Per il Bestiario di Federico Cinti
Roberto Roversi, Per il Bestiario di Federico Cinti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 32, no. 6, gennaio/aprile 2013
Da lettore privato ma affamato, cerco sempre di arrivare – fra le pubblicazioni che escono nuove, o fra le tante del passato non ancora lette e da leggere – a quelle che si adeguano al mio gusto: ed eccomi al Bestiario di Federico Cinti1.
Le pagine intelligenti del prefatore aiutano ad accingersi a un itinerario godibilissimo e, nel contempo, travaglioso, rischioso oltre ogni parola, fra le viscere opache di un uomo postmoderno – o forse di una humana condicio? – che si vuole incomprensibile: percorso raro, specie in tempi d’indigenza materiale e morale (temo) senza pari.
Per me è un viaggio quasi omerico, dentro le acque furenti e urenti delle miserie (infinite) e delle grandezze (minime, in fondo) degli umani. Con parecchie sorprese, irrequietudini e pene, con suggestioni ed emozioni perlopiù amare ma, a ogni modo, con un rinnovato avviamento della memoria.
Tutto ciò richiama – mi richiama sotto gli occhi, non per confronto ma per necessità di comparazione – i libri puntuti e artiglianti di maestri nell’arte della satira: Giovenale, (un certo) Marziale, Agrippa d’Aubigné, La Fontaine, Voltaire (le cose migliori), Parini, Belli, Pascarella, Trilussa…
Sono persuaso che l’impegno creativo di Cinti – già notato, a quanto so, per uno Speculum salutis formalmente esigentissimo e, dunque, deliberatamente fuori dal coro – si svolga in tale ambito di riferimento e di tensione poietica.
Va in questa direzione la globalità delle tessere pressoché geometriche del suo duro Bestiario: le sculture zoomorfe e insieme umanissime che lo compongono sono realizzate (e sofferte) non solo col proposito di elargire o precisare cognizioni e indicazioni sul presente contesto infame, ma di provocare fervidi sussulti di lettura, emozioni affatto particolari – lasciando traccia fonda. Con un lavoro superbo, un impegno quasi virtuosistico – insisto – di scrittura, impeccabile quanto inattuale. Difatti, come in altri pezzi già diffusi e apprezzati da più parti, Cinti si dimostra un asceta del verso misurato.
Anche solo a scorrere l’opera, fin troppo ricca di allusioni sottili e perturbanti sorprese, si manifesta efficacissima una sequenza di pro-vocazioni laicamente edificanti, una sorta di trama capace (credo) di scatenare nel lettore esigenze ed emergenze morali di utilità non comune.
E il senso reale e progettuale del Bestiario va cercato, forse, nello stimolo all’approfondimento senza fine, nell’interpretazione insieme pietosa e spietata dell’immenso magma umano, a cui – volenti o nolenti o dolenti – partecipiamo ogni giorno; mille miglia lontani qui, comunque, dal desiderio sussiegoso e ipocrita di definire, di concludere. Di chiudere, insomma.
Un’ultima annotazione. Le caratteristiche illustrate consentono alla produzione satirica dell’autore di trovare una giusta, naturale collocazione pure in riviste non rigidamente poetiche: la calibrata tensione polemica e la passione (direi) spinoziana di chiarezza e distinzione, mirante ad affrontare le questioni etico-civili più sentite dando risposte univoche, la rendono compatibile col ritmo spesso allucinato di tutta la miglior scrittura d’oggi, dell’autentica ricerca in trincea.
Note
- Il testo è in uscita nella collana “Smalti e cammei” di Paolo Emilio Persiani Editore (Bologna, 2013).
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