Jules Vernes, Viaggio al centro della terra
Stefano Cavallini, Jules Vernes, Viaggio al centro della terra, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 28, no. 8, gennaio/marzo 2012
È morto Carlo Fruttero. Ho letto la notizia pochi giorni fa, un trafiletto sbrigativo su un sito internet di cui non ricordo il nome. Copertina lilla d’un vecchio libro allegato all’“Unità”, impilato sul comò. Times New Roman nero per il titolo, Viaggio al centro della Terra, bianco per l’autore, Jules Verne, e i traduttori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini.
Chi sostiene la teoria scientifica, relegata, ma non ancora totalmente esiliata nella pseudoscienza, secondo la quale tutto è interconnesso a livello atomico e basti il nostro pensiero insistente su un avvenimento a realizzarlo, potrebbe accusarmi velatamente di omicidio. Il giorno prima della mia distratta incursione nell’interlink avevo appena finito di leggere Viaggio al centro della Terra e mi ero domandato se i traduttori fossero ancora vivi, quanti anni avesse e chi fosse Fruttero. Quali che siano le cause, sembra giusto onorare e sfruttare il caso che ha teso un filo ideale tra sporadica lettura quotidiana e letteratura senza tempo, tentando una veloce analisi del romanzo basata sulla postilla al medesimo dei due traduttori.
Le prime due parole, “un giorno…”, identificano subito l’impianto favolistico di fondo che rimanda automaticamente alla collaudata formula “c’era una volta…”, la cui universalità trova qui forza nell’indeterminazione iniziale dell’articolo “un” e nella vaghezza del termine “giorno”. Ma la data e l’ambientazione ci riportano al particolare, ricordandoci che siamo nel 1863 nella scientificissima Amburgo, e non nell’età dei cantastorie. Il cavaliere, lo scudiero, la dama delle grandi narrazioni sono sostituiti rispettivamente dal professor Lidenbrock, che del cavaliere ha la fierezza, la ricchezza materiale e l’acume, uniti a una più recente aura oltre-umana di ispirazione romantica (viene paragonato infatti al “funesto Aiace”davanti a un mare in tempesta, come in un quadro di Turner), dall’insicuro Axel, il nipote del professor Lidenbrock, che dello scudiero ha le fattezze esili, la giovane età e la caratteristica tipica di essere di aiuto al cavaliere con interventi insperati (il manoscritto) e infine dalla graziosa Grauben, figlioccia virlandese di Lidenbrock che divide con la dama la caratteristica di essere sotto la tutela del cavaliere, confinata in casa e in un ruolo marginale, il cui amore è però la forza che spinge lo scudiero, Axel, a partecipare all’impresa (come nei poemi, la figura femminile in ombra è spesso il motore, se non la causa principale dell’azione. Notare anche la presenza dell’elemento tresca dama-scudiero, che nel romanzo si trasforma in una innocente relazione, comunque osteggiata dal professore).
L’impresa ha lo spirito epico della ricerca mitica del Graal e della fonte della giovinezza, ma il corpo razionale di una spedizione scientifica fine a una nuova verità, basata sulla conoscenza oggettiva del percepibile attraverso la conferma o smentita di leggi teoriche. La figura totemica di Saknussem, l’autore islandese dell’antico manoscritto cifrato, contenente le istruzioni per arrivare al centro, sostituisce il millenario sistema della sacra ricerca reliquiale con gli antenati dei moderni scienziati, cioè gli alchimisti, che non vengono più visti come stregoni, ma come uomini di cultura in un ambiente che non ne possiede. Lo sfondo religioso si sgretola, traslando i suoi toni altisonanti a una categoria che nell’immaginario collettivo è abbastanza ammantata di quella superstizione e rispetto mistico per poter essere l’anello di unione tra potenza divina e scienza umana.
Saknussem non è un personaggio, ma un’idea, un cambio di prospettiva, un ibrido che dall’inginocchiatoio del fedele penitente porta al manometro e all’apparecchio Ruhmkorff del professore (infatti di Saknussem non sappiamo nulla che possa definirlo come persona reale, se non che è vissuto nel sedicesimo secolo e che tutte le sue opere sono state bruciate dal Sant’uffizio, come a rimarcare nuovamente il passaggio da religione a ragione). L’unica opera scampata al rogo è appunto il famoso manoscritto che il professore ritrova, secondo il più classico degli espedienti, in un vecchio libro di uno storico islandese, acquistato nella bottega di un certo Hevelius. Da sottolineare come il nome latineggiante del proprietario della bottega strida con la tradizione onomastica tedesca e rievochi per un attimo la figura archetipica del vecchio saggio dalla barba bianca, chino tra muri di libri al lume di candela, detentore di un antico sapere ed evoluzione diretta della figura dell’alchimista.
Il manoscritto è in runico, l’antica lingua dell’Islanda. Dopo averlo tradotto nell’alfabeto corrente, ottenendo una lunga fila di lettere senza senso, il professore ipotizza che il documento sia scritto in latino, essendo questa la lingua comune tra gli eruditi dell’epoca di Saknussem e basandosi sul fatto che “è press’a poco questa la proporzione tra consonanti e vocali nelle lingue del Sud” e che “Si tratta dunque di una lingua del Sud”. Si tratta ora di trovare una chiave per decifrare il crittogramma. La prima idea è quella di scrivere le lettere in verticale anziché in orizzontale, ma il metodo si rivela errato, almeno finché Axel per caso non osserva il testo così ottenuto, leggendolo al contrario da destra a sinistra. Da questo particolare punto di vista, quella successione inconcludente di lettere si trasforma in frasi di senso compiuto, rivelanti il punto in cui si apre l’abisso conducente al centro della Terra.
Dedichiamoci ora alla postilla di Fruttero e Lucentini, in cui si definisce Viaggio al centro della terra come «nato dall’incrocio di un vortice marino con un crittogramma». L’importanza del crittogramma è ben evidente, essendo questo il punto iniziale della narrazione; la presenza del vortice marino è invece celata sotto un’altra forma, sempre costante. Tutti e due gli elementi, come spiegano i due traduttori, provengono da Poe, in particolare da due racconti, “Lo scarabeo d’oro” e “Discesa nel Maelstrom”. Nel primo si narra come un uomo di nome Legrand risolva il messaggio di un’antica pergamena appartenuta a un certo capitano di marina Kidd, impadronendosi di un tesoro seguendone poi le istruzioni. La risoluzione del problema è molto più complessa che nell’opera di Verne, per questo ci limiteremo a indicare solo i passaggi in comune:
1) L’indecifrabilità del testo. In entrambi gli autori il manoscritto originale è formato da caratteri privi di significato. Nello “Scarabeo d’oro” il testo è composto da una successione di numeri, segni di interpunzione, parentesi, asterischi e minuscole croci. Il documento che si trova tra le mani Lidenbrock è invece in runico, che una volta tradotto, dà vita a una sequela di lettere a caso, certamente più familiari, ma dal significato oscuro.
2) Modalità di (de)codificazione.
Dobbiamo anzitutto dire che la pergamena del capitano Kidd non si presenta perfettamente intelligibile come quella di Saknussem. Legrand è costretto a pulirla con acqua calda e successivamente ad avvicinarla alla fiamma del camino, perché il calore renda visibile il messaggio vergato col regolo di cobalto. Il problema della lingua non si pone, grazie a un gioco di parole nella firma del capitano Kidd (che non sono riuscito a rintracciare nel racconto, ma immagino che sia Kid = ragazzo), possibile solo in inglese. Si tratta ora di trovare, per ogni segno, il grafema corrispondente inglese. Il protagonista inizia quindi a compilare una tabella in cui annota quante volte ricorre ciascun segno, traendone la logica conclusione che il segno più comune, l’8, debba corrispondere alle lettera dell’alfabeto inglese più diffusa, cioè la “e”. Si passa poi alla parola più comune, che in tutte le lingue indoeuropee, è l’articolo, ovvero “the”. Successivamente risulterà abbastanza facile, andando per esclusione, individuare le lettere iniziali o finali delle parole che hanno come corpo centrale “the”. Da questa base Legrand riuscirà a risolvere velocemente l’enigma e a trovare il tesoro. È interessante come il metodo adottato sembri elementare, ma per applicarlo in questo contesto è necessario conoscere a memoria l’ordine di frequenza di tutte le lettere dell’alfabeto inglese e avere una buona conoscenza dei composti chimici reagenti al calore, nonché della passata cronaca e leggende marinare.
Il protagonista si presenta insomma come il possessore di quella cultura che sottende l’intelletto tipico del lucido risolutore di enigmi, come lo saranno Dupin e Sherlock Holmes. Lo “scarabeo d’oro” ruota completamente intorno al problema del crittogramma, mentre in Viaggio al centro della terra la decifrazione del manoscritto occupa solo poche pagine, vista La sua relativa semplicità. Dopo aver stabilito che il testo è in latino secondo un ragionamento, “è press’a poco… Sud”, che rimanda idealmente alla tabella di Legrand, il punto cruciale è trovare il senso logico, ordinando le lettere dell’alfabeto. Il professore segue la prima idea che gli viene in mente, cioè scrivere le lettere in verticale anziché in orizzontale e questa si rivela subito giusta. Tutto è lineare e la fortuna si incarica di dipanare eventuali arzigogolature, aiutando Axel a vedere la chiave. Sembra che più che l’abilità conti il caso, o meglio la provvidenza (che rincontreremo nell’ottavo capitolo: “la Provvidenza non solo guidava i nostri passi, ma si incaricava di correggere gli errori di mio Zio”). Le capacità del singolo sono necessarie solo all’inizio, quando si tratta di tradurre dal runico. Tuttavia quelle del professore sono così evidenti da essere considerate quasi ovvie e scontate, inscritte nel novero delle normali conoscenze di un docente universitario, perdendo in parte la loro unicità e non suscitando particolare sorpresa. Questo accentua la sensazione che sciogliere il mistero della pergamena non sia, in fin dei conti, nulla di speciale. Naturalmente la si può vedere anche in modo opposto, cioè che l’idea di Lidenbrock di scrivere le lettere in verticale sia un colpo di genio innato e non di mera fortuna.
Per quanto riguarda la “Discesa nel Maelstrom”, Fruttero e Lucentini si dedicano per prima cosa a tracciare un veloce profilo storico dell’immagine del vortice marino nelle letteratura, collegandosi a una frase pronunciata da Axel nel terza capitolo: “era la facile discesa all’Averno di Virgilio”. Nell’analisi dei due traduttori il riferimento a Virgilio è indicato come fuorviante, perché Viaggio al centro della Terra non «deve nulla alle mitologie del sottosuolo». Le sue origini sono invece da ricercare nella smitizzazione rinascimentale dei leggendari vortici di tradizione Omerica come Cariddi, in favore di quelli ben più tremendi del Nord. Dal Mediterraneo si passa all’Islanda e alla Scandinavia, dalle cui coste fa la prima incursione nell’immaginario il Maelstrom, originariamente chiamato Moskotrom (dalla radice del latino mola). Nel Seicento la reputazione del vortice scandinavo si afferma e si diffonde la voce che le sue correnti impetuose abbiano scavato un imbuto così profondo da perforare la crosta terrestre. Il gesuita Kaspar Schott appoggia l’idea e sostiene addirittura che le navi affondate a Mosken passino sotto la Scandinavia e riemergano nel golfo di Botnia. Seguendo questa linea, a Praga, dopo un secolo, Casanova (per rinverdire le sue finanze) pubblicherà il libro “Icosameron” in cui i tre protagonisti, un professore e i suoi due nipoti, antenati di Lidenbrock, Axel e Grauben, vengono risucchiati da un vortice marino fino al centro della Terra, dove il viaggio si conclude noiosamente tra «una popolazione di “megamicri” alla Swift e alla Voltaire». Saltando due secoli si giunge poi direttamente a Verne.
Di Poe non si parla nella postilla, se non per dire che la sua “discesa nel Maelstrom” viene tradotta in francese da Baudelaire. Ci sembra una grave mancanza, perciò ne parleremo noi, gettandoci in un’analisi non accompagnati. “Discesa nel Maelstrom” inizia con un flashback, in cui il protagonista, un vecchio pescatore incanutito, racconta la sua storia ad un giovane, seduto su una scogliera a picco sul mare di tenebra norvegese che circonda l’isola di Moskoe, ( sicuramente Poe ha letto Kaspar Schott) stinta dalla nebbia.
Le parole del vecchio dipingono la scena sulla tela mentale del ragazzo. Stendono lo sfondo nero della notte, spruzzano il bianco lucente delle creste crepitanti di schiuma sul marrone dello scafo a prora, ingrossano le onde trasformandole nei cavalloni che investono il peschereccio. A bordo ci sono il vecchio e i suoi due fratelli. Presto la tempesta li avvolge, raffiche di blu scuro massiccio passano sopra le loro teste. Lentamente la corrente forma una spirale, un imbuto sulle cui pareti la barca scivola come una biglia: è il Maelstrom. S’inoltra vieppiù negli avviluppanti ascosi viscosi meandri acquorei, discende nell’atro tubercolo flegetontico turbinante di pervinca abbarbagliante, ma dati due corpi x e y di massa e volume equivalenti che si muovono di moto rettilineo uniforme su una circonferenza, un’ipotetica sfera o cilindro x ha velocità maggiore di qualsivoglia forma poligonale y (Archimede, “De incidentibus in fluido”). A conoscenza di questa legge, il marinaio si aggrappa a un barile e abbandona il fratello e la nave al loro destino. L’imbarcazione scompare nel gorgo, mentre il barile lentamente risale e ritorna alla superficie. L’uomo, esanime, sarà tratto in salvo dagli abitanti del luogo.
Le somiglianze con Viaggio al centro della terra sono molteplici. La rupe a strapiombo norvegese diventa in Verne lo Sneffels, il vulcano dal cui cratere si raggiunge il centro della terra. I colori grigi e il clima freddo accomunano i due paesaggi. Non è un caso che Lidenbrock e Axel incontrino durante l’ascensione una tromba d’aria simile nel nome (Mistour) e nella struttura al Maelstrom. La figura dell’imbuto, del budello circolare, questa volta di pietra e non d’acqua, è costante in tutto il romanzo. Il mare norvegese diventa mare sotterraneo e il peschereccio una zattera. Il nero della notte sotto le stelle (oscurate dalle nubi) è lo stesso che regna nelle cavità sotterranee. La lucida razionalità del vecchio pescatore davanti alle forze della natura è la stessa di Axel. Lo spavento, la confusione, la disperazione non riescono mai a sopraffare completamente il pensiero logico dei personaggi. La risalita in tutti e due i casi si compie attraverso un condotto verticale e sempre nello stesso elemento che ha caratterizzato in precedenza la discesa iniziale. Infatti Lidenbrock e Axel tornano in superficie sparati da un vulcano. La loro fortunosa salvezza ha un che di mistico, di religioso.
Ora vediamo bene il carattere del romanzo. La sacra Provvidenza si fonde alla fine con la scienza. Un’eruzione è infatti un fenomeno geologico e quindi scientifico, ma non risentirne gli effetti, pur facendone parte al pari dei lapilli, è una fantasticheria certamente irreale e possibile solo grazie a un’intercessione divina. Il collante di quest’unione è l’ironia, che pervade i dialoghi tra nipote e zio e plasma la straripante personalità di quest’ultimo, la stessa che ho cercato di usare io in questa disamina e la stessa con cui Fruttero e Lucentini concludono la loro postilla: «E per questo, fin dove quella luce arriva, abbiamo messo ogni cura nel tradurlo. Le opache digressioni e riempitivi li abbiamo invece soppressi senza rimorsi. Dopotutto lo stesso Baudelaire, che era Baudelaire, traducendo le Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quincey, che era De Quincey, non esitò a tagliarne via due terzi, noi abbiamo tagliato molto di meno.»
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