Il laico pensiero. Piccolo breviario con dieci riflessioni
Roberto Roversi, Il laico pensiero. Piccolo breviario con dieci riflessioni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 1, ottobre/dicembre 2012
1. Il laico pensiero è il pensiero che ha mille problemi, nessuna paura. E’ travolto, mai sommerso, da dubbi di ogni genere ma mai dalla disperazione. E’ l’albero posto al confine di un bosco infuocato, ma per sé non ha confine.
2. Il pensiero laico crede al buon inesausto pensare, al buon e inesausto fare, al buon dialogare e a una libertà del fare pensare dialogare che non si arresta ai limiti delle convinzioni.
3. Il pensiero laico è quello che pensa (che crede) che le cose parlano sorgendo dalla terra, non precipitando paurose, ammonenti dall’alto dei cieli. E inoltre è quello che pensa, e ascolta, che gli oggetti intorno (il rassicurante beneficio della compagnia), le mille viventi realtà del creato, continuamente lo richiamano al suo leggendario dovere: “Qua siamo, con te; non ignorarci; non dimenticarci. Ascolta, ascolta, ascolta”.
4. Il pensiero laico è anche quello, dunque, che rifiuta il silenzio; e ha sempre come sottofondo lo scorrere dell’acqua del pensiero (tumultuoso rifluire di un fiume che fuoriesce da una caverna). Come un invito stressante a non assopirsi, a non stupirsi; ad essere sempre inquieti. Ad essere sempre pronti alla vivificante, aspra schermaglia delle idee. Sicché il pensiero laico è un camminatore imperterrito fra gli sterpi (intriganti) del pensiero.
5. Il pensiero laico ha lo sguardo basso, striscia anche per terra, ed è impietoso; perché procede sui sassi a piedi nudi.
6. Il pensiero laico non ha, sul momento, illusioni (potremmo anche scrivere speranze) ma, nonostante gli aspri sentieri, è sempre pungolato ad avanzare; ha sempre lo stimolo di potersi accasare tra fratelli (compagni di viaggio, di vita). Non ha mai la luminosa sazietà di chi, nonostante le tempeste, è sempre convinto di essere prossimo alle porte del cielo e di potere, alla fine, partecipare alla gloria di un dio sovrano.
7. Nel pensiero laico non ci sono visioni ma eccitanti contraddizioni; rumore di vetri infranti; stridere sui cardini di finestre mezzo aperte. C’è insistente il rumore di un passo dietro a un altro passo, tanto che sembra di camminare fra i pensieri.
8. Il laico pensiero non dà emozioni, ma induce sempre a ricominciare, avendo fastidio dei nodi. L’altro diverso pensiero invece turba e spesso sconvolge, e disanima e trascina a fatica, e commuove ed esalta, puntando al porto di finali consolazioni. Almeno così sembra.
9. Il pensiero laico è il bue che ara la terra.
10. Il laico pensiero è quello che non ha paura di oltrepassare le Cicladi per andare a pescare. In cerca di balene.
ALCUNI VOLTI DEL PENSIERO LAICO. PICCOLA ANTOLOGIA EUROPEA
Consulta in tempo la tua ragione: non dico che essa si mostrerà sempre una guida infallibile, dato che la ragione umana non è immune dall’errore; ma si mostrerà certamente la miglior guida che tu possa seguire.
(Da una lettera di Lord Chesterfield [1694-1773])
No, la filosofia non rimane estranea alle sorti del popolo fra cui vive. Se le trionfa intorno la libertà, ella può levarsi a investigazioni che eranle prima dal vigile sospetto contese e avareggiate.
(C. Cattaneo, Prolusione a un corso di filosofia nel liceo ticinese, 1852)
Non soltanto la ricchezza, ma anche la povertà dell’uomo viene pienamente ad assumere, nell’ipotesi del socialismo, un significato umano, dunque sociale. Essa è il legame passivo che fa avvertire all’uomo il bisogno della ricchezza più grande, quella dell’altro uomo.
(K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).
Non c’è cosa più facile che dare una tinta socialisteggiante all’ascetismo cristiano. Il cristianesimo non se l’è presa forse, anch’esso, con la proprietà privata, con il matrimonio, con lo Stato? Non ha predicato, in loro sostituzione, la beneficenza, la mendicità, il celibato, la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l’acquasanta con la quale il sacerdote benedice la rabbia degli aristocratici.
(K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, 1848)
Niente è più facile che essere idealisti per conto d’altri. Un uomo satollo può facilmente farsi beffe del materialismo degli affamati, che chiedono un semplice pezzo di pane invece di idee sublimi. I triumviri della Repubblica romana del 1848, che lasciarono i contadini della campagna romana in uno stato di schiavitù più esasperante di quello dei loro antenati della Roma imperiale, non ci pensavano due volte quando si trattava di disquisire sul degrado della mentalità rurale.
(K. Marx, “New York Daily Tribune”, 11 maggio 1858)
Mi è avvenuto di cogliere a più riprese l’obiezione che il mio concetto della libertà sia antiquato e formale, e che bisogna ammodernarlo e dargli un contenuto con l’introdurvi il soddisfacimento delle richieste e dei bisogni di questa o quella classe o gruppo sociale. Ma il concetto della libertà ha per contenuto unicamente la libertà, come quello della poesia unicamente la poesia; e si deve risvegliarlo negli animi nella sua purezza che è il suo vigore ideale, guardandosi dal confonderlo con bisogni e richieste di altri ordini, e altresì lasciando all’uomo di azione nel momento dell’azione di valersi, nei limiti che egli stesso dovrà porsi, delle forze che trova realmente disponibili e conducenti al suo fine, e sia pure di quella che Augusto Barbier e Giosuè Carducci salutavano «santa canaglia». L’infermità dei nostri tempi, l’infermità da risanare, è proprio questa: che non si riesce ad infiammarsi per le pure idee come in altri tempi per la redenzione cristiana, per la Ragione o per la Libertà; e perciò (né questo dico io solo) la crisi salutare della società moderna dovrà essere, presto o tardi, di carattere profondamente religioso.
(B. Croce, Note autobiografiche, 5 ottobre 1934)
Tre passioni, semplici ma straordinariamente forti, hanno governato la mia vita: il desiderio dell’amore, la ricerca della conoscenza e una tremenda pietà per la sofferenza dell’umanità. Queste passioni, come venti forti, mi hanno sospinto di qua e di là, in un percorso singolare, sopra un oceano di angoscia, fino al margine estremo della disperazione. […]
L’amore e la conoscenza, per quanto sono stati possibili, mi hanno sollevato verso il cielo. Ma la pietà mi ha sempre riportato indietro sulla terra. L’eco del pianto di dolore di tante persone risuona nel mio cuore. Bambini che muoiono di fame, vittime torturate dai loro carnefici, gente anziana inerme diventata un fardello odioso per i propri figli, e tutto il mondo di solitudine, povertà e dolore, svuotato di significato ciò che la vita umana dovrebbe essere. Anelo ad alleviare il male, ma non posso, e anch’io soffro.
(The Autobiography of Bertrand Russel, 1967-68).
Portare la cultura a contatto con la politica significa praticamente questo: trattare con larghezza, precisione e competenza quelle questioni politiche che rispondono a fondamentali interessi della nazione, anche se esse non costituiscono già gli argomenti della politica del giorno: trattarle chiamando persone ugualmente capaci, ma di diverse convinzioni, a far valere tesi opposte in modo da fornire alla “persona colta” che noi invitiamo ad occuparsi di politica tutti gli elementi necessari per la formazione di un giudizio proprio: trattarle, soprattutto, facendo valere quegli argomenti e quelle tesi da cui il sentimento pubblico più istintivamente rifugge: e ciò perché la funzione della cultura, nelle questioni pratiche consiste appunto nel fortificare la coscienza di fronte agli impulsi del sentimento, o al sottile contagio dei luoghi comuni e delle frasi fatte, – fortificazione di cui c’è speciale bisogno in Italia.
(G. Prezzolini, “La Voce”, 30 novembre 1911)
Il De Sanctis, nell’ultima fase della sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al romanzo “naturalista” o “verista” e questa forma di romanzo, nell’Europa occidentale, fu l’espressione “intellettualistica” del movimento più generale di “andare al popolo”, di un populismo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l’avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana. Del De Sanctis è da ricordare il saggio Scienza e vita, il suo passaggio alla sinistra parlamentare, il suo timore di tentativi forcaioli velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis: «Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura.». Ma cosa significa “cultura” in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale “concezione della vita e dell’uomo”, una “religione laica”, una filosofia che sia diventata appunto “cultura”, cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l’unificazione della “classe colta”, e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del “Circolo filologico” che avrebbe dovuto determinare «l’unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è “nazionale”, diverso da quello della destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno “poliziesco” per così dire. E’ questo lato dell’attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività che d’altronde non era nuovo ma rappresentava lo sviluppo di germi già esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico.
(A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, 1975)
Non esiste una sola morale laica (forse non esiste neppure una sola morale religiosa, ma non è il caso di affrontare anche questo argomento). Leggiamo nelle storie della filosofia che gli antichi contrapponevano un’etica della virtù a un’etica della felicità. I moderni contrappongono un’etica del dovere a un’etica dell’utilità. Per non parlare della notissima distinzione weberiana tra etica della intenzione pura ed etica della responsabilità. L’unico principio che si può considerare propriamente laico è quello della tolleranza, vale a dire il principio che dalla constatazione della molteplicità degli universi morali trae la conseguenza della necessità di una pacifica convivenza tra essi.
Da questo punto di vista non ho alcun timore nell’affermare che il pensiero laico è un’espressione essenziale del mondo moderno e un effetto del processo di secolarizzazione in cui le stesse Chiese si sono riconosciute. Come si può leggere, tra l’altro, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano e operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, perché con quanta maggiore umanità e amore entreremo nei loro modi di sentire, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un colloquio».
(N. Bobbio, Capire prima di giudicare, 1989)
Questi potrebbero essere i miei ultimi giorni. Li centelliniamo uno ad uno. La paralisi che è insorta di recente è causata da un versamento ematico nel cervello. Vorrei che dopo la mia dipartita resti qualcosa di me – non saggi, non dichiarazioni filosofiche definitive – ma amore. Spero che sia questo che rimarrà e su di esso non pesi troppo il modo in cui me ne andrò, che vorrei lieve, come in un coma, senza una lotta contro la morte che lasci dietro di sé un brutto ricordo. Qualunque cosa accada, la nostra piccola famiglia può vivere per sempre, Grazina, io e il nostro amore. Ecco ciò che vorrei, che a sopravvivere non fosse niente di intellettuale, solo amore.
(P. K. Feyerabend, Ammazzando il tempo. Un’autobiografia, 1994)
Vi dedicate alla conversione di qualcuno? Non sarà mai per operare in lui la salvezza, ma per obbligarlo a patire come voi, perché egli si esponga alle stesse prove e le attraversi con la stessa impazienza. Vegliate, pregate, vi tormentate? Faccia altrettanto anche quell’altro, sospiri, urli, si dibatta in mezzo alle stesse vostre torture. L’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale. Dato che la felicità altrui non è mai stata né un movente né un principio d’azione, non la si invoca se non per mettersi la coscienza a posto o per trincerarsi dietro nobili pretesti: qualunque sia l’atto a cui ci si risolve, l’impulso che ad esso conduce e ne accelera l’esecuzione è quasi sempre inconfessabile.
Nessuno salva nessuno: si salva solo se stessi, e non c’è modo migliore di riuscirci che ammantare di convinzioni l’infelicità che si vuole distribuire e prodigare. Per quanto prestigiose ne siano le apparenze, il proselitismo deriva pur sempre da una generosità sospetta, peggiore nei suoi effetti di un’aggressione patente. Nessuno è disposto a sopportare da solo la disciplina che pure ha accettato, né il giogo che ha consentito a portare. Dietro l’esultanza del missionario e dell’apostolo spunta la vendetta. Se ci si dedica all’opera di conversione non è per liberare, ma per incatenare. Non appena qualcuno si lascia irretire da una certezza, invidia le vostre opinioni fluttuanti, la vostra resistenza ai dogmi o agli slogan, la vostra beata incapacità di infeudarvi ad essi.
Arrossendo segretamente di appartenere a una setta o a un partito, vergognandosi di possedere una verità e di esserne schiavo, non ne vorrà ai suoi amici dichiarati, a coloro che ne posseggono un’altra, ma a voi, all’Indifferente, reo di non perseguirne nessuna. Per sfuggire alla schiavitù in cui è caduto lui, cercate rifugio nel capriccio o nell’approssimazione? Farà di tutto per impedirvelo, per costringervi a una servitù analoga e, possibilmente, identica alla sua.
(E. Cioran, La caduta nel tempo, 1964)
Perfino l’Inquisizione, la vecchia nemica dei philosophes, non bruciò più eretici in Europa dopo il 1781.
(N. Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Bari, 1969)
Cosa ci resta realmente di Voltaire? L’esempio della sua militanza, quello che potremmo definire la sua vocazione intellettuale all’intervento. Descartes e più tardi Spinoza scrissero al fine di modificare i metodi intellettivi ancora predominanti nella loro epoca; Voltaire accettò e radicalizzò questa modifica, estendendola non solo al modo di comprendere, ma anche a ciò che era già stato compreso. A differenza dei primi razionalisti, Voltaire non pretendeva semplicemente di modificare la nostra comprensione del mondo, né la condotta individuale del saggio nel mondo, bensì il mondo stesso. La famosa tesi di Marx, secondo la quale è necessario passare dalla comprensione del mondo alla sua trasformazione, ha in Voltaire un esplicito precedente, mirabilmente brioso. Prima di lui nessuno aveva mai dato conto con precisione tanto netta della forza rigeneratrice che può essere esercitata per mezzo delle idee sulla struttura opaca e abitudinaria della società. Nella conoscenza e nel pensiero orientato nella giusta direzione (Voltaire chiama le due cose insieme “filosofia”) esiste un autentico potere, un potere benefico e terapeutico che può alleviarci da quello dispotico dei governanti e da quello oscurantista degli ecclesiastici. Tuttavia questo potere filosofico va mobilitato, va fatto uscire dai libri accademici e portato per strada, bisogna trasformarlo in ariete e in bandiera. A questo scopo è necessaria una serie di condizioni che fino a Voltaire nessuno aveva saputo riunire coscientemente: una determinata visione storica, una fede razionale, una disciplina, uno strumento di propaganda e di polemica, un pubblico adeguato.
(F. Savater, Dizionario filosofico, 1995)
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2012 Roberto Roversi