Bibliomanie

Il Piacere (liberamente tratto dal romanzo di Gabriele D’Annunzio)
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Francesca Liverani, Il Piacere (liberamente tratto dal romanzo di Gabriele D’Annunzio), «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 14, maggio/agosto 2013

Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte. A questa classe, ch’io chiamerei serenissima perché rese appunto il suo più alto splendore nella Venezia del XIV secolo, appartenevano i Contarini.
Il cognomen della casata pare trovare origine nella latinità tardo repubblicana, quando alcuni rappresentanti della gens Aurelii Cotta, esercitanti l’alto potere prefettizio nella regione del Reno, dettero vita alla stirpe dei “Cotta Rheni” o “Conti del Reno”. Tuttavia solo in epoca alto medievale troviamo tracce dell’antenato più remoto, tale Andrea Contarini, che nell’853 sottoscrisse il testamento di Orso Partecipazio, vescovo di Castello. Gli antichi cronisti riferiscono poi, con impressionante dovizia di particolari, della grande famiglia veneziana, divisa in diciotto rami, dai quali uscirono ben otto dogi e innumerevoli personalità di rilievo in ambito ecclesiastico, culturale, politico e militare. Nell’XI secolo Domenico Contarini, trentesimo doge della Serenissima, combatté gli Ungheresi riconquistando Zara. Da costui, in linea retta, derivò il ramo più antico, quello dei Contarini di San Silvestro, che nel 1275 regalò alla città il suo quarantasettesimo doge, Jacopo. Ma fu con il sessantesimo doge, Andrea Contarini, che dal 1368 al 1382 Venezia visse uno dei più importanti momenti della sua storia. Era costui esponente del ramo dei Contarini di San Paternian, gli stessi che vennero poi indicati col soprannome “dal Bovolo” quando alla fine del XV secolo un’originale scala a chiocciola venne costruita sulla facciata della loro splendida dimora. Dopo aver condotto una giovinezza a dir poco scapestrata, assunse il dogato all’età di sessantatré anni, costretto ad accettare suo malgrado, pena la confisca di tutti i beni e il bando perpetuo dai territori veneziani. Se in gioventù era stato dissoluto e libertino, nella maturità fu saggio probo e libertario. La leggenda vuole che negli anni della giovinezza, mentre si trovava in viaggio per commerci, un mendicante gli avesse predetto un dogato segnato da enormi disgrazie; profezia che fortunatamente si realizzò solo in parte, dato che l’inaspettato incarico fu talmente ricco di successi militari da consacrare Venezia come incontrastata dominatrice dei mari. Dal 1623 al 1684 la casata fornì altri cinque dogi, tra cui, particolarmente degni di lode, Francesco, che si alleò con Luigi XIII di Francia per cacciare gli Austriaci dalla Valtellina; Nicolò, che fronteggiò nel 1630 la peste che colpì Venezia; e soprattutto il centesimo doge, Carlo Contarini, che sconfisse i Turchi sui Dardanelli.
Tra i rami più illustri della casata, la storia ricorda i Contarini dagli Scrigni, residenti nel palazzo rinascimentale di San Trovaso, noti per l’immenso patrimonio che ne faceva una delle più prestigiose famiglie di tutto il patriziato. Altro ramo illustre, quello dei Contarini dal Zaffo, deve il nome al titolo di “conte di Giaffa”, che la regina di Cipro creò appositamente per Giorgio Contarini, rendendolo primo dignitario dell’isola. Tale ramo, già residente dal XV secolo nel palazzo affacciato sul Canal Grande, fece costruire nel XVI secolo un prezioso edificio a Cannaregio, con ricca biblioteca, pregiati affreschi e un enorme giardino rinascimentale affacciato sulla laguna. E infine il ramo dei Contarini dalla Porta di Ferro, che deve il proprio nome ai vistosi battenti apposti nel XV secolo all’ingresso del palazzo trecentesco in salizzada Santa Giustina, poi rimossi nella prima metà del XIX secolo.

Il conte Andrea Contarini dal Borgo Rocco proseguiva la tradizion familiare. Egli armonizzava in sé l’ideal tipo del nobil signore italiano nel XXI secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Il fascino intrigante e ribelle che lo caratterizzava gli aveva meritato l’appellativo di “Carismatico”, ma ciò che lasciava più sorpresi coloro che godevano della sua confidenza era certamente la maniera in cui questo aspetto veniva a fondersi con quella forza potente e istintuale, si direbbe quasi primitiva e viscerale, che appariva molto meglio rappresentata dal soprannome “Kunta”. Tale suono, capace di suscitare scenari di primordialità africana, parimenti creava una preziosa assonanza con la radice germanica “Gunther”, rievocando passi del mito wagneriano e al tempo stesso memorie di epiche battaglie, di imprese ardite, di eroi solitari e di titanica virilità.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte e di vita, fino al punto che la vita e l’arte si erano confuse in lui a creare una paradossale e affascinante sovrapposizione. La sua giovinezza, nutrita di letture varie e sottoposta a un’instancabile attività amatoria, parve prodigiosa; ma solo con la maturità si mostrò appieno il risultato della sua straordinaria educazione estetica che, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi, espresse proprio allora e al massimo grado il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto sui libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e ciò permetteva, come amava spesso ripetere, il passaggio dal piano astratto e rischioso dell’interpretazione a quello più palpabile e saldo del “dato di fatto”.
Fin dal principio egli fu prodigo di sé: non solo del suo corpo, che per la grande forza sensitiva ond’egli era dotato non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità, ma anche della sua saggezza, che in virtù dell’acuta e istintiva percezione della natura umana era in grado di offrire a coloro che avevano facoltà di apprezzarla molteplici occasioni di riflessione e di crescita.
Alla massima fondamentale secondo cui “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte” univa quella ancora più urgente del “Conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”. Tuttavia, come dicevamo, arte e vita si confondevano pericolosamente in lui fino ad annullare in una vertigine i confini dell’una e dell’altra; e in modo analogo, il senso radicato della propria libertà veniva in lui a fondersi e a scontrarsi con un profondo desiderio di dedizione e di appartenenza.
Da questi contrasti nascevano due grandi amori: quello per il teatro e quello per le relazioni umane. Il primo diveniva il luogo privilegiato per mettere in scena con leggerezza tutte le emozioni che la vita tende ad appesantire con il giudizio il dovere e il senso di colpa; mentre il secondo offriva un banco di prova su cui misurare, quasi in continua sfida con se stesso, il proprio anelito a donarsi e l’inestinguibile tensione verso la più assoluta indipendenza.
Ma il suo vero grande amore era Ravenna: non la Ravenna dei monumenti, della riviera e delle attrazioni turistiche; ma la Ravenna delle piazzette, dei capanni sul fiume e delle botteghe antiquarie. La curiosità d’Andrea per il mondo era forte e sincera, tanto che soleva condividere buona parte del proprio tempo con soggetti delle più svariate nazionalità; tuttavia il luogo che oltremodo esprimeva la radice del suo essere, l’essenza della sua espressività, il centro stesso del suo sentire si materializzava nello spazio circolare del suo piccolo borgo: quasi un porto franco, un limbo sospeso tra le mura della città vecchia e l’incombente periferia.
Questo luogo rappresentava, per così dire, il punto di incontro e d’equilibrio tra le due parti opposte e complementari della sua anima: da un lato quella “aristocratica”, protetta al di là delle mura, immersa nella dimensione dell’arte e della storia, chiusa in un passato mitico e al tempo stesso rassicurante; dall’altro quella “teppista”, idealmente protesa verso spazi indefiniti, verso l’anonimato violento della modernità, verso i territori dissacranti del divenire.

Proprio a ridosso della mura, e in certo senso quasi incastonato in esse, l’appartamento del conte custodiva la luminosa perfezione di un gioiello nella tenera protezione di un nido.
Andrea stava aspettando nelle sue stanze la donna amata. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Le luci soffuse conferivano all’ambiente quell’atmosfera di languore e intimità che era a lei oltremodo gradita. Lei, lei, lei… Quanto tempo era passato dal loro ultimo incontro? Anni, mesi, settimane… Forse solo pochi giorni, ma la percezione si dilatava nell’animo ogniqualvolta il suo pensiero si soffermava intorno all’immagine di lei.
Sul tavolo erano pronti due calici, e le note di Čajkovskij si diffondevano nell’aria, pervadendo i pensieri, resuscitando i ricordi ed esacerbando oltre ogni limite l’ansia dell’aspettazione. Quest’ansia lo pungeva così acutamente che egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Così si avvicinò al fornello e rigirò la ribollita, quasi sovrappensiero, aggiungendo un altro pezzetto di dado da brodo. La passione del cucinare era per lui un’espressione estetica del proprio senso profondo del vivere: il piacere di gustare insieme a lei i cibi più inusitati, esplorando i sapori più insoliti e le combinazioni più ardite, si fondeva al gusto per la semplicità, la schiettezza, la veridicità dei sapori più autentici della tradizione popolare. Codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio.
L’orologio segnava le venti. Mancava mezz’ora. Andrea sedette al tavolo, riempì un bicchiere di Sauvignon e accese una sigaretta. Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo: l’inatteso incontro, a distanza di quasi quindici anni, una sera d’estate in una rocca veneziana del XV secolo. Ella l’aveva visto, inseguito, chiamato; ed egli si era voltato a guardarla, sorpreso da tanta emozione, come se la vedesse per la prima volta. Poi il primo appuntamento, la cena in quella piazzetta racchiusa da antiche mura. Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel momento; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole: le confidenze di lei, su quell’antico amore lasciato per sempre a Venezia; poi quelle di lui, riguardo a una storia coinvolgente ma ormai “sostanzialmente” chiusa.
Andrea guardò la stanza: il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che lei aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le immagini del passato rivivevano tumultuariamente. Ogni cosa sembrava parlare di loro: l’araldo con al centro uno sparviero che ghermisce tra gli artigli un agnello inerme riportava la mente ai primi travolgenti tempi della passione, e la stampa del XVII secolo raffigurante il talamo di Odisseo e Circe emanava quasi il senso di un incantesimo a cui nessuno dei due era riuscito a sottrarsi.
Pareva che in quel momento la stanza fosse tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Andrea pensò alla sensazione che ella avrebbe avuta entrando. Certo sarebbe stata vinta da quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe certo perduta ogni nozione della realità, del tempo. Se il teatro dell’amore era immutato, perché sarebbe mutato l’amore?
Mancavano pochi minuti all’ora. L’ansia dell’aspettante crebbe a tal punto ch’egli credeva di soffocare. Andò alla finestra e guardò la via deserta. Ella sempre percorreva quella via per giungere ai convegni; traversava rapida la piazzetta adiacente, poi svoltava l’angolo. E da lì Andrea poteva udire il suo passo risonare sul lastrico. Così si apprestava ad accoglierla sulla soglia, proprio in cima alle scale; poi l’avvolgeva in un abbraccio, per scioglierla alfine esclamando: «Ecco fatto!».
L’ora era ormai passata, e in quel momento cominciò nell’aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico danno alle cose un’anima sensibile e mutabile come l’anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, ne’ colori, ne’ suoni, ne’ profumi, un simbolo trasparente, l’emblema d’un sentimento o d’un pensiero. Pareva all’amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell’attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
Andrea vide nell’aspetto delle cose intorno riflessa l’ansietà sua: «Ormai è tardi», pensò, «ha deciso di non venire, questo è chiaro!».
Allora attraversò la stanza, origliò alla porta ch’egli aveva lasciata socchiusa. Dopo poco egli udì su per le scale un passo, un fruscio di vesti, un respiro affaticato. Tutto il sangue gli si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la soglia. E finalmente ella entrò.

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