Bibliomanie

La sottil parladura di Francesco da Barberino
di , numero 45, gennaio/giugno 2018, Note e Riflessioni,

La <em>sottil parladura</em> di Francesco da Barberino
Come citare questo articolo:
Marco Albertazzi, La sottil parladura di Francesco da Barberino, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 6, gennaio/giugno 2018

L’opera che sono chiamato a trattare si colloca nella letteratura del primo Trecento italiano. Ovviamente è il tempo che ci è stato imposto di vedere con il predominio di Dante e dalla sua più che celebre Comedìa. Non voglio essere innocuo, culturalmente.
I problemi sul campo sono grandissimi e sottili, come l’argomento di questo intervento.
Il primo: perché non ci sono stati sforzi istituzionali apprezzabili per ricostruire il panorama storico-culturale in cui la Comedìa appare? L’Italia si è data alle esegesi critiche, limitate e improduttive, nella totale assenza di altre opere del Trecento: come se Dante fosse solo, come se ci fosse solo Dante.
Un secondo quesito scende più in profondità: perché l’Italia ha trasformato un romanzo divulgativo – la Comedìa – nel campione unico di una cultura che si votava quasi del tutto alla ricerca, non alla fabula. Il falso ha sopraffatto il vero, la narrazione ha prevalso sulla filosofia o, per citare il titolo del convegno, l’affabulazione diabolica si è imposta sulla santa affabulazione. Voglio dire, semplicemente: i testi non danteschi non sono stati restituiti e i loro autori sono stati occultati, per mantenere uno status quo che non ha nulla a che fare con la materia culturale.
E poi: quarant’anni di inefficienza critico-filologica dell’Italia accademica hanno soffocato ciò che il mondo continua a considerare un giardino prezioso. E chi ha voluto sostituire il giardino trecentesco con un solo monumento ha commesso un crimine, né più né meno: e continua la sua opera dal pulpito, su cui l’umanesimo si degrada in omertà (anche omertà deriva da homo, per impoverimento).
Ci siamo premurati di mostrare il classico uovo di Colombo: tra i testi che da oltre vent’anni stiamo editando, l’Acerba etas di Cecco d’Ascoli e i Documenti d’Amore di Francesco da Barberino sono il vertice del Trecento. Sono anche la punta di diamante del nostro impegno umanistico ed ecdotico.
I Documenti d’Amore sono più un’opera di ricerca che un «convivio» divulgativo. Rispondo così alle esortazioni di chi, nel corso degli Anni Zero, mi ha esortato a pubblicare un’Acerba etas commentata, cioè volgarizzata nel senso moderno. In realtà, e in verità, volgarizzare è il peggior tradimento che un’opera volgare possa subire. I testi come i Documenti d’Amore non sono fatti per essere divulgati: presuppongono, tutti, un allievo eletto, capace di sentire nel proprio essere la necessità di conoscere. È un allievo che ha capìto un dato fondamentale: la conoscenza non è finalizzabile a traguardi esteriori, tanto meno agli allori di una realtà compromessa. Francesco da Barberino è chiaro: nella seconda delle dodici parti dei Documenti d’Amore, sotto l’egida dell’Industria personificata, elenca centocinquanta regole da osservare con zelo, per accedere alla seconda parte: i «mottetti oscuri». In limine ai mottetti Francesco scrive:

Come le regule dànno intramento
in ogni insegnamento,
così convien ancor noi, per intrare,
certi mottetti usare:
li quagli intesi non voliàm che sieno
da quei che con noi èno,
o se d’alchun, dagli altri non talora.
Si ch’esto Amor honora
la fine d’esta parte ora di quegli
coverti, oscuri, e begli,
e doppii alquanti; come chiaramente,
chi porrà ben la mente
e lo intellecto a le chiose vedere,
porà di lor honor e fructo avere.


Gli insegnamenti dovranno essere compresi in modo letterale, prima di tutto. Francesco da Barberino elenca undici maniere cui attenersi per comporre ed intendere il testo di cui si fa promotore. L’aspetto letterale è compreso nella sapienzialità dell’esposto. Ad esempio, nel primo «mottetto oscuro»:

Ognun che parla, non parla, ma tace.
Ciascun che dorme in pace
vita fa mala, et doctrina verace.


La parafrasi latina e il commento si fermano al valore letterale, perché il simbolo è trasparente: l’azione del parlare vale meno dell’azione del pensiero, così il parlare è inferiore al pensiero. Pensare vuol dire tacere («dorme in pace»), quindi porsi nell’incapacità di ingannare il prossimo («vita fa mala»): l’incapacità del male è affine all’Idea («doctrina verace»).
Il secondo mottetto segue la stessa traccia:

Ogni saetta non vede chi vede:
ma chi sanz’occhi siede,
la trahe di là donde vita procede.


La vista non si vede, se muove dagli occhi carnali («oculis corporalibus»): solo chiudendo gli occhi, quando si contempla, potremo scorgere il principio di ogni cosa. Il terzo mottetto è uno straordinario sunto gnomico della forma mentis di Francesco:

Piange talora chi rider dovrìa,
ride chi piangerìa:
tal à compagno che sol va per via.


Il solitario capisce il capovolgimento dell’Idea nell’apparenza del mondo. Il terzo verso ha questa glossa d’autore: «Vadit quidam bonus per viam cum malo socio vel cum malis sociis, qui vel apparentia vel numero videntur illi facere magnam societatem». Chi si accompagna con persone corrotte è più solo di chi è volontariamente solo (il filosofo-eremita, sul quale esiste una tradizione antica, esemplificata nel libro III del Didascalicon di Ugo di San Vittore: gli exempla sono Prometeo e Parmenide).
Quarto mottetto:

Ogni sottil parladura s’intende.
Perché l’uom non v’attende?
È negligenza, o viltà, che contende.


Sottile: è un aggettivo troppo pregno per affrontarlo ora. Basterà rilevare che è uno dei termini-chiave della trattatistica romanza sull’amore (e non a caso parladura è un calco occitanico). Da Giacomo da Lentini a tutti gli autori del cosiddetto Stilnovo la sottigliezza si impone nella coscienza culturale del basso Medioevo (si rinvia all’accezione che tale termine ha nell’Acerba etas di Cecco d’Ascoli, all’altezza del primo capitolo del libro III). Il commento testimonia l’importanza dell’insegnamento: «Quidam negligebant lectionem dicentes ita fore subtile materiam quod eam intelligere non valebant. Dicis tu contra eos coperte omnis subtilis elocutio intelligitur. Supple si supersistas lectioni quare igitur interrogative loquitur dicens: “Non attendit ad illam aliquis diligenter?”, responderet testus et dicit: “Ecce causa quia negligentia seu vilitas cordis resisti”».
Dunque la sottil parladura è la sottigliezza della lingua, è la lingua stessa degli uccelli, proferita da Attar o da san Francesco, la lingua che esprime il corpo di tutte le cose nella sua massima rarefazione. La viltà o negligenza è il sapersi vivi ma contingenti, ignorando l’essenza che ci unisce ad un Tutto trascendente, nel quale la materia è solo la propaggine più periferica.
Quinto «mottetto oscuro»:

Amar di donna sofferir amare
fa dir amare: amare,
non l’uomo non curare.


Ecco la parafrasi di Francesco:

Amarum domine tollerare amare dici facit amare.
Amare, non hominem non curare.


L’amara angustia di amare permette all’amante di perseverare nell’amore. Il secondo amare del secondo verso è un avverbio: «non l’uomo non curare» significa non perseverare, affidandosi così alla vita eterna, sfuggendo al tempo. Il Bene è fuori del tempo. In effetti il contrasto d’amore è una condizione del mondo sensibile, mentre l’Amore è in assoluto il bene che unisce, contrapposto all’Odio che divide tutto. Quindi l’Amore è l’essenza di ogni cosa e trascende la contingenza, pur permeandola di sé. Già in apertura dei Documenti d’Amore Francesco lega l’Amore alla sottigliezza del parlare:

Amor di sovra tutte si mantene.
L’ovra, che modo, quale, e como tène,
nel legger tutto poi
veder porete voi;
ch’io non son già sottile
che cosa sì gentile
possa dedur in più chiaro parlare.


Tuttavia Francesco non rinuncia a torcere la lingua per descrivere Amore. E nell’attacco del Documento dell’Industria appare la caratteristica saliente di questa Domina:

Or ci convien tener meglio agli arcioni
ché ’l suo tractato à stile
alquanto più sottile;
et è men leve,
perché breve;
e perché parla non pur a garzoni.


Da qui si passerà ai «mottetti oscuri». La sottigliezza dello stile dipende anche dalla brevitas delle asserzioni, perché soltanto la durata-lampo porta al «sottil effecto» (1857). E così si impone il mottetto 41, con l’inciso:

Se tu fili, fila grosso,
o non troppo sottil mai!
Quando volpe, quando vai.


La spiegazione è questa: «in investigando autem subtilia et investigabilia maiestatis non plus sàpere quam oportet sàpere». La volpe rappresenta questa qualità: animale tanto sagace quanto semplice e diretto.
Conclusione: il Trecento non è Dante. Si può dire che è anche Dante, ma Dante opera come un disperato outsider rispetto alla convenzione filosofica del Trecento. Cecco d’Ascoli e Francesco da Barberino rifuggono dall’invenzione di «cose vane»; non vogliono delectare ma flectere, e non vogliono costruire romanzi in versi. Non si pongono il problema del pubblico e del successo, tanto è vero che i Documenti d’Amore non esistono che in forma di copia d’autore (e la mancanza di ambizione ha condizionato la futura memoria del poema: la nostra edizione, recentissima, rende davvero pubblico e leggibile il testo, dopo sette secoli). La sottigliezza non è un artificio e non vuole sedurre nessun lettore «in piccioletta barca»: ciò che è sottile rispecchia meglio l’essenza, e più è sottile ed eletto più è filosofico; più lo stile ama la sophía più tende a Dio. Un autore di quegli anni non aveva una beata speranza più nobile.

Testo di riferimento
Francesco da Barberino, Documenta Amoris, I-II, a cura di Marco Albertazzi, La Finestra Editrice, 2011.

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