Oltre i segni: il ritmo della prosa manganelliana
Chiara Taiariol, Oltre i segni: il ritmo della prosa manganelliana, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 40, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11495
La presente ricerca intende indagare la preminenza dell’elemento acustico e la tensione acusmatica nel testo di Rumori o voci di Giorgio Manganelli. Dopo aver ipotizzato il ruolo di “attrice in scena” della voce, si indaga il ritmo della sintassi manganelliana per mezzo delle riflessioni di Gillo Dorfles in Discorso tecnico delle arti, e degli studi di Henri Meschonnic. Il ruolo della voce è analizzato in relazione alle analogie che la struttura testuale in cui è immersa intrattiene con le strutture degli «accadimenti musicali» presi in considerazione da Manganelli nelle interviste radiofoniche con Paolo Terni.
La tensione tra forma e significato che costruisce la materia letteraria espande la propria produttività nell’arte musicale. Nel tentativo di una commistione nell’analisi delle due arti, il punto di partenza del lavoro è rappresentato da Una profonda invidia per la musica, in cui Paolo Terni ha riportato la trascrizione delle conversazioni radiofoniche in cinque puntate che realizzò tra il 14 e il 18 luglio 1980 insieme a Giorgio Manganelli. Nelle conversazioni lo scrittore realizza un’analisi comparatistica della musica e della letteratura che non opera soltanto in negativo, ma suggerisce al contrario alcuni punti di contatto tra le discipline. Lo scrittore è infatti interessato alle strutture della musica che sono imparentate con la scrittura, in un’osservazione strutturale e comparativa sulle opere d’arte. Per via di tale specifica lente di ingrandimento adottata di fronte al fatto musicale, lo scrittore si definisce un «ascoltatore maniacale1». Afferma Manganelli che «non parlare di musica significa essere dentro alla musica». Per tale motivo, sulla musica in sé lo scrittore non ha nulla da dire; anzi, al contrario, interroga ed esamina i soli «accadimenti musicali2», che appartengono alla sua «personale cronaca mentale3». Di tali accadimenti saranno analizzate non soltanto le strutture ma anche i temi che da esse affiorano. Un esempio di osservazione strutturale e tematica riguarda i «due diversi rapporti con la struttura4» di Haydn e Mozart, tramite i quali Manganelli ripercorre i «modi di essere sempre più formalmente pregnanti del quartetto d’archi5». Haydn possiede le idee e la forma «senza furore6», genuinamente, come un fatto ordinario e per questo privo di sospetto o di paura. Mozart se ne accorge e mostra come delle idee platoniche si possano impadronire i demoni, sporcando e complicando il rapporto con la forma, al quale Haydn fa fronte con il patetismo. In termini letterari, l’«obiettività7» che si conserva nel «lavoro musicale8» può essere paragonata a un discorso sul «genere»9:
un’obiettività che, ad esempio, nella letteratura italiana trovo vissuta ed adoperata in modo consapevole, forse per l’ultima volta, nella Crestomazia di Leopardi, nella Crestomazia della prosa in cui i beni degli autori sono presentati unicamente secondo il tipo, il genere a cui appartiene il brano e con assoluta indifferenza a delle classificazioni per autore. Cioè l’autore non esiste.
Manganelli illustra quindi, nel procedere delle puntate, come le diverse discipline siano abitate da strutture e come esse possano essere trasferite o assimilate, attraverso procedimenti analogici, in forme artistiche diverse. L’applicazione di questi procedimenti sarà esaminata qui parallelamente all’analisi del ritmo di Rumori o voci. Il testo verte intorno all’interrogazione che compone il titolo, la cui prosa si costruisce nelle serie di ipotesi, presentate e poi accantonate, ma mai pienamente affermate o negate, imperniate su una ricerca riguardante il suono e l’ascolto nella loro matrice ontica. Questi suoni, quale sia la loro natura, dis-avvengono in un luogo «inamabile10», «del nonaccadimento11», «futile e ovvio12», «malato13» e ancora «impreciso14». Quest’ultimo attributo richiama In un luogo imprecisato, testo teatrale manganelliano da cui è tratto l’omonimo radiodramma, a cui lo scrittore collabora insieme a Carmelo Bene. Il borgo notturno di Rumori o voci e il luogo indefinito del testo teatrale presentano diverse analogie, come ha già notato Nicola Turi15. Lo studioso ricorda inoltre che l’incipit del testo teatrale di seguito riportato, mette in scena alcuni rumori (altri se ne troveranno nel prosieguo del testo), infine resi come silenzio nella rielaborazione di Carmelo Bene, che «decide di abolire ogni suono e rumore16»:
si sente un rumore regolare come di chi respiri tra sonno e veglia […]. Qualche rumore più impreciso potrebbe indicare lo spostamento di oggetti – una sedia, una sveglia che non funziona, un vecchio fucile consumato dagli anni e dalle battaglie perdute – o l’accomodarsi si corpi che hanno da sostenere l’onere di un sonno lungo e impreciso, mai profondo, sempre ignaro di sogni. Si ode anche l’inizio di un parlottio indefinito […]. Si ode un rumore brusco; qualcuno bussa alla porta17».
I rumori alimentano il vociare del testo, moltiplicando le elucubrazioni sulle identità liminari, in uno spazio in cui “dentro” e “fuori” sono interscambiabili e il tempo è scandito dai diversi suoni. Nel finale di Rumori o voci fa capolino un’ipotesi particolarmente interessante per il suo carattere di metafinzione. La voce viene presentata come attoriale e il borgo come la scenografia che accoglie la finzione:
credo che tu abbia capito, che io ho voglia di qualche minuto di teatro, questo olimpo insondabile di voci; dunque, nella tua perfetta immobilità, tu andrai a teatro, sei a teatro, e il ponte, mi piace supporlo, e appunto il palcoscenico del nobile teatro dove tu, ti prego, avrai la bontà di distribuire le voci di eroi ed eroine mescolate a vicende non meno incomprensibili che travolgenti18.
Rumori o voci non è un testo scritto per il teatro, ma presenta alcune peculiarità che vi possono essere ricondotte. Innanzitutto, i suoni dominano la narrazione sotto forma di rumori e ancor più di voci, l’unica presenza umana in scena che si rivelerà poi mortifera nel finale. La tensione acusmatica induce una vocazione nominalista, in cui la voce assume di volta in volta differenti denominazioni, ciascuna delle quali comporta specifici aspetti e ruoli all’interno della narrazione, come illustrato in Figura 3. Le forme adottate dalla voce non rappresentano tuttavia delle ipotesi onticamente valide, ma vicoli ciechi che non chiariscono le impressioni sensoriali e riconducono anzi la voce alla sua stessa natura fantasmatica. Le varie denominazioni non forniscono alla voce un corpo, neppure provvisorio, ma tutt’al più un travestimento, attraverso il quale si origina una divagazione, un mondo possibile dialetticamente e rivolto a un ascoltatore. La voce ha quindi a disposizione delle maschere che espropriano il corpo da se stesso. Come nota Petrini, l’ascolto mostra che il corpo è «sempre afferrato e aperto da tutte le parti in una “spartizione” prodotta da infiniti rinviiı19». Particolarmente produttiva è a tal riguardo la riflessione di Nancy20, secondo il quale l’ascolto genera un’apertura a doppio senso dal e nel corpo: «essere all’ascolto è essere allo stesso tempo fuori e dentro, essere aperti dal di fuori e dal di dentro: dall’uno all’altro, dunque, e dall’uno nell’altro21». L’ascoltatore è un elemento decisivo, interlocutore necessario e quasi obbligato, che funge da orecchio umano “fuori scena”, destinatario della voce.
Si consideri infine il piano della temporalità. Il tempo della storia si annulla nel procedimento ipotetico e manca di una vera e propria scansione, poiché privo di punti di riferimento, con due sole eccezioni, rappresentate dall’arrivo nel borgo da parte del soggetto e dal ripetersi dei “rumori primordiali”, che in seguito saranno approfonditi. Se invece si assume come punto di vista quello della percezione dell’ascoltatore, il tempo potrebbe configurarsi come il suo intimo spazio ipotetico, probabilmente afflitto da una «dissociazione schizofrenica22», come ipotizzato da Francucci. La presenza della malattia sembra testimoniata nel testo dal disorientamento spazio-temporale, dal procedere del tempo per arresti e riprese e dalla frammentazione del corso delle idee23:
e il tempo che occupano e ignoto e a loro e a te, e forse propriamente non è tempo; essi suoni sorgono nello spazio, o forse sono da sempre collocati nello spazio, e solo si discoprono quando vi e una tale o talaltra giustapposizione di astri […]24;
la dialettica e il tempo si abbreviano e si aggrovigliano, sono siccità e farfuglio, arido computo delle lunghe e delle brevi del delirio […]25.
Manganelli scrive che «la voce sarebbe di memoria se fosse capace di ricordi», esplicitando la temporalità sospesa in un presente fluttuante e circolare, caratterizzato da un continuo cominciamento in una ciclicità scandita sintatticamente di ipotesi in ipotesi. Il lettore ha l’impressione che il senso del testo svanisca sotto ai suoi occhi. Questo connotato di mobilità ed evanescenza ricorda le peculiarità dell’ascolto più che della lettura, e specificatamente dell’ascolto di un evento, facendo così eco alle parole di Lyotard, secondo il quale «prestare orecchio a un evento è la cosa più difficile del mondo.»26 Afferma il filosofo che gli eventi lasciano tracce dietro di sé:
questa traccia non è immediatamente comprensibile. E una traccia strana, una traccia di estraneità, in attesa della sua identificazione, mentre l’evento è già passato. Ciò perché è difficile prestare orecchio all’evento: non è già più lì quando ciò che è non è ancora lì27.
Rumori o voci assume quindi l’aspetto di un’elucubrazione su uno spettacolo fittizio, un’ipotesi di messa in scena che si piega su se stessa, in una spirale che vede al suo centro il motore immobile dell’interrogazione. La voce del testo è un simulacro delle voci interiori che attanagliano chi scrive, che si figurano così anche al lettore e all’ascoltatore:
odo voci, e sebbene sappia che esse vengono da esseri vivi, so anche che esse vengono dall’abitacolo del mio corpo, vengono, sommesse ma pronte a farsi urlo, dalle mie viscere, le pagine interne, che leggono se stesse a gran voce. Io devo trascrivere le voci, perché io non sono uomo, ma un vecchio castello affollato di fantasmi, e non v’è incantesimo che possa addolcire e mitigare un fantasma se non questo di avvolgerlo in gomitolo palindromo di scrittura. Mia tomba, io debbo scrivere sulla mia pagina di corpo il mio specifico mentito «qui giace»; per dare tregua all’universo di tramonti e comete, escrementi e grandi topi miopi, che affolla le murate e frantumate stanze della casamatta. Sono stato costruito a difesa contro le tenebre, e posto in un angolo del grande quadrato, e dotato di parole; ma sono intriso di tenebre, e consumato di notte, e lavorato d’ombra. Tu, lettore, sei stato costruito e posto in luogo di oscuritade, ed hai orecchi grandi affinché non ti sfugga il lagno dei demoni e le querule fatue ciance degli angeli. Né tu che non leggi sei diverso, moriamo di parole, nostra salvezza vogliono essere le parole, la lapide, l’informe statua in forma di madre che ci cresce dentro e crescerà anche in noi morti, in noi «qui giace», immobile follia. Siamo perduti, siamo salvi, siamo salvi, siamo perduti, perduti, perduti28.
Così, Manganelli orchestra le proprie voci interiori per mezzo della scrittura, ma pone anche le sue «grandi orecchie29» in ascolto alle voci altrui, nella sua attività di appassionato lettore e critico. C’è un elemento che porta il Manganelli recensore a scegliere se soffermarsi o meno su un’opera:
Gli antichi sapevano che l’esordio di uno scritto ha una virtù fatale. È l’occhiata innamorativa: pensate alla prima ottava dell’Orlando furioso, al primo capoverso dei Promessi Sposi. Hanno qualcosa in comune? Sì, la fedeltà ad un ritmo. Venti righe, non venti pagine, possono bastare per dirmi che quello scrittore ha orecchio, che le parole, oltre che di un senso, sono portatrici di un disegno30.
Questa citazione introduce due termini fondamentali al procedere del discorso e su cui si tornerà più volte: orecchio e geometria. L’elemento acustico in Rumori o voci è analizzato non solo alla luce della sua presenza tematica all’interno dell’opera, ma anche della sua potenza strutturale. Prima di addentrarci nell’indagine del ritmo della prosa manganelliana, è necessario fornire la cornice teorica su cui si poggiano le successive riflessioni, partendo dalla definizione di Gillo Dorfles:
[…] ritmo è delimitazione periodica e quindi ripetizione di momenti discontinui entro una misura che può essere identica o solo approssimativamente tale; per parlare di ritmo cronologico, dobbiamo pensare al ripetersi d’un determinato episodio che consti di elementi cronologici eguali o abbastanza eguali per essere avvertiti come tali31.
Il ritmo rappresenta in quest’ottica «una delle manifestazioni più generali, insostituibili, connaturate con l’essenza stessa dell’arte32», configurandosi come un proficuo comune denominatore per un’analisi comparata delle arti. Il critico individua il ritmo quale «primum movens33» dal quale l’opera d’arte prende l’abbrivio, un’«ossatura34» che «resta poi ancora visibile o percepibile35» anche quando si mescola al contenuto dell’opera.
L’autore effettua una comparazione che si basa sull’influsso tecnico delle diverse arti fra loro, indagando le «leggi costitutive delle diverse arti e quindi le parentele segrete del loro divenire», in controtendenza con la sola considerazione del fattore contenutistico nello studio delle estetiche comparate. Sono diversi i fattori che «concorrono a creare la musicalità36», la quale, come ricorda Eliot, «is not something which exist apart from the meaning37». Dal momento che gli aspetti trattati da Dorfles nel capitolo L’arte della parola concernono la poesia più che la prosa, si è rivelato necessario avvalersi di un ulteriore strumento teorico ai fini dell’analisi del testo. Per queste ragioni, si introduce la teoria del ritmo di Henri Meschonnic, esposta principalmente in Critique du rythme. Anthropologie historique du langage e diffusa in Italia da Emilio Mattioli. I presupposti di tale teorizzazione si trovano in La nozione di “ritmo” nella sua espressione linguistica (1951), saggio in cui Benviste riprende il valore del termine “rythmos” dell’antica filosofia ionica (in particolare di Leucippo e Democrito) come “schema”, “forma”, da intendersi «come l’assetto momentaneo assunto da ciò che si muove38». Ai suoi albori, la riflessione sul ritmo ha natura empirica più che teorica, essendo motivata da alcuni problemi che il poeta riscontra nella traduzione della Bibbia. Meschonnic rimane molto colpito dal fatto che «nei testi veterotestamentari non ci fossero né versi né prosa, ma soltanto ritmo39», notando che «l’opposizione verso/prosa è una semplificazione abusiva anche in termini di metrica40» e che il ritmo vada piuttosto inteso, riprendendo Hopkins, come «la registrazione della parola nella scrittura41». Per quanto concerne la traduzione, quest’elemento è fondamentale, poiché ne consegue che tradurre un testo significhi trasporne in un’altra lingua il sistema discorsivo42. Come ricorda Mattioli, la critica del ritmo costituisce un’antisemiotica, poiché «il ritmo è il modo di pensare il continuo che il discontinuo del segno non ha43». Infatti, definire il ritmo nei termini di Hopkins conduce a una doppia critica, del segno e del soggetto44. Relativamente al segno, vanno innanzitutto intesi due tipi di continuo nel linguaggio. Il primo riguarda corpo storico e linguaggio, tra cui vi è un continuo di tipo antropologico, poiché «il testo risulta dall’azione del corpo sul linguaggio45». I modi del significare di un testo si inscrivono in una storicità che attraversa un corpo sociale producendo un ritmo che «engendre la collectivité46». Il secondo è il continuo del discorso, il continuo lessicale, morfologico, sintattico, secondo le tre definizioni saussuriane, cui va aggiunta la prosodia; l’unità non è più data né dalla parola né dal significato ma da quel che la poesia fa nel continuo del discorso47.»
In Critique du rythme si trova una definizione più ampia di «ritmo nel linguaggio», che si riporta nella traduzione di Mattioli:
io definisco il ritmo nel linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso cui i significanti, linguistici ed extralinguistici (nella comunicazione orale, in particolare), producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, e che io chiamo significanza (signifiance), ossia i valori propri di un discorso e di uno solo. Queste marche si collocano a tutti i “livelli” del linguaggio: accentuali, prosodici, lessicali, sintattici. Esse costituiscono una paradigmatica e una sintagmatica e, tutte insieme, neutralizzano proprio la nozione di livello. Contrariamente alla riduzione corrente del “senso” al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso. Essa è in ogni consonante, in ogni vocale e, in quanto paradigmatica e sintagmatica, mette capo a delle serie. Così i significanti sono tanto sintattici quanto prosodici. Il “senso” non è più, lessicalmente, nelle parole. Nella sua accezione ristretta, il ritmo è l’accentuale, distinto dalla prosodia-organizzazione vocale, consonantica. Nella sua accezione più larga, quella cui più spesso faccio riferimento, il ritmo ingloba la prosodia e, oralmente, l’intonazione48.
Il presente lavoro prosegue in questa direzione, analizzando l’organizzazione delle marche semantiche, morfologiche, sintattiche e prosodiche di Rumori o voci, indagandone infine la significanza complessiva e il ruolo del soggetto poetico nel sistema discorsivo del testo.
La prima marca presa in esame è la semantica, per la quale l’analisi di Rumori o voci è stata eseguita con il supporto di Voyant49, strumento di analisi testuale. È significativo che il termine che registra più occorrenze all’interno del testo sia “voce”, quella voce che secondo Meschonnic «est la matière de l’oralitè50» e che si perde nella scrittura. Nonostante le ipotesi sulla natura della voce siano molteplici (la voce sembra provenire prima dal sottosuolo e poi dal cielo, pare essere un prodotto del «ventre cavo della notte51» o addirittura il “tu” potrebbe averla progettata52), di questa voce manganelliana non conosciamo la provenienza. Non solo: della voce non conosciamo il numero («la voce, o l’impasto di più voci53»), né lo spazio-tempo in cui essa accade («tu non hai modo di dar misura di cose temporali54»), tanto che non è dato sapere che cosa accadesse precedentemente alla sosta nel borgo notturno. A confermare questa conformazione spazio-temporale si rinvengono anche alcune peculiarità morfologiche. Innanzitutto, l’unico passato conoscibile è quello della scena genitrice (i primi rumori: la porta che sbatte e la goccia che cade)55, che riemerge più volte nel testo e coincide con l’utilizzo di verbi di tipo narrativo56. La prima occorrenza di un verbo al tempo imperfetto si trova in riferimento ai rumori primordiali («quella porta, che già s’era rivelata ritmica 57»), seguita dall’ipotesi che tale porta non esista: «non era che una laboriosa escogitazione58». In secondo luogo, l’abbondanza dell’uso del futuro non nega, ma anzi conferma l’ipotesi di un tempo sostanzialmente immobile, dal momento che esso sfrutta l’intera gamma delle possibilità epistemiche attraverso l’uso di aggettivi o avverbi modali. Il futuro è solo dialettico, mai verificabile, e insieme agli altri verbi commentativi acuisce la tensione ipotetica, che giunta all’apice vede una distensione del discorso attraverso i tempi narrativi, in una trappola circolare.
Risulta poi fondamentale nell’analisi della voce il legame che essa instaura con il “tu”, aspetto che verrà approfondito nelle conclusioni. Per ora si noti che è più volte sottolineato il ruolo dell’ascoltatore, il “tu”, e l’indispensabilità del suo ascolto («l’ascoltare che spetta a questi suoni59», «compito […] di ascoltare e di dare dignità di suono a ciò che pare accidente del nulla60»), facendo risuonare quest’aforisma di Montaigne: «tutto è già stato detto, ma poiché nessuno ascolta occorre sempre ricominciare61». Tomatis nota che “l’essere allerta” è uno dei primi atteggiamenti dell’orecchio:
è verosimile che all’inizio l’orecchio operasse come un’antenna dai lunghi tentacoli, orientata su suoni lontani in avvicinamento che potevano segnalare ad ogni istante il sopraggiungere di un evento che avrebbe potuto essere fatale62.
Manganelli mette in scena un soggetto che, nella follia o nel gioco della distensione del significato, è dedito unicamente all’ascolto, come dimostrano le rare occorrenze di termini legati alla vista, al tatto e all’olfatto, presentate per lo più in senso negativo («giacché dopo tutto del cielo nulla si vede»63, «sempre nessun odore accompagna quel mugolio64»). Di primo acchito il testo sembra quindi mettere in scena un ascolto primordiale, senza soluzione e senza evoluzione. In realtà Rumori o voci problematizza il livello successivo dell’ascolto, descritto da Tomatis come «porta sul mondo del suono65»: così, «l’orecchio all’ascolto66», attraverso la distinzione delle strutture acustiche e la loro intellettualizzazione, si fa «bocca sonica67», legando indissolubilmente il momento ricettivo e quello produttivo del linguaggio. L’uomo, spiega Tomatis, è allo stesso tempo l’essere parlante, ascoltante e comunicante. Il “tu” manganelliano è, invece, un ascoltatore apparentemente muto e chiuso nel proprio delirio, in cui talvolta affiora però l’ipotesi che il ricettore sia anche emittente: «una voce che ti parla da sempre dentro la bocca, come la notte ti sta dentro la bocca68», creando, nella dispersione del senso, «un gioco perpetuo di ombre e svelamenti69».
Si evince fin dal titolo che in Rumori e voci l’elemento sonoro non si ferma alla voce, ma comprende anche i rumori, tra cui i versi di animali, i lamenti o i mugolii, e i silenzi. Come nota Francucci70, la voce e il suono non sono contrapposti al rumore e al silenzio ma convivono con essi senza negarsi71. La Figura 1 mostra che i rumori e il silenzio procedono nel testo di pari passo, mentre le voci hanno un aumento vertiginoso di frequenza nel finale. Gli accadimenti sonori si innestano in un luogo vagamente descritto attraverso alcuni connotati più volte ripetuti all’interno del testo e sui quali si innestano di volta in volta le ipotesi. Questo luogo – «votato ad un qualche enigmatico accadere72» – è costituito da un borgo notturno attraversato da un fiume in cui il soggetto sosta, sperimentando l’auscultazione e la stanchezza. Anche l’esistenza del borgo non è altro che un’ipotesi, poiché ciò che era stato denominato fiume «non è fiume73», nonostante abbia «a che fare con l’acqua, con lo scorrere, con il guadare74» e il tu sospetta che uno dei muri del borgo sia «fittizio75». Tuttavia, non deve preoccupare che il suo statuto ontico sia ambiguo, poiché l’ambiguità è il fondamento del testo del Manganelli trickster76, come mostreranno tutti i livelli d’analisi. Il borgo con i suoi elementi costituisce, insieme alle voci, il continuum lessicale su cui si costruisce la variazione, dove il fiume rappresenta la prolificità del fluire del testo77. Nella Figura 2 si nota infatti che le occorrenze dei termini seguono un andamento simile. L’unica eccezione è rappresentata dal termine “notte”, che assume una frequenza maggiore nella parte centrale dell’opera. Proprio in quella porzione di testo, l’autore si riferisce non solo alla notte, ma anche a «un’altra notte», con un’eco «di blanchottiana memoria78». La “notte” non è l’unico termine che riscontra un picco di frequenza in una porzione di testo. Al contrario, il procedere del lessico nominale per vette e discese assume caratteristiche strutturali, poiché nell’opera si susseguono blocchi di ipotesi connotati semanticamente, «in un incessante susseguirsi di elementi interconnessi79» (cfr. Figura 3).
Se si aggiunge alla ricerca il termine “voce/i”, si conferma che essa è l’orizzonte mobile del testo, una forma assoluta che assume spessore semantico sulla base dei diversi picchi e avvallamenti (cfr. Figura 4). La voce convive nel testo con i campi semantici individuati, costruendo di volta in volta intrecci ipotetici con ciascuno di essi. Si nota come la dimensione di provenienza del sensibile sia legata al corpo e al suono secondo un continuum semantico. Nel testo è ipotizzato, ad esempio, che la voce salga dalla terra e che l’animalesco “tu” la percepisca tramite le vene del piede «che fanno legame con le vene del suolo80», in un dialogo «che transita da piede a piede81» e che si sviluppa in un moto bidirezionale, poiché «la voce che ascolti con i piedi ti avvinghia alla caviglia». Poco più avanti compare un ascolto insolito, eseguito con l’inguine82. Come spiega Milani, decriptare l’universo è impossibile, motivo per cui vengono avanzate ipotesi di ipotesi «che aggiungono ulteriori strati deformanti alla già deformata rappresentabilità dell’universo83».
Il suono coesiste anche con il “nulla”, termine che ha un’occorrenza minore rispetto alle voci, ma continuativa: sullo sfondo dei diversi campi semantici non registra picchi significativi ma fa da sfondo allo svolgersi per infinite pieghe84 del discorso, nella ramificazione ipotetica (Cfr. Figura 5).
Ci si inoltra così nel dominio della sintassi, la seconda delle marche analizzate alla luce della teoria del ritmo di Meschonnic. Le ipotesi prendono forma non solo nel periodo ipotetico («Se percorrete una delle strade […]85» ), ma anche attraverso le proposizioni disgiuntive («[…] giacché per certo si muovono, o invecchiano, o sono instabili86»), le frasi rette da verbi che indicano dubbio o in cui sono presenti espressioni che contengono i sostantivi corrispondenti a tali verbi, l’uso del condizionale e le frasi connotate temporalmente dall’uso epistemico del futuro accompagnato da avverbi modali.
Nel trattare la marca della sintassi è necessario introdurre il tema della forma. Nella quinta puntata delle conversazioni radiofoniche con Paolo Terni, Manganelli afferma che l’insegnamento musicale è fondamentale per lo scrittore, il quale apprende «la straordinaria e raggelante ironia della pura forma»87. Essa è motivo d’invidia per lo scrittore, il quale è intrappolato nell’onta del significato da cui tenta tuttavia di liberarsi. Il fatto che la composizione di Rumori o voci (1987) sia temporalmente vicina ma successiva alle interviste radiofoniche (1980), ha portato Giuditta Isotti Rosowsky a sostenere che Rumori o voci sia «la metamorfosi poetica delle risposte di Manganelli a Paolo Terni88». È su questo terreno che si innesta la presente riflessione sulla forma, poiché, come continua Isotti Rosowsky:
l’opera musicale si offre a Manganelli come il modello da esplorare nella dinamica della struttura geometrica con i suoni89.
Alla luce di ciò, si può supporre che la dilatazione del senso del testo realizzata attraverso i dettami della retorica barocca90 non sia l’obiettivo, ma la conseguenza di una strutturazione del discorso che cerca di ricreare, con i mezzi diversissimi della prosa, una geometria di suono. Questo accade pur non potendo fare a meno del senso, anche quando ineffabile, così come si specifica in Rumori o voci:
sebbene nessun senso sia deducibile da questo discorrere, accade questo, che questo accorrere ed investirsi e inseguirsi delle sillabe alluda ad un progetto di discorso che in definitiva abbia senso, o almeno riesca a mimare il senso in modo tanto intollerante da dover dire che non può essere che non abbia senso, sebbene sia nello stesso tempo certo che nessuno in nessun modo può dire di quale senso si tratti91.
L’ordine significante-significato è qui insufficiente a esaurire il discorso, dal momento che il senso dilatato del testo crea una nuova forma: la geometricità che caratterizza il musicale cerca e trova in Rumori o voci una trasposizione nella scrittura. Le ipotesi ricoprono un ruolo importante nella creazione di una pura forma. Configurandosi come risposte mute all’interrogazione di fondo del testo, hanno come effetto non la negazione delle diverse possibilità esistenti, ma la loro catalogazione, moltiplicando il senso fino allo sfinimento, alla follia, tanto da provocare la dispersione dello stesso, permettendo invece alla forma di questo susseguirsi di emergere, in un procedere di picchi e avvallamenti semantici, che ha una propria geometria: un proprio ritmo. L’interrogazione infatti è ciò su cui si fonda strutturalmente il discorso e ne è anche la sua stessa «tensione»92, tanto che lo stesso Manganelli azzarda la possibilità di una sua equazione: «n, o, ;, x, !, u,93». Che questa sia applicabile pedissequamente e senza tranelli, è poco probabile. Che invece in essa Manganelli nasconda una traccia del suo geometrico procedere pare più plausibile: la “n” e la “o” rappresentano i due termini di una disgiunzione che è però senza risoluzione e provoca una sospensione, come testimonia “;”, a cui segue una “x” che indica l’insensatezza dell’interrogazione e poi uno spazio bianco, ovvero un silenzio94, dopo il quale si procede con “!”, un’esclamazione, quindi un momento della voce, e infine una “u”, a indicare una «metamorfosi della follia», che potrebbe rappresentare il momento della dispersione a cui segue il cambio di argomento, il levarsi di un nuovo picco semantico.
Si mostra così, di picco in picco, non solo l’ambiguità del linguaggio, ma anche la sua fallibilità: seppur il corpo agisca sul linguaggio e vi dissemini tracce della sua presenza, tra cui la voce, essa si registra tuttavia come traccia di assenza, come inudibile. Questo termine richiama Lyotard, che ne dà una definizione nell’omonimo saggio del 1991, L’inudibile:
è un gesto nello spazio-tempo-materia del suono e vi fa segno della sua presenza, ma come quel che il pensiero-corpo non può sentire. Vi fa segno di una presenza che non è presentabile95.
La traccia che rimane della voce è la sua stessa modulazione, come voce e come ciò che ad essa è associato: il lagno, il mugolio, il gloglottio, il verso d’animale.
Ci si immerge ora nel dominio della prosodia. Per comprendere come Meschonnic intenda questa marca linguistica risulta necessario chiarire alcuni presupposti teorici. Scrive Frescaroli:
normalmente, con questo termine intendiamo l’assetto degli accenti ritmici, l’alternanza di sillabe accentate e non accentate, oppure la lunghezza e la brevità delle sillabe. Nella sua poetica, però, Meschonnic la definisce come la “composizione consonantica e vocalica delle parole in un insieme; composizione che partecipa specificatamente al ritmo per i suoi effetti eventuali di serie” (ibid.: 62). Ciò che va sottolineato è che la prosodia partecipa al ritmo non come parte del significato, ma “inscrive una superlatività semantica” (ibid.: 99), cioè comunica, in maniera più o meno conscia, l’affettività, conferendo un “peso” particolare alle parole, quello che Meschonnic chiama generalmente”forza” (Meschonnic, Dessons 1998: 235)96.
Come afferma Milani, uno dei punti centrali dell’analisi della scrittura manganelliana è «l’interpretazione della sonorità delle parole97», che si gioca sullo scarto esistente tra parola-stemma e parola-ombra98. La presenza verbale, con la propria sonorità, evoca «qualcosa che sulla pagina non c’è99». La costruzione sonora non ha meno valore delle strutture semantiche100 e segue «una logica altra rispetto a quello che regola l’organizzazione sintattica101».
Nella quinta puntata delle registrazioni radiofoniche con Terni, Manganelli affronta il tema della cantilena, relativamente alla scena terza dell’atto secondo del Rigoletto di Verdi, il quale rappresenta per lui allo stesso tempo un amore e un disamore, «una figura coniugale102». La cantilena è il momento della «parola-non parola», «della pura sillaba, della pura modulazione103», che descrive come:
il momento già astratto del linguaggio, in cui la parola ha perso tutti i suoi contenuti e si è ridotta ad una pura e perfetta modulazione in cui tutti i significati possibili sono consumati.104
Ciò ricorda per certi versi «la pura superficie105» che Manganelli ammira in Savinio, il quale ama i suoni più che la musica, poiché essi non hanno spessore. Savinio «vagheggia un mondo pensato come infinite sfere concentriche106», procedimento che ricorda il modo di procedere di Manganelli per cerchi altrettanto concentrici107. Effettivamente si può notare in Rumori o voci che la parola stemma può farsi parola-ombra, costruendo così la «superlatività semantica» messa in luce da Frescaroli relativamente alla marca della prosodia. Questo accade ad esempio nel caso di accumulazione verbale di seguito riportato, altrove come climax, iperboli, perifrasi:
tu dovrai chiederti se non è opportuno, se non ti è possibile, se non desideri, se non ti senti sollecitato, se non brami, se non sei tentato, se tu non insidi te stesso, se non ti illecibri, se non ti seduci, se non ti corrompi, se non ti adulteri, se non ti perverti a conseguire un qualche congiungimento, se non devi camminare, percorrere, transitare, attraversare, guardare, pervenire, errare, perderti, smarrirti di smarrimento, cercare, interrogare, sondare, tentare, sfiorare, allettare, incantare, o infine null’altro che dar certezza a ciò che romba che tu, tu appunto e solo, tu lo ascolti, e che quel rombo altera, manipola, sfregia, insidia il popolo delle tue viscere108.
Nella costruzione della variatio attraverso la sinonimia, emerge la parola-non parola, che travalica il proprio significato semantico – senza abbandonarlo – e costruisce una propria semantica d’attesa e di dispersione della voce. A tal proposito, si legge nelle pagine finali di Rumori o voci che la voce è «semplicemente la modulazione sterminata dell’interrogazione109».
Con la prosodia si chiude il primo momento di riflessione sull’organizzazione delle marche linguistiche. Tornando a Dorfles e alla sua definizione di ritmo nelle arti, notiamo come in Rumori o voci avvenga in tutti i livelli linguistici la «ripetizione di momenti discontinui entro una misura che può essere identica o solo approssimativamente tale110». Il livello semantico è caratterizzato dalla continuità nel procedere del lessico nominale per picchi e avvallamenti, mentre nel livello sintattico le ipotesi si susseguono in un geometrico procedere, in cui variano gli elementi lessicali ma l’interrogazione sviluppa se stessa secondo traiettorie di volta in volta similari, nella forma della domanda retorica e della dubitatio111. Infine, dalla prosodia emergere la «parola-non parola», che, pur mantenendo il proprio significato semantico, disperde la voce, attraverso l’uso delle figure retoriche. Dalle diverse marche emerge, secondo la definizione di Meschonnic, una significanza complessiva del testo. Come sottolinea Lucie Bourassa, la critica del ritmo «cerca come significhino [il verso o l’opera, ndr] e la situazione di questo come112». Il ritmo mostra – non dice – tale significanza, e lo fa appunto attraverso l’organizzazione e il movimento del discorso:
organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso, il ritmo è l’organizzazione stessa del senso del discorso. E il senso essendo l’attività del soggetto dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso.113
Per concludere, si evidenzia che in Rumori o voci la dispersione della voce tramite il procedimento ipotetico, l’ambiguità della stessa e l’identità sfuggente dell’ascoltatore, si sviluppano simultaneamente nelle diverse marche linguistiche.
La voce, scrive Manganelli, «non esige uno spazio, quanto una figura geometrica che la contenga114». Questa figura prende le forme dell’interrogazione, attraverso elementi marcati nella sintassi, nella morfologia, nella semantica, nella prosodia. Nel ritmo si svolge il soggetto, non univoco nel caso di Rumori o voci: il “voi” iniziale che ingloba voce e ascoltatore viene velocemente sostituito dal “tu”, l’ascoltatore emancipato dalle voci. Sulla distribuzione del “voi” e del “tu” si veda la Figura 6. A differenza delle analisi precedenti (vd. Figura 1, 2, 3, 4, 5), in questo caso il testo non è stato considerato fluviale. Si è ritenuto infatti opportuno dividere il testo in sette parti, emulando cosí le divisioni create dai sei stacchi che sono contenuti nelle prime pagine115. Questa suddivisione evidenzia che il “voi” perde vertiginosamente terreno nella sezione più corposa dell’opera, fino ad azzerarsi, mentre il “tu” segue il tragitto contrario, nonostante avesse registrato solo tre occorrenze nei primi sei “paragrafi”. L’uso insistito del pronome personale soggetto “tu”, è apostrofe all’ascoltatore. L’apostrofe e l’interrogazione (nelle forme di domanda retorica e dubitatio) sono figure retoriche funzionali al fine di drammatizzare un discorso, inserendo «elementi che facciano sentire la viva voce del narratore, che trasformino il narratore in attore».116 L’ascoltatore è il destinatario (mai detentore) delle voci, le quali sono poste in figura attraverso il ritmo del testo, e in cui l’ascolto si svolge tramite il soggetto.
Appendici
Note
- Andrea Cortellessa, (a cura di), Una profonda invidia per la musica, L’Orma editore, Roma, 2014, p. 19
- Ivi, p. 20
- Ibidem
- Ivi, p. 31
- Ivi, p. 39
- Ivi, p. 34
- Ibidem
- Ibidem
- Ivi, p. **
- Giorgio Manganelli, Rumori o voci, Rizzoli, Milano, 1987, p. 20
- Ivi, p. 27
- Ivi, p. 94
- Ivi, p. 96
- Ivi, p. 115
- Cfr. Rodolfo Sacchettini e Nicola Turi, Storie da ascoltare nell’Italia del boom. Il radiodramma da Primo Levi a Giorgio Manganelli, Carrocci, 2023 e Nicola Turi, Manganelli e la scrittura drammatica: la voce, la radio, «Journal of Italian Studies», anno 41, n. 1, 2023
- Ivi, p. 106
- G. Manganelli, Tragedie da leggere, Bompiani, Milano, 2008, p. 105.
- Giorgio Manganelli, Rumori o voci, Rizzoli, Milano, 1987, pp. 134-135.
- E. Lisciani Petrini, Risonanze. Ascolto Corpo Mondo, Milano, Mimesis, 2007, p. XXVII in Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
- L’accostamento di Rumori o voci al pensiero del filosofo francese è stato proposto ed esaustivamente trattato da A. Cortellessa, per cui cfr. L’onta del significato in G. Manganelli, Una profonda invidia per la musica, a cura di A. Cortellessa, L’Orma editore, Roma, 2014. Anche Marinoni ha indagato il rapporto con All’ascolto. Cfr. M. Marinoni, Le geometrie infernali del suono, «Oblio», VI, 2021, p. 66: «sembra che il soggetto, nella sua irriducibile destinazione mortuaria e nientificante, venga ritmicamente scandito, per riprendere Nancy, come cifra di un «rinvio infinito, poiché rinvia a ciò che non è niente al di fuori del rinvio». È quant’altro mai azzeccata quindi la definizione di “diapason soggetto”».
- J.-L. Nancy, All’ascolto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, p. 23
- Si vd. Federico Francucci, Echi nel buio. Intorno a Rumori o voci di Giorgio Manganelli, «Rivista di studi italiani», anno 41, n.1, 2023, p. 169
- F. Francucci, Echi nel buio. Intorno a Rumori o voci di Giorgio Manganelli, cit., p. 167: «più la seconda persona si ritrova coinvolta, immersa negli sgocciolii, tramestii, o clamori che emanano dal buio, più ne diventa in un certo senso il punto d’applicazione, a cui spetta il compito dell’indagine-decifrazione dei fenomeni sonori, e più l’intero scenario si avvicina a un delirio paranoico o psicotico che minaccia di azzerare il soggetto (sempre che la seconda persona di Rumori o voci sia un soggetto intero).»
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., pp. 77-78
- Ivi,p. 126
- J.-F. Lyotard, Rapsodia estetica. Scritti su arte, musica e media (1972-1993),a cura di D. Cecchi, in «Estetica / Spettacolo / New media», Quaderni, 2, p. 117.
- Ibidem.
- Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, epub 33-34.
- Ibidem.
- Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, epub 175-176 (Cap: Innamorarsi a pagina uno).
- Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2003, p. 43.
- Ivi, p. 44.
- Ivi, p. 54.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Ivi, p. 181.
- Ivi, p. 180.
- G. D’Acunto, Il movimento della parola nel linguaggio. Meschonnic e la poetica del ritmo «Testo e senso», 2012, n. 13, p. 2.
- H. Meschonnic Il ritmo come poetica. Conversazioni con Giuditta Isotti Rosowsky, Bulzoni, Roma 2006, p. 33.
- Ivi, pp. 39-40.
- Ivi, p. 56.
- Cfr. H. Meschonnic, Il ritmo come poetica, cit., p. 68: «Mutuo da Saussure il concetto di sistema e lo unisco al pensiero di Benviste per dire che un’opera è un sistema di discorso, una soggettivazione massimale del discorso».
- Emilio Mattioli, Ritmo e traduzione, Mucchi Editore, Modena, 2001, p. 16.
- Cfr. H. Meschonnic, Il ritmo come poetica: Conversazioni con Giuditta Isotti Rosowsky, cit., p. **.
- Ivi, p. 56.
- H. Meschonnic, Critique du rythme, cit., p. 649.
- H. Meschonnic, Il ritmo come poetica, cit., p. 56.
- E. Mattioli, Ritmo e traduzione, cit., p. 13
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- H. Meschonnic, Critique du rythme, cit., p. 660.
- G. Manganelli, Rumori o voci, Rizzoli, Milano, 1987, p. 71.
- Ivi, p. 126: «[…] che tu abbia progettato la voce […]».
- Ivi, p. 99.
- Ivi, p. 64.
- Cfr. F. Francucci, Echi nel buio. Intorno a Rumori o voci di Giorgio Manganelli, cit., p. 175. : «a intervalli irregolari ma con una certa frequenza, per un lungo tratto dell’opera, l’esposizione della voce zittirà il bailamme da lei stessa evocato, descriverà fasi di pausa silente e tornerà alla scena iniziale, la città notturna, il silenzio che non è tale, i primi rumori, forse quelli di una goccia che cade o una porta che sbatte; come se si fosse sempre ricondotti all’inizio, si dovesse sempre ricominciare da capo, per un verso. Ma, per un altro, ognuno di questi ritorni trattiene la memoria di quanto si è andato dipanando fino a quel momento.»
- Secondo la distinzione di Weinrich, utilizzata da M. Farina in “Un vagabondaggio mentale”. Sentieri narrativi in Hilarotragoedia e Nuovo commento di Giorgio Manganelli, «Enthymema», XXIII, 2019, per cui si vd. p. 129.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 11.
- Ibidem.
- Ivi, p. 71.
- Ivi, p. 85.
- F. Ravazzolli, L’orecchio parla nell’orecchio?, in A.A. Tomatis, L’orecchio e il linguaggio, Ibis, Como, 1995, p. 23.
- A.A. Tomatis, L’orecchio e il linguaggio, cit., p. 41.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 23.
- Ivi, p. 52.
- A.A. Tomatis, L’orecchio e il linguaggio, cit., p. 51.
- Ivi, p. 41.
- Ivi, p. 53.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 142.
- F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, Pendragon, Bologna, 2015, p. 53.
- F. Francucci, Echi nel buio. Intorno a Rumori o voci di Giorgio Manganelli, cit., p. 176.
- A titolo esemplificativo, si noti che il coro è definito come «una variante beffarda del silenzio». Cfr. G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 90.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 27.
- Ivi, p. 68.
- Ibidem.
- Ibidem.
- F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 63.
- Cfr. G. Isotti Rosowsky, Giorgio Manganelli. Una scrittura dell’eccesso, Bulzoni Editore, Roma, 2007.
- Si riprende l’espressione utilizzata da Manuele Marinoni in Le geometrie infernali del suono, cit., p. 63 e 68, che ha notato un legame con Blanchot per i temi della stanchezza e del silenzio.
- F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 21.
- Giorgio Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 55.
- Ibidem.
- Cfr. ivi, p. 63.
- F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 159.
- Cfr. F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 70: «[…] la definizione del barocco fornita da Deleuze in La piega. Leibniz e il Barocco, in quanto “piega che va all’infinito”, risulta estremamente calzante rispetto a una poetica, nella quale la scrittura corrisponde alla cerimonia dello scrivere, alla messa in scena del linguaggio, nonché alla proliferazione linguistica che si organizza in pieghe e ripiegamenti a prescindere dall’assenza di una centralità epistemologica».
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 7.
- Ivi, p. 8.
- G. Manganelli, Una profonda invidia per la musica, a cura di A. Cortellessa, cit., p. 58.
- G. Isotti Rosowsky, Giorgio Manganelli. Una scrittura dell’eccesso, Bulzoni Editore, Roma, 2007, p. 135.
- Ibidem.
- Cfr. A. Gialloreto, Allegorici, utopisti e sperimentali, Franco Cesati, Firenze 2022.
- Giorgio Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 98
- Cfr. Giorgio Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 100: «[…] l’interrogazione è essa stessa la tensione del discorso […]».
- Ivi, p. 105
- Relativamente al tema del silenzio di vd. Manuele Marinoni, Le geometrie infernali del suono, cit., pp. 68-69.
- J.-F. Lyotard, Rapsodia estetica. Scritti su arte, musica e media (1972– 1993), a cura di Dario Cecchi, in «Estetica / Spettacolo / New media», Quaderni, 2.
- D. Frescaroli, Tra pratica e teoria: un’analisi del lavoro traduttivo di Henri Meschonnic, in C. Denti, L. Quaquarelli, L. Reggiani (a cura di), Voci della traduzione/Voix de la traduction, «mediAzioni», 21, 2017, pp. 3-4.
- F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 52.
- Cfr. F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, cit., p. 54: «la parola è stemma e ombra, pieno e vuoto, continuità e discontinuità; essa è il pendolo che oscilla con ritmo irregolare tra gli infiniti estremi possibili, simulando una parvenza di fissità e dissimulando la sua connaturata variabilità».
- Ibidem.
- Ivi, p. 56.
- Ivi, p. 54.
- Ivi, p. 59.
- G. Manganelli, Una profonda invidia per la musica, cit., p. 61.
- Ibidem.
- Ivi, p. 72.
- Ibidem.
- Cfr. supra, nota 64.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., pp. 57-58.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 128.
- G. Dorfles, Discorso tecnico delle arti, cit., 2003, p. 43.
- Cfr. B. Mortara Garavelli, Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche, Editori Laterza, Bari, 2010, pp. 118-119.
- E. Mattioli, Ritmo e traduzione, cit., p. 18.
- Ivi, p. 13.
- G. Manganelli, Rumori o voci, cit., p. 127.
- A tal proposito si vd. F. Francucci, Echi nel buio. Intorno a Rumori o voci di Giorgio Manganelli, cit., p. 170.
- B. Mortara Garavelli, Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche, cit., p. 116.
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