Docuforum#0
Elisa Visentini, Docuforum#0, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 1, aprile/giugno 2012
“La vie meme prise sur le vif” è uno dei proclama che ha accompagnato la nascita del cinema. O, forse, darebbe meglio dire del cinematografo. “La vita colta sul vivo” era infatti uno degli slogan che circolava insieme alle prime proiezioni dei film dei fratelli Lumière, istantanee in movimento di avvenimenti quotidiani che altro non erano che una pionieristica documentazione video.
Che si tratti di vita colta sul vivo è forse l’unico criterio che ci siamo date nello scegliere cosa proiettare. Per il resto, i titoli sono venuti uno dopo l’altro, in ordine, seguendo un percorso più simile al flusso di coscienza che non ad una ricerca vera e propria. Non c’è nessun intento storiografico o di analisi: solo una proposta di esplorazione di un genere cinematografico che ha vissuto e continua a vivere – nella distribuzione ma non nella produzione, vivacissima – negli spazi residuali del cinema di fiction.
Oltre che all’esplorazione, vorremmo anche che fosse un invito alla proposta. A chi ha girato piccoli documentari, ma non trova spazi per proiettarli. Ma anche a chi, semplicemente, ha in mente una sua personale “playlist” e vuole condividerla.
Docuforum #0 | Proiezione #1
Cecilia Mangini, Firenze di Pratolini (1956) | Pier Paolo Pasolini, Comizi d’amore (1965)
“Gli devo molto io, ma tutta l’Italia gli deve molto. Il mio incontro con lui? Lo cercai sull’elenco del telefono per chiedergli di collaborare, e lui da uomo generoso quale era, accettò subito.”
Cecilia Mangini
Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini: un uomo e una donna, stessa generazione, che hanno saputo raccontare con sguardo intenso e personale il loro tempo – un’epoca di trasformazioni profondissime, in cui ormai inevitabile diventa il bisogno di esplorare il reale attraverso le immagini in movimento.
Sono gli anni del dopoguerra. Ed è l’esigenza di raccontare un’Italia sommersa, fino ad allora ai margini della storia ufficiale, a farli incontrare. Nascono così tre documentari, in cui l’estrema eleganza visiva della Mangini – raffinatissima, sensuale e “tagliente” allo stesso tempo – incontra la scrittura accuminata di Pasolini, che firma i testi del commento fuori campo.
Ne risulterà il racconto di tre “periferie”, in cui l’atto stesso di narrare diventa mezzo di partecipazione attiva al grande processo di cambiamento politico-culturale che era in atto. Vengono così catturate dalla cinepresa, uno dopo l’altro, le “zone sconfinate dove credi finisca la città, che ricomincia, invece, ricomincia nemica per migliaia di volte, in polverosi labirinti, in fronti di case che coprono interi orizzonti” (Ignoti alla città, 1958); i canti e le immagini della morte nella Grecìa salentina (Stendalì, 1960); le vicende di un gruppo di “ragazzi di vita” (La canta delle marane, 1962).
Vogliamo partire proprio da qui, per inaugurare il “ciclo zero” del nostro Docuforum. Da una regista – ma anche fotografa, studiosa di cinema e sceneggiatrice – che rappresenta uno dei rarissimi e fortunati casi di arte nata da una donna, nell’Italia maschilista degli anni Cinquanta. E dall’intellettuale che probabilmente più di ogni altro ha saputo leggere i cambiamenti in atto, vedendo in trasparenza ciò che sarebbe stato nei decenni successivi.
Li proponiamo insieme, nella stessa serata, per ricordare la loro intima vicinanza. Ma vogliamo frequentarli separatamente, restituendo la ricerca individuale e la personalità di ciascuno, come sceneggiatore e regista. Sullo sfondo, percepibile in entrambi i film, uno stretto avvilupparsi di cinema e letteratura, in un momento in cui – come non mai – così sentita e partecipata fu la simbiosi tra queste due arti.
Cecilia Mangini
Firenze di Pratolini (1956, 16’40”)
“Firenze di Pratolini è stato il mio secondo documentario, le vicende del primo, Ignoti alla città, erano state trucibalde: proibito per tutti dalla censura, poi selezionato per la Mostra del Cinema di Venezia, poi bruciato sull’altare della vendetta contro Pasolini autore del commento. Capirai, ero in tensione, guai a sbagliare.”
Girato prevalentemente nel quartiere di San Frediano, Firenze di Pratolini rende in pellicola le ambientazioni, i personaggi, le vite, che animano i romanzi fiorentini dello scrittore. Cecilia Mangini conosce bene la città: nata a Mola di Bari nel ’27, è proprio a Firenze che vivrà larga parte della sua infanzia.
Sono i luoghi più cari allo scrittore a guidare la narrazione per immagini, che segue il filo di un commento fuori campo scritto da Pratolini stesso, mentre la regista esplora – con procedere leggiadro, quasi sensuale, elegante, acuto – il quotidiano di una porzione di città che sta scomparendo.
Pier Paolo Pasolini
Comizi d’amore (1965, 89′)
“Ricerche 1 – Grande fritto misto all’italiana. Dove si vede una specie di commesso viaggiatore che gira per l’Italia a sondare gli italiani sui loro gusti sessuali: e ciò non per lanciare un prodotto, ma nel più sincero proposito di capire e riferire fedelmente.”
“In che senso il film è diventato un altro? Direi soprattutto nel senso che i protagonisti non sono più coloro che sanno, come chiamavo scherzosamente me, Musatti e Moravia e gli altri dotti […] ma protagonista è diventato il pubblico, cioè le centinaia di interrogati, con Arriflex e registratore, in tutta Italia. La loro vivezza, la loro spettacolare fisicità, la loro antipatia, i loro strafalcioni, i loro candori, le loro saggezze.”
Era il 1963. Pasolini – in viaggio per l’Italia alla ricerca di location e volti per Il Vangelo secondo Matteo – decide di dar forma ad un progetto che coltivava da tempo: conoscere le opinioni degli italiani su sessualità, amore e buon costume.
Mimando un cinema d’inchiesta, microfono alla mano, Pasolini costruisce così un mosaico in cui le voci di giovani e anziani, del nord e del sud, si alternano a piccoli simposi in cui a dialogare sono personalità rilevanti nel panorama culturale dell’epoca – da Camilla Cederna ad Alberto Moravia, da Giuseppe Ungaretti ad Adele Cambria, fino ad arrivare a Oriana Fallaci e Cesare Musatti.
Ciò che ne risulta è un’istantanea sulla morale nazionale in evoluzione, tra sacche di perbenismo, residua arretratezza, ignoranza e primi scricchiolii di nuove consapevolezze.
Docuforum #0 | Proiezione #2
Pietro Marcello
La bocca del lupo (2009, 76′)
“Non siamo partiti da una sceneggiatura – non credo che sia sempre essenziale scrivere prima, specialmente in film di questo tipo – ma si è proceduto nella costruzione del racconto in sede di montaggio, giorno dopo giorno.”
P. Marcello
“Nella primavera del 2008 è iniziata la preparazione de La bocca del lupo, ma solo verso la fine di quell’anno è nato il film. Il punto di svolta corrisponde al momento in cui Enzo e Mary hanno deciso di raccontarsi nel piano sequenza che li ritrae seduti l’uno accanto all’altra nella loro mansarda di Vico Croce Bianca.
È da lì che siamo partiti per costruire la storia: la loro confessione è stata uno spartiacque decisivo, la convergenza di un lungo, difficile periodo di avvicinamento alla città e a i personaggi.”
S. Fgeier
Dalle opinioni e riflessioni su amore e sessualità degli italiani degli anni Sessanta con Comizi d’amore, alla storia di UN amore, nella Genova di oggi: la seconda serata di proiezioni di Docuforum#0 ospita La bocca del lupo di Pietro Marcello.
Né film a soggetto, né documentario in senso stretto, La bocca del lupo è un poema visivo e sonoro di rigorosa bellezza ed intensa delicatezza, che dal reale parte e si nutre, trasfigurandolo poeticamente senza alcun tradimento o buonismo.
È Genova – con la sua storia, il suo vecchio angiporto e le vite che brulicano nei carrugi – a tenere insieme le due linee narrative che dialogano nel film, costruendo un continuo rimando tra “micro” e “macro”. Con le parole del regista, “Enzo e Mary rappresentano la ‘piccola’ storia, il presente, quello che resta, all’interno della ‘grande’ storia di una città. Il film ha una struttura circolare, articolata su più livelli. La ‘piccola’ storia di Enzo e Mary si intreccia con la ‘grande’ storia della città, della sua memoria e dei suoi abitanti. Le linee narrative nel film procedono compenetrandosi, dialogando o a volte sfiorandosi appena in un racconto che mescola linguaggi, stili, generi e materiali diversi.”
Quest’alternanza, visivamente, è segnalata da un costante fluire tra materiali di repertorio – girati in super8 da cineamatori genovesi per buona parte del Novecento – da un lato e le immagini che raccontano il presente di Enzo e Mary dall’altro. Il quasi onirico montaggio di Sara Fgeier procede per assonanze: “Dall’eterogeneità dei materiali organizzati abbiamo provato a dare vita con grande libertà a un flusso di immagini, legate da rapporti nuovi e inediti, che si costituiscono in un continuo e molteplice collegamento di tracce. Il montaggio ha un andamento contrappuntistico creato dall’inserimento di immagini provenienti da diversi contesti, dall’uso del rallentatore o dal succedersi serrato delle inquadrature. L’immagine è utilizzata come memoria attiva, come oggetto immateriale in grado di poter essere manipolato e utilizzato in funzione di nuove riconfigurazioni, di nuovi sensi, di nuove interpretazioni.”
Genova, 2 marzo 2010
“Caro Marcello,
sono molto lieto, se posso dire così, che sia molto difficile entrare in contatto con Lei […]
Elisabetta Pieretto Le avrà certamente detto, in ogni caso, che il suo film, a me, è piaciuto straordinariamente […]
voglio dirle un paio di cose:
1) il suo film, secondo me, è un caso raro di ripresa, molto efficace e calcolata e meditata, di elementi che trovano le loro radici nei tempi – per me beati – delle ricerche d’avanguardia […]
2) la congiunzione tra ‘narrazione e ‘documento’, per non dire la fusione, mi pare riuscitissima […]
Questo è tutto, e meglio è scriverlo, forse, per ora; poi, mi auguro, ci incontreremo; Genova, ormai, la conosce a perfezione;
con ammirazione e simpatia,
Edoardo Sanguineti”
Docuforum #0 | Proiezione #3
Alina Marazzi
Un’ora sola ti vorrei (2002, 55′)
“Ecco, facendo il film, e iniziando con quel disco, io ho ripreso il suo desiderio, interrotto, come la sua voce nel disco, come la sua vita, e l’ho fatto mio, perché anch’io le dico ‘Un’ora sola ti vorrei..’”
I materiali di repertorio costituiscono una delle due linee narrative che si intrecciano ne La bocca del lupo. Proprio da un archivio ritrovato – circa 60 pellicole, girate in 16 e 8 mm tra il 1926 e il ’72 – parte Un’ora sola ti vorrei, il documentario di Alina Marazzi che ospitiamo nell’appuntamento #3 di Docuforum#0.
C’è anche un altro legame – non artistico, ma defilato sul piano professionale – che va a costruire una sorta di assonanza di spirito (e non solo) tra i due film, pur nell’assoluta singolarità di ciascun percorso registico. All’epoca della realizzazione de La bocca del lupo – insieme a Dario Zonta, Pietro Marcello e Sara Fgeier – Alina Marazzi aveva creato l’associazione culturale L’Avventurosa Film, con l’intento primario di accompagnare concretamente la realizzazione del documentario di Pietro Marcello, ma anche con il più ampio scopo di studiare progetti che promuovessero la cultura del cinema indipendente e documentario.
“Un’ora sola ti vorrei
per dirti ancor coi baci miei
quel che tu sei per me…”
Insieme ricordo d’infanzia, desiderio, canzone, Un’ora solo ti vorrei è inevitabilmente anche il titolo del documentario di Alina Marazzi, oltre che sua effettiva durata. Così la regista ne racconta la nascita: “Mia madre è nata nel 1938 ed è morta nel 1972, quando io avevo 7 anni. Non ho molti ricordi di lei, ma ho sempre saputo che in un armadio in casa dei miei nonni era rinchiusa tutta la memoria visiva della nostra famiglia. In questo armadio sono conservate delle scatole di vecchie pellicole, filmati girati dal padre di mia madre tra il 1926 e gli anni ’80, con una cinepresa amatoriale 16 mm. [… ] Il film è la ricostruzione della mia personale ricerca del volto di mia madre, attraverso il montaggio dei filmati girati da mio nonno.”
Oltre ad echeggiare il nome di una celebre canzone del 1938, Un’ora sola ti vorrei esprime così, già dal titolo, i segni di un film sul desiderio. Il desiderio impossibile di Alina, che tuttavia viene messo in vita attraverso il montaggio di immagini della madre, girate dal nonno – l’editore Ulrico Hoepli – e “commentate” dalla voce della regista/figlia/nipote, che legge brani dei diari scritti da sua madre stessa. Un film corale, a suo modo.
“In tutto questo tempo nessuno ti ha mai parlato di me. Di chi ero, di come ho vissuto, di come me ne sono andata. Voglio raccontarti la mia storia adesso che è passato così tanto tempo da quando sono morta”.
Le uniche parole non scritte aprono il documentario, che si costruisce poi nell’utilizzo di tutti i mezzi espressivi, a cominciare dalla scrittura. È la scrittura delle lettere e dei diari che costituisce lo scheletro della sceneggiatura. Ci sono poi le canzoni dell’epoca, suoni originali registrati, rumori d’ambiente e pensieri ad alta voce. Si passa dal bianco e nero al colore, dalle immagini in movimento alle fotografie, al sovrapporsi di pagine scritte e documenti.
È così che Alina da finalmente volume alla voce di sua madre, facendola rivivere a tre dimensioni dai dodici anni fino alla sua morte suicida. “In un primo tempo ho lavorato solo al montaggio delle immagini, cosa che mi ha permesso di apprezzare ancor più la loro bellezza e potenza evocativa. In sala di montaggio, guardando e riguardando le immagini con Ilaria notavamo come quei “filmini di famiglia” non erano affatto immagini casualmente rubate ai momenti di vita famigliare: erano tutte sequenze in qualche modo “costruite”, coreografate dall’autore, da quel regista inconsapevole che era mio nonno. Come se il mezzo cinematografico, pur usato nel contesto amatoriale, fosse stato da lui utilizzato per mettere in scena una autorappresentazione di sé, della propria famiglia, della classe sociale a cui apparteneva. Non era semplice decostruire quelle sequenze, la forza del punto di vista del loro autore emergeva a fior di fotogramma ad ogni taglio… l’autore si imponeva con tutta la sua autoritarietà là in quella sala di montaggio, così come lo aveva fatto nella vita con la sua famiglia. D’altro canto le parole dei diari di Liseli contraddicevano tutta quella felicità che veniva ostentata nelle immagini; l’accostamento in contrappunto parole–immagini era la via da seguire e forse l’unica possibile. Come se le parole svelassero tutta la falsità delle immagini. Ci tenevo che le parole di Liseli avessero tutto lo spazio possibile – sono così belle! – per finalmente dar loro la possibilità di essere ascoltate. I miei interventi di scrittura sono minimi e solo all’inizio, necessari per dare avvio al racconto. La lettera che ho scritto per l’inizio, come se fosse Liseli a scriverla, serve a dare alcune informazioni, a presentare i personaggi della storia, ed attiva il dialogo con mia madre, dialogo mancato nella vita ma vivo nel film. Facendo mio il suo desiderio di trascorrere un’ora in più con me, attribuisco a lei quella lettera, e il desiderio di “essere raccontata” la propria storia. La sua e la mia”. È in questo modo che Un’ora sola ti vorrei si trasforma, e che da personale rielaborazione intima assume una valenza più ampia, di ricostruzione epocale di una fetta di società italiana del periodo.
Docuforum #0 | Proiezione #4
Tizza Covi, Rainer Frimmel
Non è ancora domani (La pivellina) (2009, 100′)
“Niente musica, perché con il sostegno delle note le emozioni arriverebbero agli spettatori in maniera troppo facile. Niente dialoghi definiti in maniera rigida, perché gli attori (non professionisti) devono poter scegliere quando e come dire le battute. Massima flessibilità nella gestione delle riprese, perché non si può ordinare ‘a una bambina di due anni cosa fare e dire, è meglio adattarsi alla situazione e al suo umore del momento’.”
Recensione al film di Valentina Alfonsi
Una bimba (che sia assente o presente nelle immagini), la complessa zona della maternità (che sia biologica o “d’elezione”), un piccolo gruppo sociale (che sia la famiglia tradizionale o una tribù più allargata): questo è tutto ciò che unisce la terza e la quarta proiezione di Docuforum #0 – Un’ora sola ti vorrei e Non è ancora domani (La pivellina).
“La nostra forza è quella di restringere il team al massimo; essendo solo in due, è più facile per noi entrare in mondi dove di solito è molto difficile entrare.”
Tizza Covi
Riuscire a filmare il vero pur tessendo una (labile) sceneggiatura addosso al naturale intreccio della vita reale delle persone può essere un modo più libero ed autentico di raccontare la storia di una piccola parte di umanità. Questo è quello che riescono a fare Tizza Covi e Rainer Frimmel con il minuscolo mondo dei lavoratori del circo, nel quale viene inoculata la presenza inattesa della “pivellina” – un impegnativo e meraviglioso “imprevisto” di all’incirca due anni di età.
Non è un documentario puro, La pivellina, quanto piuttosto una docu-fiction che tuttavia utilizza appieno il reale, riducendo al minimo gli interventi in sceneggiatura, eliminando gli artifici della messa in scena e modificando il meno possibile, nel racconto, la reale vita dei protagonisti – che interpretano se stessi. Il film “nasce proprio perché conosciamo i protagonisti da tantissimo tempo e sappiamo anche come vengono visti dall’esterno. Avevamo quindi questi due punti di vista”. La scommessa diventa allora quella di inserire in un microcosmo molto ben organizzato un intruso e raccogliere con la macchina da presa le conseguenze e i meccanismi che si possono scatenare. Ed è proprio qui che risiede l’unica parte “fiction” del film.
“Abbiamo questa intenzione di non adattare la realtà alla nostra scrittura, ma di essere pronti a registrare tutto quello che succede.”
Tizza Covi
Da molto tempo, infatti, i due registi frequentano il mondo del circo, prima indagandolo con il mezzo della fotografia – loro radice professionale –, poi attraverso il documentario (Babooska, girato nel 2005), infine, riuscendo a mescolare realtà e finzione senza tradimenti, retorica o furbizia, proprio grazie ad un’approfondita, vissuta e intima conoscenza. Deriva da tutto ciò questo film girato in Super 16, realizzato incredibilmente da una troupe di sole due persone che ricoprono insieme tutti i ruoli del cast tecnico, fino ad arrivare alla regia e alla produzione.
“Ciò che rende così convincente la storia di tenerezza narrata ne La pivellina è proprio l’assenza di tesi e di schemi ideologici nelle immagini del film. Covi e Frimmel non realizzano un panegirico sulla vita ‘povera ma bella’ delle comunità circensi, non hanno teorie da comprovare, né denunce da esporre nella pubblica piazza. Semplicemente mettono la loro macchina da presa (una cinepresa in 16 mm, molto meno ingombrante della 35 mm, ma anche molto più delicata e bisognosa di attenzioni e di filtri di una digitale Hd) al servizio di personaggi, oggetti, ambienti, situazioni che meritino di essere filmati e descritti nella loro quotidianità, per il semplice fatto che altri non lo hanno ancora fatto. Non è un documentario, La pivellina, ma è comunque realizzato con una prossimità realmente sentita e percepibile, frutto di un esserci e di un “depositarsi” nella baraccopoli di San Basilio [a Roma], da parte di Covi e Frimmel, lungo e complesso e pur sempre rispettoso dei suoi abitanti.”
Da una recensione di Marco Dalla Gassa
Docuforum#0 | Proiezione #5
Alessandro Piva
Pasta nera (2011, 54′)
“Questo è un Paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime. Perché noi ci diciamo tutto quello che di male facciamo, ma ci diciamo poco di quello che di buono facciamo.”
Luciana Viviani, organizzatrice
Il tema dell’infanzia ricorre anche nella quinta e ultima serata di Docuform#0. In Pasta nera sono infatti i bambini ad essere protagonisti, nel racconto per immagini di una vicenda straordinaria ma davvero poco conosciuta della nostra storia recente. Il dopoguerra che le fa da sfondo chiude poi “simbolicamente” il cerchio del nostro ciclo di proiezioni, ricongiungendosi idealmente con l’orizzonte temporale in cui si collocano i documentari di Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini, che hanno aperto questa playlist numero zero.
“Diversi anni fa stavo girando uno speciale per La storia siamo noi a San Severo. Con i curatori del programma avevo concordato un tema sul quale lavoravo già da tempo: le rivolte bracciantili del secondo dopoguerra nelle Puglie. Una delle persone intervistate era Severino Cannelonga, figlio di Carmine, un noto bracciante sindacalista coinvolto nella rivolta del 23 marzo 1950 a San Severo. Terminata la registrazione, Severino mi disse che avrei dovuto ascoltare una sua esperienza di bambino.”
Alessandro Piva
Il 23 marzo 1950, a San Severo (Foggia), centinaia di braccianti esasperati dalla miseria scesero in piazza per protestare contro le basse paghe e la concentrazione del latifondo nelle mani di una piccola oligarchia di famiglie. La rivolta fu duramente repressa, tanto che finì con un morto e 184 arresti. Su questa vicenda si innesta la riscoperta casuale di un vero e proprio fenomeno allargato, quasi contemporaneo ma di segno opposto, impastato di incredibile e spontanea solidarietà. Simbolo di quegli anni di affamata disperazione – soprattutto del sud Italia – era l’umile pasta nera, ottenuta mescolando biada e crusca di grano arso e spigolato nelle ristoppie.
“La prima notte che Franco ha dormito da noi, non riusciva a dormire, si agitava. Io gli ho chiesto ‘Franco, cos’hai?’ e lui ‘Non ho sonno’. Il giorno dopo si guardava intorno sospettoso. ‘Che cosa cerchi?’ e lui ‘Niente, niente’. Solo a pranzo, quando mangiò per la prima volta le tagliatelle, si rilassò e disse ‘Ci avevano detto che qui c’erano i comunisti affamati che mangiavano i bambini.”
Giovanni Berardi, 7 anni nel 1945
Era il 1946 e trentasei erano le ore di treno necessarie per raggiungere Milano da Roma. La Seconda guerra mondiale, da poco terminata, aveva lasciato devastanti strascichi di povertà, di cui soffrivano soprattutto i bambini. Spontaneamente, un gruppo di donne dell’UDI (l’organizzazione femminile del PCI) organizzò una piccola – ma epica per il tempo – migrazione, grazie alla quale molti bimbi meridionali furono accolti in alcune delle regioni meno affamate, in particolare l’Emilia Romagna e le Marche. Questa non è, però, una storia “di partito”: se inizialmente il PCI avrebbe voluto imporre di coinvolgere solo i figli dei suoi iscritti, le donne dell’UDI si rifiutarono, facendo in modo che tutti i piccoli denutriti potessero essere aiutati senza distinzioni.
“Arrivavano come scheletrini, e se ne andavano tutti belli bianchi e rossi”
Miriam Mafai, organizzatrice
Fu così che tra il 1947 e il 1956 più di 70.000 bambini attraversarono l’Italia in treno, suddivisi in gruppi di cento per carrozza, ciascuno con un cartoncino con il suo nome appeso al collo. Al loro arrivo, spesso la banda del paese accompagnava – in stazione – un gran numero di famiglie, già numerose, ma spontaneamente pronte ad accoglierli. Tra reciproche paure derivate dalla superstizione, presto scalzate, e dialetti diversi che dovevano in qualche modo comunicare, si formò così un vero e proprio movimento nazionale in grado di costruire là dove lo stato mancava.
“Le cose che raccontavano questi bambini erano come una lezione di geografia per le famiglie; è stato un rapporto che ha dato, ma ha anche molto ricevuto, dal punto di vista sentimentale come da quello culturale: da dove vieni, cosa fa tuo padre, come vivete, come passate le giornate, che tipo di divertimenti vi potete permettere… Erano due mondi diversi che si incontravano. E quando due mondi si incontrano, crescono tutti e due.”
Aude Pacchioni Organizzatrice – Emilia Romagna
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2012 Elisa Visentini