte a questa realtà in movimento, rendono questa centralità dell’uomo un qualcosa che, lontano dall’esser “data”, egli deve faticosamente conquistare, in concorrenza, per giunta, visto l’indebolimento delle istituzioni che tradizionalmente avevano svolto una funzione di mediazione tra gli interessi del singolo e quelli della comunità come Stato, corporazioni e Chiesa, con altre soggettività egualmente in cerca di affermazione. Serviva allora una «forma simbolica»30 capace di mettersi spiritualmente al passo coi tempi rappresentandone l’estremo dinamismo31; ma capace altresì di esorcizzare lo spettro dell’anarchia, senza ricorrere a soluzioni di facile compromesso o a scappatoie ultraterrene. Di qui l’apparire del Bildungsroman, il cui tema, nelle parole di Lukács, è appunto «quello della conciliazione dell’individuo problematico, guidato da un ideale interiormente vissuto, con la concreta realtà sociale», conciliazione che appunto «non può e non deve né il senso di un’autointegrazione compromissoria, né quello di un’armonia prestabilita»32. Nel mondo “abbandonato da Dio”, mancando «un dispositivo trascendente atto a correlare le umane aspirazioni»33, il contrasto tra «normalità» e «individualità» rimane infatti costituivo. Tuttavia, come puntualizza Moretti, «se il Bildungsroman ci appare a tutt’oggi come uno snodo essenziale della nostra storia è giusto perché ha saputo rappresentarlo con una limpidezza ottimistica che non verrà mai più eguagliata». In esso infatti:

«La formazione dell’individuo come individuo in sé e per sé coincide senza crepe con la sua integrazione sociale in quanto semplice parte di un tutto. Sono due percorsi che si alimentano a vicenda, e dove la percezione dolorosa della “rinuncia” – da cui scaturirà la grande problematica psicologica e narrativa novecentesca – è ancora inconcepibile. […]. Autosviluppo e integrazione sono percorsi complementari e convergenti, al cui punto d’incontro e di equilibrio si colloca quella piena e duplice epifania del senso che è la «maturità». Raggiunta la quale, il racconto ha realizzato il suo scopo e può senz’altro finire.»34

Perché se è vero che nessuna forma narrativa ha valorizzato la gioventù come il Bildungsroman, è altrettanto vero che la gioventù rappresenta in esso una stazione da superare. Ciò risulta evidente fin dalle prime pagine del Meister, laddove Wilhelm racconta la scoperta della sua vocazione. Fin da bambino, dice ricordando lo stupore provato alla vista di uno spettacolo di marionette allestito in casa sua da un ufficiale ospite della sua famiglia: «desideravo essere, contemporaneamente, fra gli incantati e gli incantatori, avere allo stesso tempo lo zampino nel gioco e godere dell’illusione come spettatore»35. Al contempo egli ricorda però la disillusione che provò in quella stessa occasione, quando, dopo aver curiosato dietro le quinte del teatrino al termine della rappresentazione, vide l’ufficiale che riponeva le sue marionette in una cassetta:

«Ormai il pagliaccio aveva un bel battere i suoi piedi, non mi divertiva più. Mi persi in profonde riflessioni e, dopo quella scoperta, divenni più calmo e nel medesimo tempo più inquieto di prima. Una volta che ero riuscito ad apprendere qualcosa, mi pareva di non saperne più nulla, e avevo ragione, perché mi mancava la connessione [Zusammenhang] fra i vari elementi, e in fondo è proprio questo che conta»36.

Wilhelm oscilla tra questi due atteggiamenti: da un lato rivolge ogni suo sforzo e sacrifica ogni risorsa disponibile alla realizzazione della sua passione teatrale, dapprima acquistando con l’aiuto dei familiari un teatro dove espone al pubblico spettacoli di burattini, poi allestendo una compagnia vera e propria, finanziandola a sue spese; dall’altro lato egli però ricerca, con altrettanta forza e caparbietà, una «connessione» fra i vari momenti della sua vita e la realtà circostante, senza il quale ai suoi occhi questa corre il rischio di restare incompiuta e quindi insensata. Ed è proprio questa ricerca che lo differenzia in modo sostanziale dagli eroi moderni e da quello che Lukács definisce il loro «idealismo astratto», indicandovi quella «disposizione emotiva in base alla quale la realizzazione dell’ideale deve seguire una via diretta, un percorso assolutamente rettilineo»37. Benché infatti anche la passione di Wilhelm giunge a indirizzare in maniera decisiva la sua vita38, essa non raggiunge in lui mai il punto di fronte al quale tutti gli altri “io” svaniscono, diventano ombre ed esistono solo in funzione di quella fissazione.

«Wilhelm Meister – ha osservato Herman Hesse – è un giovane come ce ne sono tanti e come ce ne dovrebbero essere moltissimi: impaziente e curioso della vita, abbastanza dotato per affrontarla; pronto a conquistare la sua fortuna, anziché farsela regalare; soggiace al fascino dell’avventura, segue gli allettamenti della lontananza, ma quel che cerca e intuisce e sogna e vuole nel suo cieco anelito non è già una preda, un’arraffata singola felicità, ma qualcosa che si trova sul cammino dell’umanità intera, ed è l’ideale di una vita limpida, liberamente disposta a servire, validamente inserita nel tutto […].»39

Non «un’arraffata singola felicità» è quella che ricerca Wilhelm, ma una felicità che sia in grado di connetterlo con la realtà circostante, senza negarla. Diversamente gli eroi moderni. Come notava Watt, Don Chisciotte, don Giovanni e Faust sono dei viaggiatori indefessi e solitari; non hanno legami familiari e affettivi stabili: vivono «in un vuoto domestico». Il rapporto più intimo che hanno è con il loro servitore. E non è un caso. Perché «un servitore non fa che esaltare la loro importanza» permettendo loro di «conservare un forte grado di isolamento dal mondo che lo circonda»40. Anche Wilhelm abbandona il luogo natio e la sicurezza dei legami familiari, passa gran parte del suo apprendistato girovagando – è, questa, si è detto, una condizione propria dell’uomo moderno, mentre in altri tempi lasciare il proprio paese era considerata una punizione – ma spende il suo tempo accanto a una compagnia di donne e uomini nei confronti dei quali si prodiga con amore e disinteresse41. Inoltre, il suo viaggio ha un approdo chiaro e invalicabile: la Torre.

5. Personalità
Ed è questo un altro elemento del Bildungsroman che va sottolineato:

Qui, come nello spazio è essenziale edificare una «patria» per l’individuo, così è indispensabile che il tempo si arresti in un momento privilegiato. Una Bildung è veramente tale solo se, a un certo punto, può dirsi conclusa: solo se la gioventù trapassa in «maturità», e lì si ferma. E con lei, si ferma il tempo – quello narrativo, quanto meno42.

La maturità propria del Bildungsroman coincide col pieno sviluppo della «personalità», parola chiave della modernità, che tra Sette e Ottocento si carica di nuove sfumature. L’individuo moderno vive infatti una profonda scissione tra la vita professionale e quella affettiva, tra sfera pubblica e sfera privata, elementi prima strettamente dipendenti. Da un lato si percepisce come insostituibile, dall’altro, però, sente che nessuna occupazione, di per sé, permette di esprimere appieno la sua «personalità»: «Un borghese – afferma Wilhelm – può acquistarsi del merito e tutt’al più educare il suo spirito; ma la sua personalità, faccia quel che vuole, andrà sempre perduta»43. Perdere la propria «personalità», in questo contesto, significa vivere tante esistenze separate, essere un semplice mezzo per lo scopo e l’occupazione del momento; non avere un baricentro e dunque un senso. Nell’ottica della Bildung, la specializzazione costituisce così il pericolo sommo: e la chiave per evitarlo, suggerisce il Meister, non consiste in una particolare occupazione quanto «in una peculiare disposizione d’animo: che s’infiltra via via in ogni occupazione, e la rimugina, la valuta, la osteggia, si sforza di renderla consona allo sviluppo individuale come ‘unità dispiegata’»44.
Nelle società tradizionali la personalità si forma attraverso cesure nette, prove iniziatiche attraverso le quali l’individuo viene introdotto dalla società «a un ruolo che gli preesiste immutabile, di fronte al quale le ragioni del singolo devono restare mute»45. La «felicità», fin dai primi capitoli del Meister, appare invece legata alla ricerca di un «nesso» tra passato e futuro, giocato sul punto di raccordo della crescita personale46. In esso, infatti, non ci sono «prove» che spaccano il tempo, e quindi la vita dell’eroe, in due metà tra loro nettamente distinte. Piuttosto, ci sono «occasioni»47 che permettono all’eroe di ampliare la sua personalità. Wilhelm, osserva ancora Moretti, viene infatti accettato in una società segreta: «ma senza essere mai messo di fronte a una prova riconoscibile»48.
La struttura ciclica della «prova», di cui risente ancora il Quijote, quanto la pura digressione del Tristam, vengono introiettate nel continuum narrativo combinando sapientemente variazione e ripetizione lungo il filo della «costruzione» della personalità che, appunto, avviene per gradi e implica un tempo diluito e uno sviluppo progressivo49. Implica, insomma, quel misto di soddisfazione ed attesa che trova un preciso corrispettivo nella fruizione del romanzo, nell’equilibrio che esso instaura, attraverso la suddivisione in capitoli, tra «la soddisfazione per ciò che abbiamo appreso (il significato che è stato attribuito a un evento) e la curiosità per ciò che ancora ignoriamo»50. Il protagonista romanzesco, a differenza del personaggio mitico, non si risolve infatti un unico ambito di vita e cessa in tal modo di essere definibile sulla base di un «ruolo». È un’entità complessa «definita da tratti molteplici, eterogenei, al limite anche contraddittori fra loro»51. Una scelta ben precisa, questa, che secondo Moretti non può essere spiegata con una generica volontà di «rappresentare l’esistenza in modo più fedele»:

ponendo al centro del racconto un personaggio poliparadigmatico, ogni evento viene automaticamente attratto nell’orbita della “personalità”. Trae il suo significato dal riverberarsi sugli altri piani dell’esistenza di Wilhelm e Elizabeth: dall’armonia interiore che contribuisce a saldare o incrinare. Non è dunque questione di rappresentare cose e persone in modo più veritiero: ma di aver deciso che un certo aspetto dell’esistenza era più significativo di altri, e poteva quindi svolgere una funzione particolare nell’organizzazione del racconto.52

6. Quotidianità
L’aspetto dell’esistenza che il Bildungsroman si incarica di valorizzare è quello della «vita quotidiana».

«La quotidianità – spiega Karel Kosik – è un mondo le cui misure e possibilità sono calcolate in modo proporzionale alle facoltà individuali o alle forze del singolo. Nella quotidianità tutto è a portata di mano e le intenzioni del singolo sono realizzabili […]. Nella vita di ogni giorno l’individuo si crea dei rapporti sul fondamento delle proprie esperienze, delle proprie possibilità, della propria attività, e per questa ragione considera questa realtà come il suo proprio mondo.»53

Nella vita quotidiana qualsiasi attività diviene proporzionale alle facoltà individuali: se l’impresa riesce, il mondo acquista l’aspetto rasserenante della «familiarità». È, insomma, il mondo della «particolarità», che Moretti contrappone alla «individualità», prendendo come riferimento la nozione hegeliana di «individuo storico-universale». Per Hegel, «individui» in senso proprio sono i grandi personaggi della storia come Cesare e Napoleone, vale a dire quei personaggi che «singolarmente incarnano il massimo dello sviluppo generico di una data società», i quali, non diversamente dagli eroi dell’individualismo moderno, «sembrano seguire solo la loro passione, il loro arbitrio: ma ciò che vogliono è l’universale, e questo è il loro pathos»54. Il pathos dell’«universalizzazione», di contro, è espressamente rifiutato dall’eroe del Bildungsroman, in favore di una vocazione più antropocentrica e pratica. Goethe:

«Nessuna condizione è più pericolosa per l’uomo di quella in cui viene a trovarsi allorché gli avvenimenti esterni modificano grandemente il suo stato senza che il suo modo di sentire e di pensare vi sia predisposto. C’è allora una svolta che non è una svolta, e sorge una contraddizione tanto più grave quanto meno l’uomo si accorge di essere tutt’ora impreparato di fronte al cambiamento. Wilhelm si vedeva libero in un momento in cui si sentiva d’accordo con se stesso. Nobili erano i suoi sentimenti, pure le sue intenzioni, né i suoi progetti sembravano riprovevoli […] ma aveva avuto sufficienti occasioni per constatare che mancava d’esperienza, e perciò sopravvalutava le esperienze altrui e i risultati che gli altri ne deducevano con convinzione; e in tal modo si perdeva sempre più nell’errore. Aveva creduto anzitutto di poter conquistare quel che gli mancava conservando e raccogliendo tutto quanto trovava di memorabile nei libri e nelle conversazioni. Trascriveva così opinioni e idee proprie e di altri, perfino interi discorsi che l’avevano colpito, e così tratteneva purtroppo sia il vero che il falso, si aggrappava troppo a lungo a un’idea, o si potrebbe dire a una massima, abbandonando la sua maniera naturale di pensare e di agire per rincorrere lumi estranei come se fossero stelle polari. […] per lui nessuno era stato più pericoloso di Jarno, il cui limpido intelletto valutava con giusta severità le cose presenti, ma che aveva il difetto di pronunciare quei singoli giudizi con un tono di universalità: mentre le sentenze della ragione valgono una sola volta, ossia nel caso particolare, e diventano già erronee se applicate a un caso diverso.»55

Nel Meister è dunque il soggetto a dare senso all’evento. Nessun evento di per sé è significativo, ma lo diviene perché è l’interiorità dell’eroe a produrlo. Secondo Moretti, il monito della Società della Torre a Wilhelm, «Ricordati di vivere!», significa infatti: «sappi che tutto ciò in cui t’imbatti può esser finalizzato alla costruzione della tua vita perché può essere reso significativo»56. L’altra faccia dell’evento è così l’«esperienza»: «l’episodio diviene esperienza se il singolo sa di caricarlo di un significato che allarghi e irrobustisca la sua personalità»57. La personalità moderna si costruisce infatti inanellando esperienze: «Essa esige – di nuovo: al contrario che nella novella o nella tragedia – che non si vada mai troppo a fondo, perché se nessun episodio è refrattario al senso, nessun episodio, per converso, può racchiudere tutto il senso dell’esistenza: nessun personaggio rivelerà mai interamente la propria essenza in un solo gesto, o incontro, o atteggiamento»58. Così i personaggi irrequieti e troppo intensi nel Meister hanno una sorte infelice: l’Arpista e, su tutti, Mignon59. Quest’ultima muore per un desiderio «immaturo e appassionato» e dopo la trionfale sepoltura viene presto dimenticata. Insomma, la sua è «una morte cui non si deve permettere di turbare la conclusione prossima e ormai radiosa»60.
Per quanto riguarda le grandi passioni collettive, nel Meister queste vengono addirittura tacitate. Il romanzo di formazione, sottolinea infatti Moretti, tiene alla larga i grandi conflitti sociali in favore di un eroismo quotidiano e semiconsapevole. «Un’elusione, possiamo concludere, di tutto ciò che rischia di infrangere l’equilibrio dell’Io, e di rendere impossibili i compromessi»61. Solo nella sfera della vita quotidiana il soggetto moderno può ricomporre la scissione tra vita pubblica e privata, esteriorità ed interiorità; il che spiega perché a partire da questo momento il romanzo, genere finora relegato ai margini del sistema letterario, acquista un ruolo centrale. Tra le forme narrative, infatti, il romanzo è quello che per definizione lascia sullo sfondo la storia collettiva per concentrarsi sulla vita privata degli individui colta nei suoi molteplici aspetti62.

È, allora, una cultura della vita quotidiana quella che il romanzo inaugura e promuove: «Lungi dallo svalutarla, esso organizza e “civilizza” questa forma di esistenza: rendendola via via sempre più viva e interessante – o addirittura, con Balzac, affascinante». L’eroe del Bildungsroman continua Moretti, – eccettuato quello stendhaliano, che non ha caso è abbagliato dal modello «storico-universale» di Napoleone – non dà vita ad «una trama narrativa il cui episodio tipico inscena uno scontro con l’esistente» ma vuole «una vita libera da conflitti, vuole sentirsi bene nel mondo così com’è». La sua bussola non è l’universale, ma appunto la felicità individuale «e la trama che gli permetterà di raggiungerla si organizza secondo il modello – antitetico a quello conflittuale – dell’integrazione organicistica»63

7. Una felicità immeritata
La missione di Wilhelm non è quella di raggiungere una meta, ma è di rendersi «plasmabile», come aveva notato Friedrich Schiller nella sua lettera a Goethe del 28 novembre 1796:

«Wilhelm Meister è […] il personaggio più necessario, ma non il più importante; una delle particolarità del vostro romanzo è quella di non avere e di non abbisognare di un protagonista. Tutto si svolge attorno a lui, ma non per sua causa: proprio perché le cose da cui è circondato rappresentano ed esprimono le energie, e lui invece la plasmabilità, i suoi rapporti con gli altri personaggi dell’opera dovevano essere diversi da quelli che l’eroe ha negli altri romanzi»64.

La riprova di ciò è fornita dal finale. Wilhelm decide di abbandonare le sue velleità teatrali e con un colpo di scena gli viene rivelato che una società filantropica dagli scopi pedagogici chiamata la Torre ha seguito segretamente le esperienze da lui finora compiute, e le ha raccolte in uno scritto intitolato gli Anni dell’apprendistato. La rivelazione tardiva dell’operato della Società corrisponde a un’ideale educativo ben preciso: «Non è dovere di chi educa l’uomo, preservare dall’errore, bensì» come sentenzia davanti Wilhelm uno dei membri della Torre, «guidare chi è in errore, anzi fargli bere a grandi sorsi dalla coppa dell’errore: tale è la saggezza del maestro»65. Dopo questa rivelazione Wilhelm otterrà dalla Società solo alcune massime che contengono verità di ordine generale e la duplice conferma che Felix è suo figlio e il suo apprendistato è terminato: conferma che sancisce la definitiva fuoriuscita dalla vaghezza giovanile: «È solo dopo aver connesso tutti i principali episodi della sua vita ad altrettanti interventi della Società della Torre che Wilhelm comprende alfine la direzione della sua ricerca, e “riconosce” lo scopo a cui essa sempre tendeva»66. In questo modo, «i valori non appaiono più come il frutto di una rischiosa e precaria scelta individuale: risultano “fondati” sulla natura stessa delle cose. […] Piacere simbolico supremo: il mondo parla la nostra stessa lingua»67. A suggello di ciò il Meister si chiude con l’inattesa notizia dell’amore che la bella e onesta Nathalie prova per il protagonista, notizia che lascia presagire l’imminente matrimonio68 e porta il protagonista, dopo l’amico di vecchia data Friedrich, latore della buona novella, ha paragonato la sua vicenda a quella di Saul che «andò in cerca delle asine di suo padre e trovò un regno»69, appunto a gioire per l’«immeritata felicità» che gli è toccata in sorte. Anche la felicità, dunque, «accade» a Wilhelm non per sua causa. Moretti:

«“Ho raggiunto una felicità che non merito”, ovvero esisto, ed esisto felicemente, solo in quanto mi è stato concesso di accedere alla trama pazientemente tessuta attorno a me dalla Società della Torre. Mi sono “formato”, esisto “per me”, perché ho accettato di buon grado di essere determinato dall’esterno. È davvero il paradigma ideale della socializzazione moderna: desidero fare ciò che comunque avrei dovuto fare. Il matrimonio finale, che, contro le sue intenzioni, costringe Wilhelm ad essere felice, è la perfetta miniatura e conclusione di tutto il processo.»70

Ci troviamo quindi di fronte a un’idea di felicità intesa come approdo chiuso e definitivo, ben distinta, dunque, non solo all’idea di felicità immaginata da Jefferson e Saint-Just come spinta di progressivo ampliamento di nuovi spazi di opportunità da perseguire senza posa e compromessi, anche a mezzo di guerre e rivoluzioni71, ma anche all’identificazione, propria della nuova mentalità capitalistica, della felicità individuale con il crescente vantaggio economico realizzato attraverso un’oculata gestione dei risparmi e degli investimenti72. Ed è questo un altro elemento da sottolineare: la Bildung non ha a che fare con la realizzazione economica. Le esperienze di Wilhelm iniziano quando egli rifiuta di dedicarsi al commercio, respingendo i consigli dell’amico fraterno Werner, che compie invece la strada opposta e, dopo aver elogiato i benefici del mercato e della partita doppia, lo invita appunto ad agire come un «buon amministratore» al quale «nulla è più gradito che tirare le somme tutti i giorni del suo crescente benessere»73. Queste parole di Werner, secondo Moretti, spiegano perché nel Meister egli è condannato a un ruolo secondario:

«Il capitale, per la sua natura puramente quantitativa, e la concorrenza cui è soggetto, può rappresentare una fortuna solo in quanto “cresce”. Deve crescere senza posa, ovvero, ma è lo stesso, non fermarsi mai. “È stato giustamente osservato – annotò Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni, – che il mercante non è cittadino di nessuna patria particolare”. Vero: il “viaggio” del mercante non potrà mai concludersi in quei luoghi ideali – la tenuta della Torre, la Pemberly di Orgoglio e pregiudizio – dove tutto è “benessere, trasparenza e finitezza”. Egli non potrà mai provare la felicità dell’“appartenere” a un luogo determinato.»74

Sotto questo rispetto il mercante è più vicino agli eroi dell’individualismo moderno, ma – dobbiamo riconoscere – anche più vicino a noi. Del resto non è un caso se a subire continue rielaborazioni è stata la vicenda di Robinson Crusoe e non quella di Wilhelm. Perché la maturità intesa come assestamento definitivo del rapporto dell’individuo con il mondo (e approdo ultimo di un racconto) è «pienamente possibile solo nel mondo pre-capitalistico», come rileva ancora Moretti citando Agnes Heller. «Solo nel mondo delle “forme sociali chiuse” – ribadisce di continuo Heller, sulla scia di una famosa pagina dei Grundrisse – la felicità può essere il valore supremo: l’ideale che valorizza il confine anziché concepirlo come proibizione intollerabile»75. Il Bildungsroman, con la sua conclusione perfetta e l’inserimento organico dell’individuo nella realtà circostante, giace dunque al di qua della grande cesura simbolica aperta dalla Rivoluzione francese. O meglio: «si propone come cerniera tra i due mondi – dove la gioventù è già piena, e la maturità non ancora svuotata», creando tra di essi un equilibrio perfetto, ma «effimero»76.
Eppure, come suggerisce ancora Moretti, l’importanza del Bildungsroman nella storia dell’idea di felicità va ricercata proprio in questo equilibrio effimero:

«Benché infatti il concetto di Bildungsroman sia divenuto col tempo sempre più approssimativo, è comunque chiaro che con esso cerchiamo di indicare una delle più armoniose soluzioni mai offerte a un dilemma connaturato alla civiltà borghese moderna: il conflitto tra l’ideale dell’“autodeterminazione” e le esigenze, altrettanto imperiose, della “socializzazione”»77.

Una soluzione che non può oggi che apparirci come favolistica e di retroguardia, ma pur sempre relativa a un dilemma che è ancora il nostro. Un sollievo effimero e precario è dunque quello che otteniamo dal finale del Bildungsroman, che non va oltre il momento dell’incanto della lettura e della flebile luce che esso riverbera sulla nostra quotidianità, fintantoché non riprende il bellum omnium erga omnes, il conflitto incessante degli interessi privati che caratterizza il mondo della prosa – come quello che il bambino appunto ottiene dalla favola, liberandosi per un momento dall’angustia del mito. Se infatti sostituiamo agli dèi, ognuno dei quali nei miti cosmologici rappresenta una determinata potenza che domina su un aspetto della realtà naturale, alle vocazioni unilaterali e tra loro confliggenti che dominano il mondo della prosa – si pensi, nel Meister, al conflitto tra Kunst e Gesellschaft – ritroviamo nel Bildungsrom la stessa funzione che Benjamin attribuiva alla favola, benché applicata non più alla realtà naturale, ma, appunto, a quella sociale. È da qui infatti che provengono i principali conflitti dell’uomo moderno. In questo senso è possibile affermare che la Torre svolge nei Lehrjahre una funzione analoga a quella che Benjamin attribuiva agli animali della favola e, adattando la sua formula, concludere senza troppe forzature che il capolavoro goethiano ci fa vedere, nell’immagine della Torre che aiuta il giovane fortunato, che la società non è solo infeudata all’individualismo, ma si schiera più volentieri a difesa dell’uomo. Detto altrimenti: quell’esperienza di complicità con il mondo che l’uomo moderno sente solo a tratti, e cioè nella felicità, al lettore si offre direttamente nel Bildungsroman e lo rende felice.

Note

  1. Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, trad.it., Milano, Adelphi, 197610, p. 545.
  2. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999 (titolo originale: The Way of the World: The Bildungsroman in European Culture, London, Verso, 1987), in particolare pp. 24 – 26.
  3. Ivi, p. 3.
  4. Cfr. Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 218.
  5. Franco Moretti, op. cit., p. IX. Ci atteniamo qui all’uso che Moretti fa del termine Bildungsroman. Egli lo riserva al modello narrativo inaugurato dal Meister e proseguito da Orgoglio e pregiudizio, mentre parla di «romanzo di formazione» per indicare il genere nella sua totalità (in quest’ultimo troviamo infatti diverse «retoriche della felicità» la cui indagine e classificazione esula dai limiti del presente lavoro). Sul romanzo di formazione in generale cfr. anche Michail Bachtin, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo (1935), in Id., L’autore e l’eroe, a cura di Clara Strada Janovic, Torino, Einaudi, 1988, pp.195-244; Herbert Marcuse, Il romanzo d’artista nella letteratura tedesca (1922), trad.it., Torino, Einaudi, 1985; Shaffner, Randolph P., The Apprenticeship Novel: A Study of the “Bildgsroman” as a regulative type in Western literature with a focus on three classic representatives by Goethe, Maugham, and Mann, New York, Peter Lang 1984 e Mario Domenichelli, Il romanzo di formazione nella tradizione europea, in Maria Carla Papini, Daniele Fioretti, Teresa Spignoli, Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, Pisa, ETS, 2007, pp. 11-37. Sul Bildungsroman tedesco, cfr. invece Jürgen Jacobs, Markus Krause, Der deutsche Bildungsroman. Gattungsgeschichte vom 18. bis zum 20. Jahrhundert, München, Back, 1989; Todd Lontje, The German Bildungsroman. History of a National Genre, Columbia, Camden House, 1993; e Rolf Selbmann, Der deutsche Bildungsroman, Stuttgart, Metzler, 1994.
  6. Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, p.374.
  7. Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolay Leskov (1936), trad.it., Torino, Einaudi, 2011, p. 71.
  8. Ibidem.
  9. Ivi, p. 72.
  10. Cfr. Emile Cioran, La caduta nel tempo, trad.it., Milano, Adelphi 1995, p.90: «Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza col mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo con nulla, nemmeno con essa; è allora che doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie». A proposito del dolore, infatti, Rainer Maria Rilke diceva che «riconduce nella interiorità l’esteriorità della nostra esperienza delle cose» (cit. in E. Borgna, Il tempo e la vita, Milano, Feltrinelli, 2015, p.108.
  11. Walter Benjamin, op. cit., pp. 19-20.
  12. György Lukács, Teoria del romanzo (1920), trad. it. e cura di G. Raciti, Milano, SE,1999.
  13. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica (1835), trad. it. e cura di N. Merker e N. Vaccaro, Torino, Einaudi 1997, t. 2, p. 1223.
  14. Guido Mazzoni, op. cit., p. 242.
  15. György Lukács, op. cit., p. 67. Sulla totalità «organica» come cifra dell’epos omerico, cfr. ivi, p. 28: «Intesa come il prius formativo di ogni singolo fenomeno, la totalità sta a significare che qualcosa di conchiuso può essere compiuto; compiuto in quanto tutto vi accade e nulla ne è escluso o accenna a una superiore esteriorità; compiuto in quanto ogni cosa vi matura nella propria compiutezza, e, nell’atto di acquisire se stessa, si salda all’insieme».
  16. György Lukács, op. cit., p. 41.
  17. Ivi, pp. 73-74.
  18. Walter Benjamin, op. cit., p. 67.
  19. Né tantomeno esemplificano un “problema” determinato. «La storia di Prometeo», per dirla con una battuta, «non risponde a nessuna domanda sull’uomo, però sembra racchiudere tutte le domande che possono essere poste su di lui». H. Blumenberg, Il futuro del mito, trad.it., a cura di G. Leghissa, Milano, Medusa, 2002, p.84.
  20. Guido Mazzoni, op. cit., p. 367.
  21. Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), trad..it, Firenze, Sansoni, 1990; cit. in Ian Watt, op.cit., p.105.
  22. Ian Watt, op. cit., p.107.
  23. Andrea Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Mondadori, Milano 2001, p. 310.
  24. Cfr. Wolfgang Goethe, op. cit., I, 5, p. 16.
  25. Sul ruolo dell’Amleto nei Lehrjahre, cfr. Daniela Nieva, L’immenso libro del destino. L’Amleto nel Wilhelm Meister di Goethe, in AA. VV., A Warm Mind-Shake. Scritti in onore di Paolo Bertinetti, a cura del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Torino, Torino, Trauben 2014, pp. 395-403. Sulla sovrapposizione di rappresentazione teatrale e vita nel Meister, cfr. invece Lucia Perrone Capano, Traduzione e intertestualità nel “Wilhelm Meister”, in G. Cermelli (a cura di), Contraddizioni del moderno nella letteratura tedesca da Goethe al Novecento. Per Ida Cappelli Porena, Pisa, Edizioni ETS, 2001, pp. 25-30.
  26. M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (1600;1615), trad.it. di L. Falzone, 2 voll., Garzanti, Milano, vol.1, 1974, p. 8.
  27. Franco Moretti, op. cit., p. 4.
  28. Cfr. su questo punto George Boas, The Cult of Childhood, London, The Warburg Institute, 1966, e il più recente Francesco M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Torino, Einaudi 2014. Sul rapporto tra infanzia e romanzo di formazione, cfr. Milena Bernardi, Il cassetto segreto. Letteratura per l’infanzia e romanzo di formazione, Unicopli, Milano, 2011.
  29. F. Moretti, op. cit., pp. 4-5.
  30. È ancora Moretti a leggere il romanzo di formazione come «forma simbolica» della modernità, riprendendo e adattando la definizione che utilizza E. Panofsky nel suo celebre La prospettiva come «forma simbolica» (1927): attraverso la forma simbolica, scrive Panofsky e commenta Moretti, «“un particolare contenuto spirituale [qui: una certa immagine della modernità] viene connesso ad un concreto segno sensibile [qui: la gioventù] e intimamente identificato con questo”: quella definita appunto dagli attributi “giovanili” di mobilità e irrequietezza interiore». F. Moretti, op. cit., pp. 4-5.
  31. Per l’introiezione della concreta realtà storica come cifra distintiva del modello narrativo inaugurato dal Meister, cfr. Michail Bachtin, op. cit. e Tobias Boes, Apprenticeship of the novel: the Bildungsroman and the invention of history, ca. 1770–1820, in “Comporative Literature Studies, vol. 45, n.3, 2008, pp. 269-288.
  32. György Lukács, op. cit., p. 125. Quello del romanzo di formazione, sottolinea Moretti, è un «mondo pienamente secolarizzato». Perciò lo studioso esclude dal suo studio il romanzo russo, ad eccezione di Puškin e Turgenev, e quello americano, appunto per l’importanza che in essi l’elemento religioso e mitico continua a ricoprire. Cfr. a proposito Franco Moretti, op. cit., p. 4 n.
  33. György Lukács, op. cit., p. 89.
  34. Franco Moretti, op. cit., p. 14.
  35. Wolfgang Goethe, op. cit., I, 4, p. 14.
  36. Ibidem.
  37. György Lukács, op. cit., p. 89.
  38. Sulla vocazione come tappa fondamentale per la Bildung, cfr. Elena Agazzi, Einbildung, Bild, Bildung. A proposito dei “Lehrjahre” di Goethe, in “Cultura Tedesca”, 19. 2002, pp. 85-108.
  39. Herman Hesse, Sul «Wilhelm Meister» (1911), in Wolfgang Goethe, op. cit., p. XXI.
  40. Ian Watt, op. cit., pp. 108-109.
  41. Cfr. Herman Hesse, op. cit., p. XXII: «È con pura volontà di giustizia ch’egli vive tra gente bassa e ingrata, cercando di essere giusto verso ciascuno dei ben poco nobili e amabili uomini con cui ha rapporto. È con molta stima che riconosce le doti altrui. E ciò che in lui resta di amore insoddisfatto, non lo gusta già in un wertheriano godimento di se stesso, ma lo dà agli infelici, lo dà alla sventurata Aurelie, allo sconvolto arpista, alla moribonda Mignon».
  42. Franco Moretti, op. cit., p. 29. Sul concetto di Bildung nell’opera di Goethe, cfr. Marco Giosi, Goethe e la Bildung, tra arte, natura, educazione, in “Studi sulla formazione”, 25, 2022, pp. 141-149. Per una panoramica generale, cfr. invece Mario Gennari, Storia della Bildung. Formazione dell’uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropa, Brescia Editrice La Scuola, 1995.
  43. Wolfgang Goethe, op. cit., V, 3, p. 258. Al borghese, spiega Wilhelm, «nulla si addice meglio del puro, tranquillo senso del limite che gli è stato tracciato. Non gli è concesso chiedere: “Chi sei?” ma solo: “Che cos’hai? quali idee, quali conoscenze, quali attitudine, quale patrimonio?». Egli deve infatti «sviluppare certe facoltà per rendersi utile, e già si presuppone che nel suo contegno non vi sia né possa esservi armonia, perché per rendersi utile in un certo modo deve trascurare tutto il resto». Ivi, p. 259.
  44. Franco Moretti, op. cit., p. 45.
  45. Ivi, p. 54.
  46. Cfr. Wolfgang Goethe, op. cit., I, 3, p. 12: «É così gradevole ricordare compiaciuti qualche ostacolo che con angoscia giudicammo insormontabile, e paragonare le creature adulte che siamo adesso con gli esseri non sviluppati che eravamo un tempo».
  47. Sull’antitesi di «iniziazione» e «formazione», «prova» e «occasione», cfr. Franco Moretti, op. cit., pp. 46 ss.
  48. Ivi, p. 49.
  49. È da questo momento che il romanzo prende a configurarsi, lucaksianamente, come storia di una vita. In questo senso Hesse può affermare che, se un lettore odierno «vuol rendersi edotto sul romanzo in quanto genere artistico e sul livello spirituale da cui, a suo tempo, nacque l’esigenza di tale forma d’arte, non ci sarà per lui altro via se non quella che passa attraverso il Wilhelm Meister». Herman Hesse, op. cit., p. XV.
  50. Franco Moretti, op. cit., , p. 51 n.
  51. Ivi, p. 46.
  52. Ivi, p. 47.
  53. Karel Kosik, Metafisica della vita quotidiana, trad.it., in Id., Dialettica del concreto, Milano, Bompiani, 1967, pp. 85-86 (cit. in Franco Moretti, op. cit., p. 37).
  54. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (1837), trad.it.,, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 92.
  55. Wolfgang Goethe, op. cit., V, 1, pp. 253-254.
  56. Franco Moretti, op. cit., p. 50.
  57. Ivi, p. 51.
  58. Ibidem.
  59. Cfr. Michael Beddow, The fiction of Humanity. Studies in the Bildungsroman from Wieland to Thomas Mann, Cambridge, Cambridge UP 1982, p. 146.
  60. Ivi, p. 53. La principale «colpa» di Mignon consiste infatti nell’incapacità di evolversi: «La strana natura della cara bimba di cui ci occupiamo consiste quasi soltanto in una profonda nostalgia». Wolfgang Goethe, op. cit., VIII, 3, p. 470. Su questo fondamentale personaggio, cfr. anche Erika Turner, L’Esprit de Mignon. Mignon-Bilder von der Klassik bis zur Gegenwart, in Goethe-Jahrbuch, 106, 1989, pp. 11-21.
  61. Franco Moretti, op. cit., p. 14. Benché sorto a ridosso della Rivoluzione francese il focus sulla «vita quotidiana» porta infatti il Bildungsroman a concentrarsi sulle «epoche di normale amministrazione», quelle il cui «orizzonte non preannuncia nessun mutamento dei rapporti di forza». Ivi, p. 38. Il fatto che il genere si rivolse con successo alla borghesia lascia così supporre che coesistesse in essa, assieme alla tensione critica e rivoluzionaria, anche il «desiderio di sbarazzarsi della libertà interpretativa» e trovare «l’immanenza del senso in una totalità organica». Quando questa seconda esigenza si faceva sentire, conclude così Moretti, «il Bildungsroman era pronto a soddisfarla: in modo tanto più gradevole perché inavvertito». Ivi, p. 75.
  62. Il romanzo, infatti, «pur non essendo cieca al progresso della storia universale, tuttavia lo ritaglia, lo percepisce secondo l’ottica della vita quotidiana: e lo riversa entro questa modalità di esistenza al fine di ampliare e arricchire l’esistenza della particolarità». Ivi, p. 39.
  63. Franco Moretti, op. cit., p.39.
  64. Dall’Epistolario Goethe-Schiller, in Wolfgang Goethe, op. cit., pp. 561- 596, pp. 594 s.
  65. Wolfgang Goethe, op. cit., VII, 9, p. 443.
  66. Franco Moretti, op. cit., p. 78. Cfr. Marc Redfield, op. cit., p. 75: «The Society of the Tower helps in order to hinder and hinders in order to help; and Wilhelm, by acting well when he wasn’t’ acting, learns that he isn’t an actor».
  67. Ivi, p. 80.
  68. Il Bildungsroman, sottolinea Moretti, si conclude sempre con dei matrimoni. A partire dalla fine del Settecento il matrimonio diventa il modello di un nuovo tipo di contratto sociale fondato sul suo senso di «obbligazione individuale» e non più, come in passato, su forze che si situano al di fuori del singolo (obblighi religiosi, di status ecc…). Col vincolo matrimoniale non si fonda infatti solo la vita familiare, ma si stabilizza l’insieme dei rapporti sociali. Insomma: «Il matrimonio come metafora del contratto sociale: la cosa è talmente vera che il Bildungsroman non gli contrappone il celibato, come dopo tutto sarebbe logico, ma la morte (Goethe) o la sciagura (Austen). O ci si sposa oppure, in un modo o nell’altro, si dovrà uscire dalla vita associata: e ancora per più di un secolo la coscienza europea vedrà nella crisi dell’istituto matrimoniale una frattura che non si limita a dividere una coppia, ma lacera alla radice – Anna Karenina, Emma Bovary, Effi Briest – quei sentimenti che tengono appunto “al mondo” l’individuo.». Franco Moretti, op. cit., p. 25.
  69. Wolfgang Goethe, op. cit., VII, 10, p. 545. 5.
  70. Franco Moretti, op. cit., p. 23. Cfr. in proposito anche Freidrich A. Kittler, Über die Sozialisation Wilhelm Meisters, in Gerhard Kaiser, Friedrich A. Kittler (a cura di), Dichtung als Sozialisationsspiel, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1978; e Marc Redfield, Phantom Formations: Aesthetic Ideology and the Bildungsroman, Ithaca, Cornell UP, 1996, pp. 84-84.
  71. Franco Moretti, op. cit., p. 26.
  72. Per una discussione sul concetto goethiano di felicità (Glück), cfr. Gerda Röder, Glück und glückliches Ende im deutschen Bildungsroman, Eine studie zu Goethes «Wilhem Meister», München, Hueber, 1968; Hellmut Ammerlahn, Aubau und Krise der Sinn-Gestalt Tasso Und Die Prinzessin. Im Kontext Der Goetheschen Werke, New York, Lang 1990, pp. 119 ss.
  73. Wolfgang Goethe, op. cit., I, 10, p.30.
  74. Franco Moretti, op. cit., p.29. Cfr. sul tema.
  75. Ivi, p. 30. Cfr. Agnes Heller, Sociologia della vita quotidiana, trad.it., Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 24: «In epoche statiche e nelle comunità naturali […] una volta diventati adulti, ci si era appropriati il «minimo» della vita quotidiana [e in seguito] non veniva più messa in dubbio la capacità di riprodursi da parte dei singoli. […] Quanto più invece la società è dinamica, quanto più casuale è il rapporto del singolo con l’ambiente in cui si trova a nascere (specie dopo l’avvento del capitalismo), tanto più l’uomo è costretto a mettere di continuo alla prova la sua capacità vitale, e questo per tutta la vita; tanto meno l’appropriazione del mondo può dirsi compiuta con la maggiore età».
  76. Cfr. Franco Moretti, op. cit., p.31. «Appena dieci anni dopo, con Le affinità elettive, Goethe confuterà spietatamente l’idea che lo happy end matrimoniale possa porsi come duratura conclusione dell’esistenza moderna; per non dire del Faust, dove l’idea della felicità come limite sarà ancora più inconcepibile».
  77. Ivi, p. 18.

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