Un tesoro verde: l’autobiografia di Vico
Monica Fabbri, Un tesoro verde: l’autobiografia di Vico, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 21, settembre/dicembre2013
Vico scrisse un’autobiografia (Vita di Giovanbattista Vico scritta da se medesimo) fra il 1725 e il 1728. Molte delle notizie riguardanti la sua vita sono tratte da questo libretto, improntato – variatis variandis – su un modello letterario inaugurato, si sa, da Sant’Agostino.
Fin qui tutto bene. Ma chi è Gian Battista Vico? Non me ne voglia la Fondazione a lui intitolata che annovera tra gli obiettivi precipui quello della divulgazione del pensiero filosofico dello storico napoletano, ma per i miei ospiti mattutini delle aule liceali “il signor Gian Battista Vico che nacque in Napoli l’anno 1670” è un illustre sconosciuto. Che sia il nome di una via? In effetti, anche scandagliando a fondo i testi riformati, di lui rimangono tracce appena visibili: un brano incomprensibile tratto dai Principi della Scienza Nuova, un commento inutilmente snello che invita il docente con l’ansia di finire il programma ad un triplo salto mortale verso gli autori che contano. I quali, a dire il vero, da Hegel, a Comte, a Foscolo, a Manzoni e a Leopardi, gran parte delle loro riflessioni le devono a lui.
Afoso pomeriggio estivo. Piace sempre rovistare tra le occasioni; emergono come d’incanto tre libricini verdi per le Edizioni Paoline nella collana intitolata “Maestri”. L’incipit conta. Altroché se conta. Tanto da farti decidere di acquistare un vecchio libro che costa solo due euro.
“Imperciocchè, fanciullo egli fu spiritosissimo, e impaziente di riposo; ma in età di sette anni essendo col capo in giù piombato da alto fuori d’una scala nel piano, onde rimase ben cinque ore senza moto e privo di senso; e fiaccatagli la parte destra del cranio, senza rompersi la cotenna”.
Inizia con un botto la storia di Vico. Nato a Napoli nel 1668 (egli si ringiovanisce di due anni), in un buio mezzanino di San Biagio dei Librai in mezzo al fracasso dei carri e delle voci della popolarissima Spaccanapoli, cadde da una scala, batté la testa sul selciato e il cerusico, chiamato d’urgenza, sentenziò solennemente che Giambattista o sarebbe morto o sarebbe restato un citrullo per tutta la vita. Invece non morì citrullo, ma gli restò una “certa malinconia e un volto scavato da una malferma salute”.
“sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso”.
Dopo i dieci anni cominciò ad andare a scuola: seguì i maestri finché non riuscì a far da sé grazie all’istinto e alla passione per lo studio.
“Vico benedisse non aver lui avuto maestro, nelle cui parole avesse egli giurato; e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso de’ suoi studi senza niuno affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere”.
Nell’ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, Vico ebbe modo di entrare in rapporto con il pensiero di Descartes, Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz, anche se i suoi autori di riferimento s’ispiravano piuttosto alle dottrine neoplatoniche rielaborate nell’ambito della grande riflessione rinascimentale, peraltro aggiornate alla luce delle moderne concezioni scientifiche di F. Bacon e di Galilei, nonché del pensiero giusnaturalistico moderno (si pensi, in primis, al “suo” Ugo Grozio).
Come che sia, egli giunse alla formulazione di un’originale sintesi fra una razionalità sperimentatrice e la tradizione platonico-religiosa. Scrisse poesie di gusto barocco e, nel 1694, conseguì la laurea in diritto civile e in diritto canonico. Aprì una scuola privata nel 1699 e vinse un concorso per la cattedra di retorica all’Università di Napoli. Perché un ragazzo, figlio di povera gente, studia con tanto ardore?
“Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno.”
“…i giovani, la cui età per lo buon sangue e per la poca sperienza è tutta fiducia e piena di alte speranze, s’infiammano a studiare per la via della lode e della gloria, affinché poi, venendo l’età del senno, e che cura l’utilità, essi le procurino per valore e per merito onestamente”.
Fiducia, speranza, lode, gloria e merito. Parole che riecheggiano come un fiato di vento al giorno d’oggi. Eppure, per il letterato napoletano, si mostrano così “carnali” da spendere la vita intera per ottenerle. L’idea dell’esistenza di un’umanità ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia, ed entro cui si producono gli “ordini civili” divenne centrale in tutto il pensiero vichiano, tanto da costituire il nucleo fondante dei Principi della Scienza Nuova, la scienza appunto dell’accadere storico. Egli arrivò alla convinzione che le “scienze umane” fossero avvantaggiate rispetto a quelle naturali, perché l’uomo conosce fino in fondo soltanto ciò che egli stesso ha prodotto. Così nuove erano le sue posizioni che la cultura del tempo non poté capirla né, tanto meno, approvarla.
“Per queste ragioni il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto. Non per tanto che egli era di questi sensi, di queste pratiche solitarie, non venerava da lontano come numi della sapienza gli uomini vecchi accreditati in iscienza di lettere, e ne invidiava con onesto cruccio ad altri giovani la ventura di conversarvi”.
Insomma Gian Battista Vico non era e non fu mai uno yes man. E, dalle immani sue fatiche, ricavò ben poco per sé e per la propria famiglia.
“…crescer vedea ogni giorno la domestica indigenza, perciocché, come confessò egli stesso, fin dalla prima età sua la Provvidenza non volle costituirlo in agiata condizione, troncandogli tutti quei mezzi che onestamente tentati avea per rendere la sua situazione migliore”.
Escluso dal foro, incalzato dall’indigenza, continuò a studiare per conto proprio, aprì una scuoletta privata per i giovani di buona famiglia e tenne così lontano la miseria.
Non è facile, cari ospiti liceali, camminare testardamente controcorrente! Diventare maestro fu qualcosa di più che un mero bisogno economico: lo si evince da molti passaggi della sua autobiografia.
“Egli nel professare la sua facoltà fu interessatissimo del profitto dei giovani; e, per disingannarli o non fargli cedere negli inganni dei falsi dottori, nulla curò di contrarre l’inimicizia de’ dotti di professione”.
“Quindi è che la fortuna si dice essere amica de’ giovani, perché eleggono a lor sorte della vita sopra quelle arti o professioni che fioriscono nella loro gioventù; ma, il mondo di sua natura d’anni cangiando gusti, si ritrovan poi vecchi, valorosi di quel sapere che non piace più, e’ n conseguenza non frutta più”.
“Non ragionò mai delle cose dell’eloquenza, se non in seguito della sapienza, dicendo che l’eloquenza altro non è che la sapienza che parla; e perciò la sua cattedra essere quella che doveva indirizzare gl’ingegni e fargli universali; e che le altre attendevano alle parti, questa doveva interessare l’intero sapere, per cui le parti ben s’intendono nel tutto”.
“Apri la mente a quel ch’io ti paleso, / e fermalvi entro ; ché non fa scienza, / sanza lo ritenere avere inteso”.
Che tipo di educazione desiderò dunque acquisire (e poi fare acquisire) Vico? Aspirò ardentemente a un sapere unitario, mai parziale. Nondimeno, più che altro si interessò dell’uomo, dei moti profondi della sua mente e, nel rapportarsi con i ragazzi della scuola, il tentativo fu proprio quello di renderli coscienti della loro natura pensante, del loro io che non necessariamente doveva adeguarsi alle mode del tempo. Già San Paolo del resto, in Rm 12, 2, esortava: “Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovandovi nella vostra mente, rinnovando il vostro modo di pensare per discernere la volontà di Dio”. Il nostro filosofo, inoltre, sapeva guardare a se stesso con ironia: ammise con umiltà di essere burbero e iracondo.
“Egli peccò nella collera, nella quale guardossi a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser difettoso; che con maniere troppo risentite inveiva contro gli errori d’ingegno o di dottrina o il mal costume de’ letterati suoi emoli, che doveva con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulargli o compatirgli”.
Ma agli accademici e agli aristocratici chiese e fece chiaramente intendere che, di tutte le sue opere, avrebbe voluto che solo fosse restata al mondo la Scienza Nuova. Nelle prime pagine della sua autobiografia, dichiara di aver appreso l’utilità della lingua latina rispetto a quella italiana e la necessità di leggere sempre tre volte lo stesso testo:
“…la prima per comprenderne l’unità dei componimenti, la seconda per vedere gli attacchi, e ’l seguito delle cose, la terza più partitamente per raccorne le belle forme del concepire e dello spiegarsi…”.
A ben vedere questo testo scritto in terza persona risulta piuttosto un trattato sull’educazione, sul metodo e sulla lettura. I miei ospiti mattutini delle aule liceali, dotati di buona coscienza, dovrebbero non solo aver compreso l’importanza di Vico, ma iniziare a cantare quegli insopportabili coretti da stadio: Vico, uno di noi. Purtroppo, è risaputo che tali scoperte consapevoli di autori antichi “più vivi dei vivi”, più utili e coinvolgenti di tanti fra quelli a noi contemporanei, affiorano alla mente in età matura, magari quando i maestri che ce li hanno insegnati, oramai vecchi e un po’ malandati, hanno perso l’udito e non li si può più ringraziare.
“Ma egli tutte queste avversità benediceva come occasioni, per le quali esso, come a sua alta inespugnabil rocca, si ritirava al tavolino per meditare e scrivere…”.
Foscolo imparò da lui ad amare i poeti primitivi, che erano anche teologi, legislatori e fondatori di una civiltà; Manzoni conobbe Vincenzo Cuoco, insigne uomo di lettere di formazione napoletana che lo introdusse all’opera vichiana e, in special modo, alle ricerche storiche necessarie per conoscere la verità. Per non parlare poi di Leopardi… ma su questo argomento sarebbe necessario offrire ben altro contributo.
Sarà pure anche una strada il signor Gian Battista Vico, ma che via luminosa!
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