Choice – La scelta
Magda Indiveri, Choice – La scelta, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 8, settembre/dicembre2013
1.
«Se un uomo potesse mantenersi sempre sul culmine dell’attimo della scelta…»1
Colpisce come il filosofo Kierkegaard senta il bisogno di accumulare parole, come se prima del vocabolo “scelta” non possano che esserci gradini, salite, baleni. “Sul culmine dell’ attimo”: un bordo altissimo, un parapetto da cui lanciarsi in volo; margini di spazio e di tempo, prima di planare su quell’oltre che implica un non ritorno. Perché mai il filosofo pensa sia desiderabile mantenersi su quel culmine, fissare lo sguardo a quell’attimo prima che la scelta inevitabile possa ancora essere evitata? Se un uomo potesse… Forse per fermare il momento preciso come in un fotogramma, per cogliere il passaggio del pendolo. La scelta è aria rapida e radente: il tuffo di una Esterina di vent’anni che ride nel buttarsi in acqua.2
Euforia dell’aria tersa della scelta. Assaporarne la perfezione prima che si increspi: del resto l’etimologia di choose rimanda a un arcaico ceosan – keus – *geus che è familiare con la parola gusto-gout.
«”O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.”»3
2.
Ercole al bivio è una tela dipinta da Annibale Carracci nel 1596 per il cardinale Farnese. Ora si trova a Parma. Ercole è seduto al centro tra due figure femminili che gli indicano due strade. A sinistra si vede il deserto, un albero morto e un sentiero che sale. A destra alberi folti e cielo sereno.
Tutto è metaforico: l’arido paesaggio di sinistra porta alla Virtù, quello rigoglioso di destra al Vizio. L’emblema del bivio è frequente nelle stampe cinquecentesche. Cosa avrà scelto il vigoroso Ercole? Lo rivelano le sue celebri fatiche.
3.
Scelta è occasione, intuizione del momento opportuno e favorevole. Kairòs, la chiamavano i greci. Era una donna calva nella parte posteriore della testa, con una lunga treccia di capelli sul davanti, un piede in aria e uno su una ruota, in una mano un rasoio e nell’altra una vela tesa al vento. Kairòs era da agguantare: da spiccare col movimento fermo del polso. Nel culmine dell’attimo, come diceva Kierkegaard, in un tempo eternamente presente.
‘Time past and time future
what might have been and what has been
point to one end, which is always present’4
4.
Scrive Jankelevitch: ‘ Tra poco sarà troppo tardi perché quell’ora non dura che un istante. Il vento si leva: è ora o mai più. Non perdete la vostra chance unica in tutta l’eterntà, non mancate la vostra unica mattina di primavera.’5
Un battito di occhi, e il sonno si rovescia in veglia. Forse quel mattino di primavera è da agguantare decidendo di svegliarsi. Allora ci si trova come un foglio staccato da un quaderno, pronto per essere scritto. Oppure i peschi fioriti di primavera sono nel sogno, e bisogna tenerli ben chiusi, apertamente chiusi, gli occhi, per non farli sfiorire. Decidere di dormire…anche questa è una scelta. Come Bartleby
6, si può predere il partito del no. ‘I would prefer not to’
5.
Scegliere è anche privarsi, perdere qualcosa. Ciò a cui obbligatoriamente scegliendo si rinuncia può restare nell’aria, a gravare di assenza, a gettare la sua ombra. Lo dice bene il poeta americano Mark Strand, questo taglio, questo bivio che va a lacerare chi ha scelto, questa nostalgia della parte mancante:
In a field
I am the absence
of field.
This is
always the case.
Wherever I am
I am what is missing7
Scegliere è anche dolorosamente separarsi da sé.
6.
E poi c’è il non scegliere. Restare come pietre sulla pietra del trampolino. La divaricazione risulta talmente lancinante da paralizzare. Così nasce un perverso terzo movimento che è l’immobilità. James Joyce e Samuel Beckett hanno sulla paralisi pagine magistrali.
Nei Dubliners la paralisi si materializza nell’argilla [clay] delle figurine di Mary che mai si sposa, o nella polvere delle tende della casa di Eveline, che mai parte. Hamm e Clov di Finale di partita dicono “Andiamo” e nel dirlo non si muovono. La non scelta è un utero chiuso che nega la nascita, è una garza sulla bocca, un’armatura di gesso. Si sopravvive in una “vicevita” che è come un lungo pomeriggio sonnolento, una interminata adolescenza che non porta da nessuna parte. Nessun bottino da intaccare, piuttosto un bozzolo che si fa sempre più stretto.
7.
Ma il filosofo dell’inizio, il danese Kierkegaard, vuole riportare la scelta al cuore del tempo, e per questo usa una similitudine marittima:
«Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire: bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità, e che cosí è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Cosí anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha piú la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non lo ha fatto»8
Due velocità dunque, il basso continuo del presente come flusso – la nave che procede tra le onde – e l’adesso ispido, puntuale del suono dell’attacco: la scelta avviene in quell’incrocio o non avviene. La metafora marittima e battagliera può cedere a quella confortante della tessitrice che mette la spola nell’intreccio dei fili: gesto veloce, preciso, se vuole produrre il tappeto multicolore. Penelope filando sceglie di ritardare la scelta – Ulisse che non ritorna, i Proci che premono… Penelope fila un “non ancora” con un “ancora una volta” e sceglie di non scegliere, per sopravvivere.
8.
Ma noi scegliamo continuamente, inarrestabilmente, quando parliamo – come ci insegna Alice:
«“When I use a word, Humpty Dumpty said in rather a scornful tone, “it means just what I choose it to mean – neither more nor less”»9
Al di qua del paradosso liberatorio di Humpty Dumpty, sempre parlare e scrivere si situa sull’asse della selezione, questa parola e non un’altra, quel significato e non questo, in questa posizione e non nell’altra. Esprimersi è scegliere, prendere su di sé la responsabilità di decidere. E se il pensiero nasce, spesso con poca coscienza, in bocca, poi sul foglio si compie la sua sistemazione, l’ineluttabile presa in carico del senso. Così scegliere diventa l’azione più comune, un continuo atto di battaglia, un perpetuo telaio di bianco e di nero.
9.
Tappeto o scacchiera? Mosse di un pedone che vorrebbe essere cavallo. Cosa scegliere, per non sentire troppo forte la perdita? Come scegliere, per riconoscere l’aria rarefatta del culmine dell’attimo? Quando scegliere, per poter fare di isolate decisioni la trama del proprio percorso, la propria unica storia? Affidiamoci ancora alle indicazioni di un matematico che sapeva di scacchi quanto di bambine:
«The White Rabbit put on his spectacles. “Where shall I begin, please your Majesty?” he asked. “Begin at the beginning” the King said gravely, “and go on till you come to the end: then stop”»10
Buona scelta!
Note
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2013 Magda Indiveri