Ricordo di Tullio Ascarelli di André Tunc
Davide Monda, Ricordo di Tullio Ascarelli di André Tunc, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 19, maggio/agosto 2015
Un’opera di Tullio Ascarelli [1903 – 1959] su Hobbes e Leibniz non potrebbe presentarsi al lettore senza una diligenza assoluta. La mente poderosa del maestro italiano aveva familiarità con i più insigni pensatori di tutti i tempi. E la cosa migliore, dinanzi a lui e dinanzi a loro, è farsi da parte.
Vorrei così, in queste righe, limitarmi a offrire una duplice testimonianza: sull’opera e sull’uomo.
Poco prima della morte, Tullio Ascarelli mi diceva le ragioni di questo libro. Era tragicamente consapevole della crisi della nostra civiltà. Forse Roma, più di ogni altra città al mondo, è adatta a far vivere quella mescolanza di grandezza e barbarie che si ritrova in qualsivoglia civiltà umana. Ma come questo ebreo, che si era visto minacciato, con la moglie e i figli, per la semplice appartenenza ad una razza, avrebbe potuto restare insensibile alle ombre del tempo presente, più minacciose delle cupe stradine schiacciate, di notte, fra i grandi palazzi romani?
Il diritto, in sé e per sé, gli sembrava una questione ben poco importante. Cosa è mai un buon notaio, un buon procuratore e persino un buon giudice, se è soltanto un giurista, e se non è, anzitutto, un uomo fra gli uomini? Ai suoi studenti, i cui padri erano stati spesse volte razzisti, si sforzava di dare una formazione morale e politica. Ma, nel contempo, s’interrogava. Aveva la consapevolezza che l’umanità si era sviata o che, a ogni modo, aveva dimenticato, nel suo cammino, alcuni valori fondamentali che occorreva ritrovare.
Per questo motivo frequentava i filosofi del passato, così come i contemporanei. In omaggio a tale ricerca, ho voluto proporre, con l’incoraggiamento della signora Ascarelli, la sua ultima fatica ai lettori di lingua francese. Non fu facile, a onor del vero, condurre felicemente in porto l’intrapresa. La lingua di Ascarelli era oltremodo brillante, densa, ricca d’incidentali che, con una parola, introducevano un pensiero: rifletteva una vivacità di spirito e un’erudizione ugualmente eccezionali. Si deve esser grati, dunque, alla signora Ducouloux-Favard per aver saputo offrirne, a prezzo di fatiche tutt’altro che lievi, una traduzione chiara.
Quanto all’uomo, mi limiterò a riprendere le poche pagine che gli ho consacrato nel 1960 sulla “Revue Internationale de droit comparé”: furono sì scritte in preda all’emozione, ma è un’emozione che ancora condividono tutti coloro che l’hanno conosciuto.
«A tutti quelli che l’hanno conosciuto l’annuncio della morte di Tullio Ascarelli ha lasciato un senso d’impoverimento irreparabile.
Come il professor Eduard Maurits Meijers [1880-1954] di Leida, egli meravigliava in primis per la vivacità dell’intelligenza e la vastità della scienza, per l’attitudine, in una discussione, a scavare il problema un po’ più profondamente degli interlocutori: al punto, cioè, in cui tutti i dati ricevono una luce affatto nuova, che rivela la soluzione evidente.
Ma, in lui come in Meijers, tale superiorità in àmbito giuridico era solo un aspetto di una mente ben più vasta. Entrambi coltivavano la filosofia, le lingue, le scienze esatte, campi nei quali avrebbero potuto, probabilmente, essere maestri. Entrambi, più che tutto, hanno testimoniato la dignità dell’uomo con il loro coraggio dinanzi alle persecuzioni e con la loro serenità all’indomani delle prove.
Laureato in Giursprudenza presso l’Università di Roma nel 1923, a vent’anni, Tullio Ascarelli si vede affidare a ventitré un insegnamento e, a venticinque, la cattedra di diritto commerciale nell’Università di Ferrara. Sempre a venticinque anni pubblica la prima opera, La moneta, ben presto premiata dall’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale. Fra il ’28 e ’38, doveva poi dare alle stampe nove opere, dedicate principalmente ai titoli di credito, alle società, al diritto commerciale generale.
Ma tale straordinaria attività scientifica non gli impedisce di proseguire l’insegnamento nell’Università di Catania e, successivamente, di Parma, Padova e Bologna. Essa, però, mai lo assorbe al punto d’impedire al suo cuore generoso di reagire contro i modi ripugnanti del fascismo. In effetti, Tullio Ascarelli aderisce ben presto al gruppo “Non mollare”, poi al gruppo “Giustizia e Libertà”, partecipando alla trasmissione e alla pubblicazione del “Memoriale Rossi” sull’affaire Matteotti, poi all’evasione di uno dei Rosselli da Lipari.
Benché sospetto politico, è tuttavia il fatto di essere ebreo a costringerlo, nel ’38, a lasciare la sua patria. In Inghilterra, conosce difficoltà di ogni sorta: gli incarichi più vicini alle sue corde sono già occupati da colleghi tedeschi, vittime come lui della barbarie degli uomini.
È in Francia, ove ritorna poco prima della guerra, che ritrova – scrive la signora Ascarelli – la fiducia nel futuro, specialmente grazie al sostegno morale del preside Ripert [1880-1958] e di Maurice Picard [1887-1968]. Con coraggio ammirevole, quest’uomo di trentasei anni, ch’era già peraltro un apprezzato studioso, lavora in vista dell’agrégation in diritto francese.
Ma sopraggiunge la disfatta del ’40: deve così partire con la moglie e i tre figli alla volta di un paese nel quale è privo di risorse e relazioni. L’occupazione lo mette in pericolo, perché a Parigi aveva ripreso i contatti con gli antifascisti italiani. Tenta di fuggire. Poco prima della morte, rivelava il ricordo sereno che serbava di quel periodo, ove scopriva che cosa è l’uomo: il folle che, siccome lui era ebreo, gli avrebbe sputato in faccia; il codardo che, per paura della sua ombra, l’avrebbe consegnato al boia; ma pure l’uomo che, giacché egli era un perseguitato, rischiava tutto per lui, uno sconosciuto.
Sempre in questo periodo poté stimare il valore della compagna a cui aveva unito la propria vita dieci anni prima. Questa donna così gentile e colta, che portava nella sua famiglia un orientamento verso le arti (anzitutto la musica), avrebbe potuto trascurare un uomo della sua tensione intellettuale; l’aiuterà, invece, nell’attraversare le molte prove con coraggio, serenità e solidità straordinarie.
Dopo un viaggio drammatico per la Francia, la Spagna e il Portogallo, la signora Ascarelli, Tullio e i loro figli s’imbarcarono per il Brasile. Sarà per lui l’inizio di un nuovo periodo di lavoro fecondo e felice. L’Università di San Paolo gli conferisce sùbito un insegnamento; già dal secondo anno, d’altra parte, lui fa lezione in portoghese. Il governo lo consulta e gli chiede di preparare riforme importanti, specialmente in materia fiscale. Le università gli assegnano la toga di dottore honoris causa. Fonda l’associazione “Italia libera”, la nuova Croce Rossa italiana, l’Istituto italiano di cultura. Ancora, uno studio legale, divenuto presto importante, lo mette al riparo da qualsivoglia bisogno materiale.
Ma nel 1947, malgrado la sua riconoscenza verso il Brasile, riprende l’insegnamento a Bologna. Dividendo dapprima il suo tempo fra l’Italia – che l’ha rigettato e dove, frattanto, è diventato uno sconosciuto – e il paese che lo ha liberalmente adottato, sente via via più forte il richiamo della patria, specie al fine di dedicarsi alla formazione intellettuale dei suoi giovani universitari e di far conoscere loro le generose idee giuridiche che ha tratto dalla comparazione dei diritti. Affermerà, anni dopo, che ringraziava Iddio di tutte le prove che gli aveva fatto patire per arricchirlo intellettualmente e farlo maturare spiritualmente.
Nei dodici anni che gli resteranno da vivere, ben tredici opere pubblicate testimoniano la sua forza e la rapidità del suo lavoro. D’altro canto, non dà più, probabilmente, il meglio di sé alle opere giuridiche scritte. Troppo ha sofferto per la follia degli uomini ed è troppo generoso per non avvertire l’esigenza imperiosa di dare ai giovani una maggiore maturità politica e morale.
A Bologna fino al ’53, e quindi a Roma, dedica intere giornate a studenti che raccoglie per insegnar loro a pensare. Organizza perfino un centro di preparazione culturale d’impostazione politica. Partecipa a riunioni pubbliche, a controversie di stampa, sempre combattendo per ideali di moralità e giustizia. Si presenta anche alle elezioni del ’53 per un piccolo partito politico di sinistra: “Unità popolare”, erede del gruppo “Giustizia e Libertà”, poi aderisce al Partito Socialista Italiano. Inoltre, fornisce al governo consulenze sui principali progetti di legge. Ma, più che tutto, trova il tempo di meditare.
Mi sia consentito di menzionare quanto scrisse la signora Ascarelli: “Sentiva che la cosa più importante nell’uomo è lo spirito. Si dichiarava sempre profondamente religioso, pur non accettando alcuna forma religiosa. Si dichiarava sempre profondamente ebreo, ma riconosceva la grandezza del messaggio giudaico-cristiano. Possedeva d’altronde una robusta conoscenza teologica ed era in grado di discutere con i teologi. I due libri che sempre l’accompagnavano in viaggio erano il codice e la Bibbia”.
Siffatta attitudine comporta una certa disaffezione verso il diritto. Poco prima della morte, Tullio Ascarelli mi comunicava l’impossibilità che sentiva di continuare a far diritto come lo si fa ordinariamente, e come egli stesso l’aveva fatto sino a quel momento di riflessione radicale. In verità, tutta quanta la civiltà occidentale gli pareva rimessa in discussione per le sue carenze e i suoi errori. Gli interessava davvero soltanto la filosofia del diritto, considerata in particolare dal punto di vista storico. Gli sembrava che l’umanità si fosse perduta, e voleva risalire al crocevia in cui essa aveva preso la strada sbagliata.
Quando ho saputo della sua morte, avevo fra le mani, per caso, un frammento di una sua lettera che rivela il suo orientamento e, nel contempo, la forza della sua intelligenza: “Sto finendo – scriveva – un lavoro su Hobbes e Leibniz, e spero di riuscire a studiare Domat [1625-1696]. Sainte-Beuve [1804-1869] parla di un’opera di Domat sulla grazia (e le confesso che ci sono talune coincidenze che stupiscono: grazia sufficiente, causa sufficiente)”.
Così si consacrava sempre più all’essenziale questo spirito prodigiosamente dotato, che inter alia parlava francese, inglese, tedesco, portoghese, russo, spagnolo, rumeno, e che da qualche anno aveva ripreso lo studio dell’ebraico, un tempo coltivato insieme con l’arabo e il sanscrito; quest’uomo per il quale la matematica era un momento di autentica distensione: mentre andava in clinica per l’operazione donde non sarebbe più tornato, portava con sé Les grands courants de la pensée mathématique [1948] e The Logic of Scientific Discovery [1959].
Il 20 novembre del 1959, l’Université Libre di Bruxelles si proponeva a sua volta, in occasione delle cerimonie per i 125 anni dalla nascita, di consegnargli le insegne di Dottore honoris causa.
Gli onori e le gioie intellettuali non erano più la sua vita. È morto il giorno stesso, portando con sé il proprio genio. Ci lascia il suo esempio e il suo magistero».1
Note
- Notula al testo. Il pezzo che qui si offre per la prima volta in traduzione italiana costituisce la Préface virtuosamente commemorativa all’edizione francese (Paris, Dalloz, “Philosophie du droit”, 1966) dell’ultimo libro curato da Ascarelli: Th. Hobbes, A dialogue between a philosopher and a student of the Common Lauws of England [Annotazioni a cura di G. Bernini, pp. 196-230] – G. W. Leibniz, Specimen quaestionum philosophicarum ex iure collectarum; De casibus perplexis; Doctrina conditionum; De legum interpretatione. Con uno studio introduttivo di Tullio Ascarelli [Hobbes e Leibniz e la dogmatica giuridica, pp. 3-69], Milano, Giuffrè, “Testi per la storia del pensiero giuridico”, 1960. Passando poi rapidissimamente alle fonti secondarie, varia quanto vasta appare, oggi, la bibliografia consacrata al giurista romano di multiforme ingegno: ottima bussola per qualsivoglia approfondimento in tal senso è – non solo ad avviso di chi scrive – l’ampia, informatissima, raffinata voce a lui di recente (2012) dedicata da Mario Stella Richter (1965-), ora reperibile in www.treccani.it [“Il contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto”]; quanto ad André Tunc, basti rammemorare, almeno in questa sede, che fu civilista, comparatista e filosofo del diritto di fama mondiale. Da ciò, con ogni probabilità, la sintonia fonda e sostanziale con Tullio Ascarelli. Non casualmente Giorgio Bernini (1928-), che ha conosciuto assai bene sia Ascarelli (il suo primo maestro) sia Tunc, li ha definiti a giusto titolo, non molto tempo fa, rispettivamente “il Bach e il Mozart del diritto europeo tout court”.
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