Ripensare Angelo di Bontà nel terzo millennio
Marco Marangoni, Ripensare Angelo di Bontà nel terzo millennio, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 3, maggio/agosto 2013
Presentare Angelo di bontà al lettore del 2013 impone, prima di tutto, una riflessione sulle ragioni del recupero, non solo per il fatto che la tradizione critica ha relegato questo testo fra le opere minori di Nievo, facendone niente più che una delle tappe di avvicinamento, in un percorso all’interno di uno stretto giro di anni (esattamente, la prima edizione risale all’anno 1856), alle Confessioni di un italiano (terminato nel 1858), ma anche perché si tratta di un romanzo nato in un’epoca che a noi, genti in fase di allontanamento dalla condizione postmoderna, non ha forse più nulla da dire: per essere un poco più precisi, un’epoca che non suscita in noi nessun senso di appartenenza, né alcuna familiarità.
Invero, il Risorgimento, i Savoia, i patrioti, i liberali piemontesi, i Mille etc. non rappresentano più nulla di significativo per l’Italia di oggi, neppure nella propaganda mediatica. Basti pensare a cosa abbia lasciato nella memoria della società civile il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, celebrato nel 2011. Le idee, gli ideali, gli idealismi di quella cultura si sono spenti addirittura prima, forse, di quell’esperienza di “fine della storia” dalla quale noi stessi cominciamo solo ora a emanciparci; il concetto di letteratura come mezzo di «progredimento civile della nazione» – come scrive lo stesso Nievo nei suoi Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia (1854) – semplicemente svanisce a contatto con una temperie culturale nella quale il concetto di progresso ha assunto lo status di oggetto di un modernariato minore, degno di nessuna nostalgia.
Eppure, nonostante provenga dal nostro trapassato remoto, il testo di Angelo di bontà lascia affiorare questioni che colpiscono ugualmente il lettore “attuale”. La prima di queste, e la più facile da riconoscere, consiste in un mescolamento, in un assemblaggio o, meglio, in un’intersezione di generi diversi in un solo filo narrativo.
Angelo di bontà è un romanzo storico che comincia con situazioni da romanzo “lacrimoso” e da romanzo libertino, poi diventa melodramma ma con ambientazioni e personaggi da commedia goldoniana, e poi ancora “romanzo di cappa e spada” e Bildungsroman. Verso la fine del testo compare anche una complicata trama eversiva ai danni della Repubblica di Venezia della quale nella prima parte non c’era che qualche avviso.
Così Nievo, al suo primo, serio impegno di narratore, non si fa mancare nulla delle risorse espressive e dei loci communes che il romanzo dell’epoca gli mette a disposizione, a costo d’incorrere in una forma rapsodica alla quale la lettura deve costantemente adeguarsi. E allo stesso modo, i personaggi trascorrono da un ruolo all’altro con la disinvoltura di trasformisti teatrali: da seduttori ad amanti infelici a congiurati; da villains senza pudore ad eminenze grigie; da dames sans merci a innamorate esiliate e abbandonate.
Tuttavia una seconda e più importante questione tocca le corde del nostro interesse, ed è il senso della caduta, la tragedia della decadenza che l’età postmoderna ci ha riproposto in forma problematica: non tanto i singoli eventi luttuosi quanto il lento ma evidente e inarrestabile consumarsi delle nostre architetture culturali, dei nostri onnicomprensivi, dominanti, ma in fondo buoni sistemi di riferimento (occidentali, ovvio). La Venezia in cui si ambienta il romanzo, infatti, è l’inquieta Serenissima di metà ’700, per la quale è facile divinare il trattato di Campoformio.
Nievo ha a disposizione, per rappresentare questo periodo, le testimonianze probanti della storiografia veneziana, che presagisce la crisi o addirittura la esplicita; così, Giacomo Nani, nel suo Saggio del 1756, accusa l’aristocrazia veneziana di essere fiacca e torpida; Pietro Garzoni, storiografo ufficiale della Repubblica, nell’Istoria della repubblica, redatta nel ventennio iniziale del secolo, vorrebbe descrivere una Venezia in cui le istituzioni patrizie mostrano i segni della rovina e dello sfaldamento proprio in quelle buone regole che ne erano il fermo fondamento, una Repubblica dove un’aristocrazia maior gode di privilegi rispetto a una minor e socialmente debilitata, ma subisce le contestazioni dei Riformatori dello Studio di Padova e quindi la censura.
Le glorie della Serenissima, dopo lo scacco della perdita della Morea (1718), si riducono alla forma: hanno ampia diffusione, infatti, le guide turistiche come Il gran maestro de’ forestieri (1711-22) di Raginio Benenato, che conducono il visitatore lungo architetture e palcoscenici cittadini, splendidi ma sempre più vestigia e sempre meno luoghi della perla dell’Adriatico, edifici la cui maestà «pareva irridere alla piccolezza degli uomini» ma che, proprio a causa di questa sproporzione, risultano sempre più lontani e desolati, rispetto alla realtà quotidiana dei Veneziani1.
Su questo punto, devono valere le parole di Romagnoli, che riconosce come tipico dell’autore «il senso inesausto della storia, che muove e rinnova gli uomini e le loro generazioni e lascia invece cadere e superare i loro istituti»2. In Angelo di bontà, in effetti, Ippolito Nievo dimostra un’insospettata maturità di narratore, perché non pone questa caduta come semplice sfondo per il suo romanzo, ma ne fa l’atmosfera caratterizzante di ogni spazio, l’orizzonte ultimo verso il quale tendono, come le linee di una prospettiva, le vicende raccontate, anche quelle che si concludono con un finale lieto o comunque speranzoso. Se Venezia è ancora un giardino di bellezza, egli ne rinchiude gli splendori entro palazzi che sembrano isolati e inaccessibili; osservata dai balconi di questi, la città lagunare appare lontana e quasi perduta, si scolora fino ad essere umbratile; le passeggiate serali in gondola (il “fresco”), invece di rappresentare il costume dell’ aristocrazia, comunicano una sensazione di diffidente isolamento.
È come se Nievo offuscasse, per gradi, la luce del sole: non si tratta semplicemente di una Venezia illanguidita dai cicisbei o scandalizzata dai libertini, ma di un piccolo caput mundi italiano nel quale prestigio, potere e virtù vanno lentamente spegnendosi, lasciando che la tragedia della caduta si manifesti agli occhi del lettore come un lungo crepuscolo, gravido di storie, durante il quale gli amori, i complotti, i sogni e le attese delusi appaiono come gli estremi gesti di chi è consapevole di appartenere a una civiltà in via di consunzione.
L’inquisitore Formiani può allora interpretare il ruolo dell’uomo reggitore di un potere oscuro, dai limiti indeterminati, in paziente attesa dell’occasione favorevole, del passo falso dell’avversario, ma è comunque un deus ex machina che ha sempre bisogno di un servo al quale appoggiarsi, quando cammina, e che, soprattutto, ha come luogo privilegiato del suo otium, nelle brevi veglie prima di dormire, il proprio letto, sdraiato sul quale egli riflette, discute con i suoi informatori, ascolta il poema scritto dal signor don Gasparo, il suo “poeta cortigiano”: chiarissima prefigurazione del capezzale di morte di uno spirito pienamente consapevole della sua prossimità al regno delle ombre e del termine del ciclo vitale suo e della sua Repubblica («…perché Venezia cadrà, sì cadrà, o Celio, come caddero gli imperi d’Assiria, di Babilonia, di Roma! Come cade ogni istituzione umana, come muoio io pure, per quell’arcana immedicabile malattia che si chiama il tempo!»).
Il controllo del Formiani sulla politica della Serenissima è capillare («gli occhi e gli orecchi gli si moltiplicavano all’infinito») e le sue contromosse nella vicenda del complotto del Carmini, quanto a prontezza e sagacia, non possono non ricordare quelle del console Cicerone contro Catilina; lasciamo poi da parte i progetti sulla Morosina, di cui diremo, eppure le sue vendette, le punizioni, persino i rimproveri giungono smorzati, svaporano prima di colpire, lambiscono come un’onda i colpevoli ma non li travolgono.
A tutta prima, gli esiti delle varie vicende sembrerebbero ricalcati su quelli delle commedie goldoniane, ma le loro ragioni rivelano una malinconia originale e profonda: nell’imminenza della propria fine l’inquisitore può assumere (pur con qualche dolcezza) le vesti del tiranno alfieriano, ma non il ruolo del carnefice: sia lui sia la sua Venezia “imperiale” non possono terminare la propria vicenda storica in altro modo che con un atto di grazia. Al Formiani rimangono la contemplazione del tempo in limine mortis, il differimento ai posteri delle speranze e delle responsabilità, non certo la conservazione ad ogni costo di un esistente che è ormai la larva di se stesso: una Repubblica privata cioè di prospettive future, che adotta una politica lassista nei confronti delle sue province e di prudente (ma anche inerme) attesa nelle questioni di politica internazionale, sulle quali ormai non ha più alcun ruolo attivo, guidata com’è da magistrati dagli orizzonti meschini, pieni di paure e di quel disturbo molto moderno che è la paranoia del complotto.
La ville lumière di Longhi e di Goldoni perde dunque di verve illuminista, ma acquista assai nei chiaroscuri, e in questo modo produce un singolare contrasto con le terre che essa domina, sui «reggimenti» in merito ai quali Nievo svolge una disamina che può ricordare quella manzoniana sulla Lombardia del primo ’600; ancora gli storici veneziani, e in particolare Carlo Antonio Marin, parente del nonno materno dello stesso Nievo, ci insegnano che nel Settesento la terraferma rimane sacrificata, da un punto di vista economico, agli interessi di Venezia3: il conte Carmini dovrebbe forse rappresentare la fronda dell’aristocrazia della terraferma contro il dominio sfruttatore della città lagunare, appoggiata solo per breve tempo dal popolo minuto, che invece ama la «proverbiale» bontà veneziana contro la tirannia della nobiltà provinciale.
Forse influenzata dal resto della produzione “rusticale” nieviana, parte della critica ha visto in queste zone interne il luogo dell’operosità e delle intatte virtù, laddove Venezia risulta invece sdilinquita e corrotta. Ciò è possibile, e tuttavia le vicende che si svolgono in questa ampia periferia veneziana hanno del crudele e del ferino: i personaggi che vi abitano sono animati da una vitalità fiera e istintiva, da una “salute” che fa contrasto con la malattia della capitale, certo, regolata però da un senso dell’onore tutto selvatico, che giunge a toccare il sadismo, se pensiamo al trattamento che Tramontino – un personaggio molto simile, inter alios, al còrso Bertuccio del Conte di Montecristo – riserva al Carmini, trattamento che conserva qualcosa dei riti pagani legati alla terra.
Nel suo Frammento sulla rivoluzione nazionale (1859), Nievo spiegherà più chiaramente il ruolo storico delle masse contadine, che per tradizione conservano i valori sui quali costituire l’azione del risorgimento. È da queste pianure primigenie, dunque, che la Venezia futura (e l’Italia unita tutta, forse) un giorno dovrà trarre le proprie risorse migliori; i suoi uomini, inoltre, dovranno avere lo spirito battagliero, l’orgoglio e l’amor proprio di un Tramontino, nonché la sua bontà, che non è ovviamente la misericordia, bensì la pura schiettezza dei sentimenti.
Attraverso i vari palcoscenici sui quali si svolge questa tragedia lenta e inesorabile la protagonista, Morosina Valiner, è proprio un angelo, un angelo alla maniera non tanto delle donne stilnovistiche quanto dei visiting angel di Montale, e, come tale, diffonde la verità presso chi è disposto ad ascoltarla. La forma di questa è la bontà, che Ferruccio Ulivi descrisse come «virtù laica al posto della manzoniana fiducia in Dio»; come che sia, la bellezza che da essa promana, tutta spirituale, si apre a suggestioni profonde, evoca l’idea di un principio di unificazione universale, la forza di un eros platonico-cristiano che investe tutti i gradi della realtà, non certo la bontà, più consueta, delle istituzioni culturali e politiche – qui la Repubblica veneziana, va da sé – che rappresentano il nostro orizzonte etico e conoscitivo solo fino a quando non cadono in irreversibili crisi.
Oltre le stagioni della Storia, e come in una sorta di diegesi neoplatonica, Morosina, tramite fra il mondo degli angeli e quello degli uomini, rende questi ultimi consapevoli di quanta lucente bontà alberghi in loro e, per contro, di quanta materia bruta, insensata, incrostata di bassi istinti primitivi, essi debbano spogliarsi per saggiare l’armonia del mondo e la voluptas delle quali, in ogni momento, è lei stessa la dispensatrice, come l’alma Venus di un Botticelli. L’armonia, il «piacere nuovo», come dice Celio, che Morosina trae dal pianoforte, nel primo capitolo del romanzo, durante il ricevimento al collegio che prelude alla sua entrata nel mondo, risultano, in questo senso, come un annuncio; «l’incanto pudico del bello» che avvolge i presenti è il segno più chiaro di una bellezza che non deve abbagliare l’animo ma guidarlo: la bontà come «senso di giustizia e di rettitudine, socratico coraggio di fronte ai doveri imposti dalla società» (Ulivi)4.
La sofferenza dovuta alle umiliazioni del collegio prefigura sin dall’inizio un percorso cristologico – “creaturale”, come avrebbe amato dire Auerbach – che la porta fin quasi al sacrificio di se stessa, vittima innocente travolta dai disegni e dalle passioni di uomini sulla soglia della perdizione. Lasciando il collegio, ella dimostra un’aspirazione alla libertà analoga a quella che si effonde dai Prigioni di Michelangelo in procinto di liberarsi dalla materia che li opprime: «…si levò quella mattina piena di vivissima fede; e questo sentimento divino, splendore di nuova bellezza, le irradiava tutte le parti del viso».
Inutile dire, qui, che Nievo ha soltanto accennato alla Lucia del grande modello manzoniano, peraltro citato più volte nel romanzo: Morosina non si affida a una Virtù trascendente, non riferisce la propria vicenda a un ordine provvidenziale; non che in Angelo di bontà non se ne faccia menzione, tutt’altro (addirittura il capitolo XI porta come titolo La Provvidenza), ma quest’ordine – a ben vedere – non ha che un’influenza epidermica sui pensieri e sulle azioni dei personaggi. Inoltre, dove altri ordini sapienziali si rivelano inadeguati al futuro che si sta preparando, è lei stessa il principio dell’autentica virtù, l’“angelo” che non si può guardare senza venirne intimamente scossi, trasformati, eticamente (almeno) con-vertiti.
Così, l’inquisitore Formiani, da machiavellico sfruttatore di giovani innocenti, «santolo» (come lo chiama Morosina) pieno di una bontà, tutta egoistica ed egocentrica, che elargisce doni a persone ridotte al ruolo di pedine su una scacchiera, diventa un padre-marito umano e generoso, e la sua concezione della storia e della politica, machiavellica, appunto, si lascia illuminare dall’afflato magnanimo della donna. Per una volta ancora, dunque, si può prefigurare il bene dello Stato attraverso il buono dei singoli uomini.
Allo stesso modo Celio, libertino e cospiratore, alla ricerca, da una parte, della risposta risolutiva circa i sentimenti che Morosina prova per lui, e, dall’ altra, di un rinnovamento politico assai disordinato, sul piano ideologico, attraversa e via via supera le contraddizioni presenti nel suo animo, per trovare, alla fine, un sé stesso affatto rinnovato e pacificato, attento in primis a una Venezia da ricostruire, riformabile nel senso letterale del termine.
La virtù di Morosina, ancora, spezza il nesso amore-morte, che, in una vicenda come questa, sarebbe stato quasi scontato mettere in scena, per riportare l’anima del suo amico “non della ventura” indietro nel tempo, fino all’età dell’ innocenza («Come ridevamo, eh! Morosina? Basterà togliere tre quarti d’ora a quei cari anni, e tornarli in vita; e sono sicuro, ci verrà voglia di risuscitare molti altri in appresso.») e ritrovare, per lui, una disponibilità pressoché evangelica alla resurrezione dell’anima, oltre le pene e lo spleen dei sentimenti.
Morosina è dotata di questo potere: evoca il passato come una reminiscenza della purezza perduta: «Ah, ve ne ricordate? […] Ma dunque il bene che mi volevate, me lo vorrete anche adesso? Non siamo noi quegli stessi?», risponde alle parole di Celio riportate sopra. In questo passo, anche l’orecchio dello studente più sprovveduto – vogliamo credere – riconosce le parole di Renzo a Lucia nel XXXVI dei Promessi sposi («Dopo tante promesse! Non siam più noi?»), ma Nievo lascia da parte il realismo del suo modello per aprire lo spazio di un rinnovamento che attraversa in un attimo, senza incontrare alcun attrito, il mondo delle esperienze.
Tuttavia su Celio si deve dire anche altro: benché appaia a volte nel romanzo come una summa dei personaggi più convenzionali (il primo amoroso, il libertino, il cospiratore), la sua inquietudine lo conduce verso percorsi eccentrici, più e meno discosti dal suo “angelo”, che comunque in ogni situazione, persino in quelle più drammatiche, costituisce per lui un approdo sereno. Egli, più di tutti gli altri personaggi, vive un romanzo: frequenta i palazzi veneziani, va a cercare nelle campagne dell’entroterra le armate di una impossibile insurrezione, percorre i confini della Repubblica, sospeso tra il pensiero di consegnarsi all’autorità e l’esilio volontario, visita gli inferi dei palazzi di giustizia veneziani. E l’esito della sua vicenda dischiude, in controluce, un percorso di formazione, una Bildung del tutto originale: «Anima ormai disgiunta dai legami di quaggiù, ormai aperta alla luce dell’amore immortale, Celio conobbe allora quale doveva essere l’amore per aver nome virtù; conobbe la santa dolcezza di quella fratellanza degli spiriti che non può mai perire; conobbe la potenza rigeneratrice d’una tal fratellanza, quando ponendosi ella a fondamento della famiglia, s’edifichi sopra di lei l’ordinamento sociale» (IX).
L’amore di cui si ragiona coincide ovviamente con la bontà, ultimo e più distillato “sugo di tutta la storia”, che Celio trasmette come insegnamento ai numerosi figli che gli dà Morosina una volta divenuta sua moglie, in un finale che Nievo mutua palesemente da quello dei Promessi Sposi, abolendo però qualsivoglia cedimento alle ben note accortezze borghesi di Renzo e lasciando, viceversa, che i protagonisti ritornino a vivere nel luogo primigenio del loro amore, ossia in quello che li ha visti compagni di giochi, il villaggio di Caneva. L’idillio, in tal maniera, si chiude con una sorta di “ritrovamento del tempo perduto”, esito aureo degli ispiratissimi quanto inconcludenti tentativi del “nodaro” Chirichillo di risalire all’infanzia delle sue vite passate. La virtù della bontà impone, alla fine, una dirittura morale che non lascia spazio alle turbinose inquietudini di una società già in avanzato stato di mutazione: l’“ipocrita lettore” mirabilmente evocato da Baudelaire può ritrovarsi, probabilmente, nella prima parte del romanzo in Formiani o in Celio, ma è costretto poi a liberarsi dal contingente e ad attingere alle fonti dell’ideale.
D’altro canto, pure Morosina è un’anima plasmata, e il suo Pigmalione, nel senso letterale del termine, è il personaggio all’apparenza più comico, quasi cervantesiano, di Angelo di bontà, il “nodaro” Chirichillo testé citato, il quale ha deciso di seguire il podestà padre di lei per tutto il territorio della Repubblica, per un «amore sviscerato e paterno» nei confronti di Morosina, per un amore che si esplica in una singolare, avvincente affinità di anime fra il creatore e la creatura: è Chirichillo a instillare, fra il resto, quella vitale bontà che per lui è il «cardine di ogni perfezione morale» nella protagonista ancor bambina, ed è sempre lui a seguirne, davvero in ogni momento, i drammi e le angosce con una sollecita apprensione non molto differente da quella manifestata da Celio in situazioni analoghe.
Ma le sue nobili attese, le sue “grandi speranze” nei confronti della crescita di Morosina esprimono altresì una specie di pazienza orfica, che palesa il suo straordinario punto di vista sul rapporto fra tempo e anima. Chirichillo, in effetti, crede nella metempsicosi e vi elabora sopra delle originali teorie, bizzarre ma non lambiccate: egli è costantemente alla ricerca di una mappa della trasmigrazione delle anime – la propria e quelle dei conoscenti – attraverso le tracce di ricordi che si potrebbero senza dubbio chiamare reminiscenze.
Nondimeno, la sua stralunata vis comica lascia trasparire anche il volto enigmatico di un vecchio sospeso, senza rendersene pienamente conto, sui precipizi del tempo, in grado di intravedere, o almeno di intuire, la sostanza della vera esistenza, il continuum delle anime, i doni da esse elargiti, primo di tutti – ribadiamo – la bontà. Nievo gli pone accanto, per introdurre una vera e propria coppia comica, il padre di Morosina, il podestà Valiner che, significativamente, sull’anima e il suo destino si pone ben poche domande: fa voto di obbedienza a chi ha più potere, o anche solo più carattere, di lui (in ordine, Formiani e la moglie Cecilia), beve, conclude lo scellerato accordo di matrimonio con l’Inquisitore e, il giorno dopo, se ne dimentica; in una parola, se il “folle” Chirichillo lascia intendere le profondità del suo io, il bonhomme Valiner, comunque lo si tocchi, suona ottuso: non per caso, gli influssi buoni della figlia non producono in lui alcun mutamento.
Le altre donne del romanzo sono curiosamente assai poco materne – potremmo anche dire poco femminili – e lasciano forse immaginare una dimensione archetipica. Morosina non ha la madre ma due matrigne, la superiora del collegio delle Serafine e la signora Cecilia Valiner, che esprimono nei confronti dell’“angelo di bontà” oscure forze negative: un senso di invernale reclusione la prima, la privazione della figura della madre la seconda. Tuttavia, pure questi loro influssi rimangono asserviti al loro vero padrone, l’inquisitore Formiani, che se ne serve – e le manipola – come il Prospero della Tempesta shakespeariana onde tramare a dovere i suoi progetti. Persino le servette di Morosina, apparentemente di gusto goldoniano, conservano un’allegria e una vitalità un poco ninfali, ma restano, pure loro, piccoli attanti del gioco dell’Inquisitore.
Sul personaggio della signora Cecilia giova invece aggiungere qualcosa di più. Essa, da generalessa de race, regge, anche a distanza, le briglie di suo marito, dominandolo come una seconda coscienza; lo estromette dal suo ruolo di podestà e conduce la politica di Asolo al posto suo. «La signora Cecilia a tutto poneva cura col furore di cui femmina è capace, se bramosa d’impero»: di questo personaggio, che nel romanzo non compare di frequente, il lettore ricava un’impressione opposta a quella suscitata dalla protagonista: la soavità e la generosità di questa sono in antitesi con il rifiuto di quella di essere altro che una donna di potere; dove Morosina, a dispetto delle circostanze, è solare, la signora Cecilia è opaca e, in certi momenti, addirittura più imperscrutabile dell’inquisitore Formiani. Allo stesso modo della protagonista, tuttavia, ella patisce l’esperienza dell’esilio e della reclusione: Asolo, il collegio delle Serafine sono le lontane province dove le anime attendono di sbocciare a nuova vita. La conciliazione finale tra Formiani e Cecilia, nonché tra questa e Morosina, non ha solo il sapore di una commedia giunta all’ultimo atto, ma anche di una ricomposizione dell’ordine di quelle anime che danno forza e vitalità al mondo.
Come si sa, l’approdo della parabola poietica nieviana, per buona parte della critica, è costituito dalle Confessioni di un italiano; a questo proposito si è parlato, per Angelo di bontà, di opera sperimentale. Forse, più che sul concetto di sperimentazione, sarebbe opportuno interrogarsi su quello di ‘provvisorio’, come ha del resto fatto Geno Pampaloni nella pregevole introduzione all’edizione garzantiana delle Confessioni: si tratta di un’intuizione critica che rende ottimamente, fra l’altro, l’immagine di un autore in grado di adeguare di continuo l’attività letteraria alle proprie esperienze esistenziali5.
Qui non interessa d’altronde guardare oltre il nostro romanzo, specie perché i personaggi, i luoghi, i temi che passano dall’Angelo alle Confessioni – basti por mente a una Morosina in fieri che tende alla celestiale Clara, sorella della Pisana, o alla decadenza di Venezia, o ancora a certe atmosfere raccolte e familiari, riprese per raccontare la giovinezza nel castello di Fratta – sono già stati indagati compiutamente da diversi studiosi affidabili. Si vuole invece sottolineare l’evidente, consapevole originalità di questo libro all’interno di uno spazio letterario particolarmente problematico. Se infatti, come ha osservato da par suo Gino Tellini, dopo il Del romanzo storico manzoniano «spezzare la dialettica di storia e invenzione vuol dire rinunciare alla scommessa di un ‘possibile’ mondo migliore» e quindi rinunciare alla «tensione a rifare la storia»6, l’attività narrativa di Nievo fa procedere la sua scrittura sulle misure armoniche della bontà di Morosina: vi accorda i moti sentimentali dei personaggi e, per somiglianza o per contrario, vi inscrive ogni tensione verso il futuro; vi disegna sopra, inoltre, un’utopia che non sarà mai Storia , ma che rimarrà comunque come un’Orsa maggiore alla quale drizzare, nel tempo della caduta, uno sguardo non scevro di speranza.
Siamo assai lontani – sia detto incidentalmente, come una curiosità – da un’idea di futuro molto romantique, che lo stesso Nievo interpretava peraltro con qualche vago atteggiamento, in una lettera a Matilde Ferrari, nel marzo del 1850: «Tu forse non hai mai pensato al futuro, a quel vortice oscuro che avvolge nelle tenebre la nostra vita, pronto ad ogni istante ad ingoiarla…». Sembra evidente infatti, nel romanzo, l’intento di superare questo genere di considerazioni, o meglio di farne dei singoli punti di vista, come a esempio quello di Celio, che possano in seguito essere superati grazie alle forze positive liberate dalla bontà.
In un contesto più legato all’attualità di Nievo, non siamo invece lontani dalle posizioni di un Tenca, che, già negli anni ’50, riconosce nella letteratura «l’espressione d’amore, eguaglianza, fraternità…», e quindi da una linea, tutto sommato, moderata. Conviene ribadire, a ogni modo, come la bontà di questo romanzo sia, di fatto, l’esca virtuosa di un amore per nulla paternalistico, che tutto tiene insieme e che rinnova quanto di buono, essendo oramai invecchiato, non può più essere punto di riferimento affidabile; lo rinnova levando la materia e lo dispone verso l’avvenire: come la morte di Chirichillo ad Asolo coincide con la nascita di Napoleone ad Ajaccio, così la morte della Repubblica di Venezia lascia presagire, celata fra le pieghe della Storia, la nascita della Venezia italiana.
Bibliografia essenziale
A. Di Benedetto, Ippolito Nievo e la letteratura campagnola, Roma-Bari, Laterza, 1975;
G. Cappello, Invito alla lettura di Ippolito Nievo, Milano, Mursia, 1988;
S. De Carlo, Prefazione ad Angelo di bontà, in AAVV, Romanticismo, Roma, De Carlo, 1944;
M. Gorra, Nievo tra noi, Firenze, La Nuova Italia, 1970;
G. Manacorda, Prefazione ad Angelo di bontà, Milano, Lucarini, 1988;
P. V. Mengaldo, Due paragrafi sulla lingua di Angelo di bontà di Nievo, in “Rivista della letteratura italiana”, IV, 1, 1986;
Id., Notizie sull’autografo di “Angelo di bontà”, in AAVV, Studi di filologia romanza offerti a Gianfranco Folena dagli allievi padovani, Modena, Mucchi, 1980;
G. Pampaloni, Introduzione a Confessioni di un italiano, Milano, Garzanti, 1973;
F. Portinari, Prefazione a I. Nievo, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952;
S. Romagnoli, Ippolito Nievo, in Storia della letteratura italiana, VIII, Milano, Garzanti, 1968;
F. Squarcia, Di un romanzo del Nievo, in Id., Scrittori romantici, Parma, Il Raccoglitore, 1952;
F. Ulivi, Il romanticismo di Ippolito Nievo, Roma, AVE, 1947.
Note
- Cfr. G. Benzoni, Pensiero storico e storiografia civile, in Storia della cultura veneta, Vicenza, Neri Pozza, 1986.
- In Narratori e prosatori del Romanticismo, p. 123.
- In Storia civile e politica del commercio de’ Veneziani, Venezia, 1798-1808.
- In Il romanticismo di Ippolito Nievo, Roma, AVE, 1947, p. 49.
- Cfr. G. Pampaloni, Introduzione a Le confessioni di un italiano, Milano, Garzanti, 1973, p. XIV.
- Cfr. G. Tellini, Il romanzo italiano dell’ Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 57-58.
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