Bibliomanie

Michele Perriera tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà
di , numero 35, gennaio/aprile2014, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Alberto C. Saetta, Michele Perriera tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 6, gennaio/aprile2014

Autore di romanzi, racconti e saggi, drammaturgo e regista teatrale, impegnato intensamente anche nell’attività giornalistica, ad esempio con “L’Ora” e con “Repubblica”, Michele Perriera è stato un attento osservatore della realtà e un intellettuale militante; numerosi sono stati i suoi interventi su questioni civili e politiche, esaminate puntualmente nella carta stampata e nei saggi e accolte, al netto di opportune trasfigurazioni, anche nelle opere narrative.
Una possibile chiave di lettura della sua poetica è offerta dalla famosa espressione di Romain Rolland (mutuata poi da Gramsci e sotto quell’insegna soprattutto nota in Italia): “Il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà”.
Nella sua opera, infatti, Perriera indaga in profondità il reale, senza sconti di sorta, rivelandone la negatività, con un particolare accento al sempre crescente ruolo del denaro e all’invasività del potere; e tuttavia, con insperata volontà, esprime al contempo una strenua lotta per il trionfo dei valori positivi, anche nelle situazioni più avvilenti. La carica agonistica che anima la scrittura dell’autore raccoglie la sfida, di calviniana memoria, alla complessità di quel labirinto che sembra imprigionare e scoraggiare gli slanci più vitali dell’uomo.
In primo piano è così una sorta di utopia, in cui lo scrittore trova il senso del suo agire e la speranza di un cambiamento. Il tema scaturisce da un ricchissimo filone letterario e soprattutto filosofico, che comincia con Platone e annovera, inter alios, Moore, Campanella, Bacone, i socialisti utopisti, arrivando fino a testi letterari dello scorso secolo, in particolare Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, 1984 (1949) di George Orwell e Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury; tutte opere, queste ultime, in cui i tratti della visione utopica vengono però ribaltati, dal momento che il nuovo quadro sociopolitico assume, agli occhi degli autori moderni, connotazioni decisamente negative. Mentre i testi più antichi rappresentavano l’adempimento di un progetto incentrato sui valori della libertà, della giustizia e della ragione, le utopie negative (o “antiutopie”) profilano un sistema di dominio totalitario e di completa manipolazione delle coscienze.
Nei romanzi dello scrittore palermitano ritroviamo entrambe le tendenze; infatti, i tratti di una visione utopica positiva rivivono nei personaggi principali, soprattutto femminili, che sono, tuttavia, contrastati dall’agire malvagio dell’uomo, dalla sua pericolosa propensione alla corruzione e all’immoralità.
Michele Perriera è uno degli autori siciliani più visionari: il suo sguardo è un grandangolo che scruta e trasfigura la realtà, immergendola in un clima allucinato. Ciononostante la sua scrittura non è fine a se stessa e non prescinde dall’attenzione al contenuto e dalla disposizione etica ai fenomeni contemporanei. Questi caratteri gli permettono, da un lato, di ricollegarsi ai grandi autori del primo Novecento, come Pirandello e Svevo, che avevano rivoluzionato il romanzo senza rivoltarne il linguaggio, e dall’altro, di superare i limiti del Gruppo ’63, l’esperienza letteraria da cui è partita la sua avventura di scrittore. L’ansia sperimentale del Nostro sembra avere, in effetti, diversi punti di contatto con l’avanguardia sommersa del primo Novecento, che rinnova i codici narrativi dall’interno, con straordinari effetti di implosione. Viceversa, la maggior rilevanza che il contenuto assume rispetto alla forma è uno degli aspetti che più profondamente differenzia l’autore dal resto del gruppo.
In particolare, l’elemento che allontana di più Perriera dalle posizioni del movimento neoavanguardistico è la componente «a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola atemporale di quest’ultimo», messa in evidenza da Angelo Guglielmi, secondo il quale «è caratteristica propria della neo-avanguardia rifiutarsi di esprimere qualsiasi idea sul mondo, resistere ad ogni tentazione definitoria». Un approccio questo che agli occhi dello scrittore risultava essere troppo passivo e dal quale si dissocia molto presto. Del resto, quarant’anni dopo, ciò che sembrerebbe rimanere dell’esperienza neoavanguardistica, è l’immagine di un gran polverone sollevato dallo scalpitìo di zoccoli di cavalli che però, nella loro furiosa corsa, sono rimasti sempre dentro un recinto, quello del linguaggio. Secondo alcuni esponenti della Neoavanguardia, infatti, solo lì sarebbe stato possibile attuare una rivoluzione. La storia, con l’arrivo del ’68, avrebbe smentito questa convinzione.

Con Finirà questa malìa? (2004) Perriera ha portato a termine il progetto letterario di una trilogia che comprende A presto (1990) e Delirium cordis (1995). Molti sono i rapporti, a livello sia stilistico che tematico, intercorrenti fra i tre testi; un itinerario lungo quattordici anni, che lo stesso scrittore non esitava a definire come un «un viaggio in tre tempi nella realtà contemporanea, quella più nascosta, più problematica, più fantastica. Un percorso che cerca nei vivi e nei morti il sempre più difficile senso della nostra vita».
La commistione di diversi generi è una costante della trilogia, attraversata in toto da atmosfere oniriche e immaginifiche. Nonostante in A presto la maggior parte dei richiami alla situazione storica del tempo metta in luce un crescente, inesorabile decadimento, il romanzo sembra ancora permeato da un clima gioioso e vitale, sprigionato soprattutto dalla vita familiare dei coniugi e dei loro sette figli. In Delirium cordis e in Finirà questa malìa?, invece, l’atmosfera muta completamente, e il Male e la violenza vengono vissuti appieno dai protagonisti.
Specialmente in Delirium cordis è più spiccata la sensazione di chiusura e soffocamento; con sapiente e appropriata scelta teatrale, difatti, la maggior parte delle scene si svolge al chiuso e prevalgono le tinte fosche e sanguinose. Non a caso, questo è l’unico dei tre romanzi ambientato interamente a Palermo, il luogo simbolo di un’epoca; da un lato la città è devastata dalla guerra frontale fra Stato e mafia, dall’altro è immersa in un surreale silenzio. Un singolare divieto impedisce, infatti, di parlare, visto che un nuovo radar può intercettare le conversazioni dei mafiosi solo se non vi siano altre interferenze; i locali pubblici sono così muniti di pacchi di fogli e penne per permettere le conversazioni tra i clienti. Delirium cordis sembra il testo più disperato della trilogia e si conclude con la vittoria del “Fronte X”, una terza forza che nell’oscurità tramava per la presa del potere, approfittando della lotta Stato-mafia.
L’opera è stata pubblicata nel 1995: le stragi che hanno sconvolto Palermo nel 1992 non potevano non avere il loro peso sulle pagine dello scrittore. L’atmosfera dell’ultimo capitolo della trilogia richiama quella di Delirium cordis, cupa e opprimente; più forti e incisive risultano, in questi ultimi due romanzi, le suggestioni kafkiane e orwelliane. Anche la parodia è diversamente declinata nei tre testi. In Delirium cordis e in Finirà questa malìa?, infatti, non c’è spazio per la pungente ironia che spesso ritroviamo nella prima opera: il sarcasmo ha tonalità più lugubri. Il ricorso all’umorismo è però, nonostante tutto, costante. Secondo il romanziere, infatti, ricopre la precisa funzione di rappresentare insieme «l’insinuazione del disincanto e la ricerca di un nuovo, più maturo incantamento. L’umorismo rende, inoltre,‘politica’ la mia fantasia».
All’interno della trilogia, anche dal punto di vista tematico, si snodano evidenti richiami ad alcune questioni care all’autore. Nonostante i diversi gradi di negatività che pervadono le opere, non è mai assente quell’ottimismo della volontà che contraddistingue lo scrittore e che costituisce il motivo di fondo della sua produzione narrativa. In questi romanzi, il pessimismo della ragione rappresenta solo il primo livello e se ne cerca sempre il superamento. In definitiva, quella composta da A presto, Delirium cordis e Finirà questa malìa? si potrebbe definire come una vera e propria trilogia della speranza.
Ripercorrendo le tre opere, non sono pochi i punti in cui l’autore si avvicina, per tematiche e forme, all’immaginario postmoderno; ci riferiamo al motivo del complotto, alla mescidazione dei generi con il recupero del “giallo” e all’utilizzo di diversi registri linguistici. Tuttavia, la tensione nichilistica presente nell’intellettuale non ha niente di “morbido”, e anzi si colloca all’opposto di quella tendenza così tipica del postmoderno, che si caratterizza, invece, per il suo pesante fardello di passività e disimpegno; si tratta, infatti, di un fatalismo della ragione che non prevede il tentativo di superare le difficoltà che ci circondano, ma di accettarle con rassegnazione. Il nichilismo morbido, difatti, viene definito dall’autore come «un tentativo di rendere trattabile e vivibile il più grande smarrimento che la storia abbia mai vissuto». Fra il primo e l’ultimo romanzo della trilogia, probabilmente, i toni si fanno più cupi e malinconici, ma la ricerca della felicità, anche sui “sentieri dell’infelicità”, non viene mai meno.
La speranza è sempre viva, sia nell’uomo, sia nello scrittore: Perriera non vuole cedere alle tentazioni nichilistiche, anzi ad esse oppone un’attesa fiduciosa, facendosi portatore di una possibilità, anche se estrema, di cambiamento. La prospettiva di un futuro migliore accompagna lo scrittore e i suoi personaggi lungo il difficile sentiero della non rassegnazione. In un’intervista del 2004 a “Repubblica”, Michele Perriera affermava: «In questo momento dobbiamo avere il coraggio di sapere che stiamo camminando nella decadenza. Ma nello stesso tempo dobbiamo trovare la forza per resistere a questa decadenza. Penso ai monaci del Medioevo, che tenacemente conservavano i valori che avrebbero salvato l’uomo dalla barbarie, aprendo le porte del Rinascimento […] Bisogna prendere atto dell’incubo che ci sovrasta per meglio comprendere il risveglio cui siamo chiamati. É questa la promessa: vivremo ad occhi ancora aperti, mentre ci incamminiamo in quello che è il buio attuale».

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