Bibliomanie

Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Maria Luisa Vezzali, Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 18, maggio/agosto 2013

«In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltare, dentro me stessa, gli altri» diceva Etty Hillesum in una pagina del suo Diario 1941-1943. Un’arte che deve imparare necessariamente chiunque inizi a tracciare i confini di un testo, ma in modo privilegiato chi decide di intraprendere il cammino rischioso di raccontare le vite di altri e, attraverso questi pochi prescelti, di una schiera infinita di con-sorti, persone che hanno ricevuto il fardello dello stesso destino. Di questa profonda capacità di mettersi in ricezione attiva delle voci altrui è testimonianza il libro di Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato.
L’opera avrebbe avuto il materiale e il respiro per diventare una grande saga, e dal genere desume l’accorgimento di inserire in apertura l’albero genealogico intrecciato dei due clan ebrei, i Goldstein e il Lager, di cui riporta le vicende. Viene in mente, prima tra tutte, La famiglia Moskat di Singer, con quel suo irresistibile fluire tolstojano, quei personaggi indimenticabili, ma soprattutto la dovizia visionaria con cui evoca davanti agli occhi del lettore il fascino della cosiddetta Ostjudentum. Invece la Cuttin non imbocca questa via: costruisce un mosaico sapientemente spezzato, fatto di tessere che illuminano un istante, un episodio, un personaggio, franto e interrotto come a quel momento storico è toccato di diventare. Dei dodici cugini Lager nati tra il 1912 e il 1935 (tra i quali la madre dell’autrice), soltanto uno, Laci, viene scelto come protagonista, associato a due cugini Goldstein, Martino e Andi. Tre ragazzi emblematici nella diversità, crudelmente contingente, dei loro casi.
Eppure il sapore della cultura e delle tradizioni ebraico-orientali riesce a rivivere anche attraverso questa scelta meno comoda, e probabilmente meno commerciale: infatti la costruzione cronologica adottata dal libro, non lineare, labirintica, parte dal 1943, per tornare all’estate del ’38, ultima vacanza “normale” dei tre protagonisti, e poi scorrere ancora a ritroso, con lo scopo di parlarci di com’era Fiume prima dei conflitti mondiali, cosmopolita Babilonia d’Europa, città aperta e multiculturale, dove venivano stampati quotidiani in sette lingue diverse e gli ebrei si assimilavano facilmente all’interno di un simile crogiuolo di popoli. In questa fase dell’opera il lettore prova insieme all’autrice l’emozione di conoscere nonni che provengono da luoghi tanto sconosciuti, paesini ucraini, rumeni, distanti nello spazio, ma soprattutto nel tempo, con le loro pratiche esotiche, come quella del matrimonio attraverso shadkhen (sensale). L’emozione diventa vertiginosa con i sorprendenti movimenti in avanti e indietro della narrazione, veri e propri sussulti della memoria, come l’esperienza epifanica durante la quale la madre dell’autrice fa un viaggio a New York e, visitando il museo dell’eredità ebraica a Battery Park, si imbatte in una foto dei suoi nonni e in un oggetto appartenuto alla sua famiglia. Questo «piatto d’argento con il bordo sbalzato a foggia di petali di fiore» fa riprecipitare le coordinate temporali indietro fino al giugno del ’37, data di una festa d’anniversario di nozze raccontata con la perizia cinematografica di un Coppola o di un Altman.
Ma il cuore della storia sono i modi diversi in cui i tre cugini affrontano le vicende successive all’emanazione delle leggi razziali, dei quali è bene non rovinare la lettura, catturante come se si avesse tra le mani un romanzo d’azione: basti sapere che Andi emigra negli Usa, ma poi decide di arruolarsi nella 10th Mountain Division, Laci riesce – dopo diversi tentativi falliti – a espatriare in Svizzera e Martino finisce deportato ad Auschwitz.
Il resto è da leggere in solitudine, per instaurare un corpo a corpo con questo libro complesso, così al di fuori dai generi (non è un caso, infatti, che nelle note finali l’autrice ringrazi Lorella Fontanelli che, più ardita dei grandi gruppi editoriali nazionali, ha saputo uscire dalla rigidità schematica della domanda «è un romanzo o un saggio?»), così ricco. Il segreto di questa ricchezza riposa, forse, nella duplicità di approccio scelto dalla Cuttin, che da una parte adotta la via che i maestri della kabbalah definiscono «da bocca a orecchio», assume un tono da aedo (con le espressioni come «me narratrice» di p.18), irretisce il lettore/ascoltatore con tecniche di coinvolgimento diretto («in questo libro leggerete le loro storie…», «ci allontaneremo nel tempo e nei luoghi, ma aspettateli: arriveranno…»), sembra alludere a un moderno “poema della forza”, anzi “della violenza inumana”; dall’altra, però, indossa i panni dell’archivista, dello storico meticoloso, del cacciatore di documenti e ci riporta dati precisi, foto, liste di nomi.
Ma oltre a questo spicca una assoluta, radicale coerenza tra testo e paratesto, anche nei dettagli microscopici. Per esempio, la dedica al nonno Ermanno e alle figlie Fabia e Sofia, come per ricostruire quella linea tra generazioni che una stagione crudele ha cercato irrimediabilmente di spezzare. O la citazione in esergo di Amos Oz, che giustifica l’operazione di scrittura con l’idea che «alla morte dell’ultimo che ricorda, il morto muore un’altra volta» (emblematico il fatto che la morte secunda, ultima e definitiva, in contesti laici, non sia la dannazione eterna, ma l’eterno oblio). Oppure l’utilizzo di tre caratteri tipografici diversi: uno, con le grazie, per seguire la narrazione delle vicende, uno sans-serif, per fornire le necessarie contestualizzazioni e infine un carattere senza grazie con giustezza minore per riportare la voce di Martino mentre rende conto dell’esperienza del campo in prima persona. Leggendo quest’ultima parte viene spontanea la riflessione che, nonostante la pubblicazione di centinaia di testimonianze su questa esperienza, rimane sempre una lacuna, uno spazio vuoto in cui il nuovo libro può inserire il suo terribile tassello. E il motivo di questa atroce aporia si può ritrovare, detto magistralmente, ne I sommersi e i salvati: «Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri… Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua… chi ha visto la Gorgona non è tornato per raccontare o è tornato muto; ma sono loro i “musulmani” i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto un significato generale». In mancanza di questi “testimoni integrali” rimarremo per sempre nel bisogno di continuare a cucire la tela con gli scampoli di confessioni che ci hanno riportato i singoli scampati. Brandelli monchi, terribili, perennemente integrabili, perennemente da integrare.

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