Bibliomanie

Le bestie nere del Tempo e dell’Aspetto in Inglese. Un approccio comparativo
di , numero 42, luglio/dicembre 2016, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Valentina Vetri, Le bestie nere del Tempo e dell’Aspetto in Inglese. Un approccio comparativo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 42, no. 2, luglio/dicembre 2016

Partiamo da qui, dal tempo: il Tempo con la t maiuscola, anzi. Ma quale tempo? Il Tempo filosofico o il Tempo della grammatica? In italiano non c’è differenza lessicale che aiuti a far chiarezza fra questi due concetti, che pure sono così ben distinti; ma gli inglesi, a cui piace la precisione, che respingono l’ambiguità quantomeno per esigenza comunicativa – lo vedremo bene nel cosiddetto “futuro” –, che amano dire le cose come stanno e si preoccupano delle interferenze di significato, gli inglesi, dicevo, distinguono eccome lessicalmente i due termini, cosicché le parole che definiscono l’una il Tempo filosofico e l’altra il Tempo della grammatica sono affatto diverse.
Ma facciamo un passo indietro; cosa s’intende qui per Tempo filosofico e per Tempo della grammatica? Ebbene, proviamo a spiegarlo in breve.
Il tempo che chiamo filosofico è un concetto astratto, universale; è una categoria del pensiero grazie alla quale possiamo ordinare – o perlomeno credere di farlo – gli eventi della nostra esistenza, registrandoli sotto le categorie del presente, del passato e del futuro; il concetto di Tempo, per quanto soggettivo dal punto di vista della percezione, ha carattere di oggettività nel momento in cui viene utilizzato universalmente (con l’orologio ben sincronizzato) per intendersi, comunicare, darsi appuntamento: tutti riconosciamo uno svolgersi cronologico del Tempo, e grazie a questo svolgersi oggettivo organizziamo le nostre attività; ora, a Bologna, mentre scrivo, sono le sei e un quarto: per il mio amico Corrado, che si trova a Roma, sono sempre le sei e un quarto: e questo – lasciatemelo dire – nel marasma della vita quotidiana, e nelle pur grandi difficoltà dei rapporti di amicizia, di amore e di vicinanza, è un punto di partenza di non scarso valore: io e l’amico possiamo non sentirci mai, non comprenderci nemmeno, ma almeno i nostri orologi segnano la stessa ora. Lasciamo perdere che le mie sei e un quarto siano, dal punto di vista della percezione, affatto diverse dalle sei e un quarto del mio amico Corrado. Noi ci limitiamo a registrare le lancette dell’orologio; a concordare sul fatto che ieri era l’ultimo giorno dell’anno, per esempio, e che domani – ecco qui che fa capolino il futuro – ci sveglieremo (sono certa a orari diversi) convinti entrambi che sia DOMANI. Non sottovalutiamo dunque mai l’importanza del “concordare” sulla data e sull’ora: possiamo metterci a disquisire sulla soggettività del tempo, sul fatto che esso sia in fondo una mera convenzione, ma su questa mera convenzione molto spesso si basano diagnosi poco piacevoli di demenza senile o di grave trauma cranico (la prima cosa che ti chiedono medici e paramedici è se sai che giorno è o in che anno siamo), e sulla perdita (angosciosissima) di questa mera convenzione si sono scritti e realizzati vari film, fra cui uno (Groundhog Day [1993], titolo malamente tradotto in italiano con l’espressione Ricomincio da capo) – quello che ricordo meglio – con il povero Bill Murray, che continuava a rivivere lo stesso giorno ogni giorno, consapevole lui solo di questa imperterrita ripetizione, circondato da altri ignari che, per l’appunto, rendevano ancor più sconcertante la solitudine del protagonista perché non condividevano tale convenzione: ciò per dire che potremmo addirittura sopportare di ripetere perennemente la stessa giornata, ma a patto che anche gli altri lo facessero.
Potere delle “mere convenzioni”.
Ecco quindi il Tempo filosofico: è un concetto che ci serve per vivere, né più né meno. E abbiamo detto poco?! Concordiamo di conseguenza tutti che passato, presente e futuro siano le tre declinazioni del tempo filosofico; e che di filosofia si tratti ne abbiamo la prova certa, quando pensiamo che vi includiamo proprio il futuro, e con esso tutti gli eventi che ancora non sono accaduti, di cui posso aver qualche sentore o che posso anche solo voler sperare: speranza e certezza fanno pari e patta nel concetto di futuro, così che la proiezione mentale e la certezza assoluta non sono distinguibili e soprattutto non hanno – dal punto di vista temporale – alcuna preferibilità: sono entrambe identiche, dal punto di vista temporale, indipendentemente dalla loro realizzabilità. Vogliamo capirci? Dal punto di vista del concetto di futuro, il Regno dei Cieli e la sveglia di domani mattina sono dentro la stessa categoria: appartengono entrambi al gruppo delle cose di là da venire.
Del carattere decisamente filosofico di questo nostro concetto di tempo abbiamo ancora una prova, ossia che queste tre declinazioni di presente, passato e futuro non si sa bene dove inizino e dove finiscano. Il presente cos’è? Un passato che corre, un futuro che fa capolino, una scheggia di vita che esiste solo nella sua trasformazione; fra passato e futuro, poi, c’è la differenza del giorno e della notte: una cosa passata che può essere anche di ieri ha la definizione e l’irrevocabilità dei secoli, mentre il futuro che mi figuro, che sogno, può essere plasmato, modificato, inventato. Il passato è un Matusalemme, il futuro un giovincello che si apre alla vita: tutto nello spazio di poche ore.
Dobbiamo dunque vivere con il Tempo, e nel Tempo; ma a noi interessa uno specifico campo della vita, oltre a quello relazionale di cui sopra: a noi interessa soprattutto il fatto che noi comunichiamo, pensiamo e soprattutto parliamo. Questa dimensione fatica e comunicativa ci interessa, perché è qui che entra in gioco l’altro concetto di tempo, ossia quello della grammatica. Io e il mio amico Corrado, infatti, nel più perfetto silenzio concordiamo sul fatto che sono le sei e mezza: ma poi il mio amico vorrà forse DIRMI qualcosa sulle sue sei e mezza, o sulle sei e mezza di ieri e sulle sei e mezza di domani: se il mio amico dunque si decidesse a uscire dal suo consueto silenzio e volesse, che so, scrivermi un messaggio su whatsApp (che registra poi puntualmente l’ora di ricezione e il momento esatto in cui il mio o suo messaggio diventano irrevocabilmente parte del “passato”, ossia quando vengono letti), ecco allora è il momento in cui il mio amico deve, volente o nolente, cominciare a servirsi della grammatica e cercare di far corrispondere al suo concetto filosofico di tempo quello linguistico; deve far ricorso per forza a un verbo (perché il solo sostantivo è ahinoi atemporale, sia detto senza offesa) e non al verbo all’infinito – ché l’infinito è non finito, appunto, e io in un messaggio all’infinito non ci capisco nulla –, ma a un verbo che si sposi perfettamente con il nostro comune concetto di tempo: un verbo grazie al quale io capisca in quale declinazione del tempo si è svolta una certa azione.
Ed ecco qui che il mio amico Corrado mi può dire, su whatsApp: “Ho fame”. Beh, di solito ha un eloquio più forbito e di cose più interessanti decide di darmi comunicazione, ma a volte ad un amico si vuol dire proprio quanto di più banale ci accada nella vita. Allora io leggo “ho fame”, e io e lui concordiamo che è suppergiù ADESSO che l’aver fame si verifica; lo desumo dal fatto che il verbo avere si trova nella coniugazione che solitamente, per prassi, attribuiamo al presente; mi scrivesse invece “avevo fame”, desumerei che l’aver fame risale a qualche non specificato momento del passato, grazie alla desinenza che indica tempo passato, anzi per essere precisi “imperfetto”. Una fame imperfetta dunque… beh, vedremo.
Potrebbe scrivermi, poi, “avrò fame”, pensando a qualche visita che dovrà fare in un ristorante di nouvelle cuisine. Entrerà con la fame e uscirà con la fame. E sento che i morsi allo stomaco non tuonano ora, ma sono cosa prossima a verificarsi.
Allora io e il mio amico, diciamocelo, ci capiamo – sempre in termini temporali ma non solo – grazie alla grammatica; la grammatica compie l’estremo atto di magia, quello di trasformare il concetto astratto di tempo che avevo nella testa in un suono preciso, che l’altro coglie e intende; è grazie alla grammatica, dunque, che non solo concordiamo su quando siano le sei e un quarto, ma che possiamo anche dircelo, quando ci diamo appuntamento, e comprenderci, e finalmente incontrarci, se almeno il mio amico perdesse l’abitudine di dare buca…
D’altronde noi sappiamo che il termine stesso, grammatica, ha molto a che fare con la magia e con l’alchimia. Deriva da quel termine, grammatikos, che indicava genericamente tutto il sapere, comprese le arti magiche, e che solo molto recentemente si è limitato a definire lo studio della struttura della lingua (che, ad ogni modo, continua per più versi ad essere magia e mistero); la parola glamour, come ricorda anche Roy Peter Clark in un godibilissimo volume, non è altro che un’evoluzione dello stesso termine.
C’è del magico, del meraviglioso nel fatto che la lingua nasconda un codice grazie al quale possiamo esprimere se non tutto quasi tutto; possiamo parlare di Dio, della Morte, del Tempo: possiamo incontrarci all’ora esatta, spiegarci l’amore, il senso dell’esistenza e dolerci di non trovarlo; solo grazie alla grammatica c’è un linguaggio comune di accettazione e comprensione della vita, solo grazie alla parola esiste un’umanità che si ascolta, che si fa la guerra, ma che si conosce, si comprende, e si spiega; è parlando – si spera comprensibilmente – che troviamo e riconosciamo le anime gemelle. È con la parola sbaglio e con la sua derivata abbaglio, che le rinneghiamo; ed è con le due parole più spaventose e ricche di meraviglia, che travalichiamo le tre declinazioni di passato, presente e futuro, rinchiudendole così in un concetto che va oltre il tempo: quando diciamo e promettiamo PER SEMPRE.
Dalla teoria alla pratica, dunque; o meglio, dalla teoria alla parola. Per comunicare abbiamo bisogno di un codice che rispecchi quanto più possibile i concetti universali di tempo passato, presente e futuro. E qui viene il bello; perché in italiano la trasposizione va liscia come l’olio, tempo (della grammatica) passato, tempo (della grammatica) futuro, tempo (della grammatica) presente; non andiamo tanto per il sottile. La distinzione fra tempo filosofico e tempo della grammatica non ci serve lessicalmente perché, in fondo, nella comunicazione verbale l’italiano mira semplicemente a specificare QUANDO un’azione si sia verificata. Ieri? Allora è passato. Due ore fa? Sempre passato. Cinque minuti fa? Ancora passato. Adesso? Presente. In questo periodo? Presente. Domani, fra un anno, fra cent’anni, nell’aldilà? Futuro. In italiano l’azione può svolgersi solo all’interno di queste categorie, che, per poter abbracciare più azioni possibili, sono piuttosto ampie. L’unico carattere distintivo, però, fra queste azioni – ripeto – è esclusivamente il QUANDO.
L’italiano peraltro – specie quello parlato – vive in una sorta di strano limbo, in una perenne sfumatura del presente, declinato a seconda delle sue esigenze; noi diciamo infatti “oggi vado, domani vado, fra un anno vado”: dunque presente e futuro sono quasi indistinguibili, specie se ci riferiamo a un’azione che abbiamo fermamente deciso di compiere nei giorni o mesi a venire; per quel che riguarda il passato, invece, prediligiamo ormai il passato prossimo (prossimo proprio nel senso di vicino), senza più interrogarci sulla correttezza dell’etichetta “prossimo” quando ci riferiamo ad eventi accaduti svariati lustri fa. E allora vada per “ieri sono andato, dieci anni fa sono andato, 30 anni fa ho visto”. L’italiano predilige il presente, dunque, per le azioni presenti e future, e il passato prossimo, quello più vicino possibile al presente, per le azioni passate. Come siamo attaccati al presente! Come ci piace! E d’altronde, carpe diem… Forse abbiamo l’impressione che il passato non sia perduto e che il futuro non sfugga, se riportiamo tutto a una dimensione di indicativo presente o di prossimità all’indicativo presente. Quale senso di perdita, quando si sente un definitivo, tombale, passato remoto: “DISSI”. Dissi s’impone, non si può tirare più indietro, bisogna assumersene la responsabilità; è molto meglio un “ho detto”, più timido, meno definitivo… e di solito preceduto da un “non”. (Pensiamo a quanti “non ho detto questo…” quando si litiga, si discute, ci si spiega! Non si può certo dire “non dissi questo”, poiché la definitività del passato remoto già ti smentisce: mentre tu neghi, non ti si crede, e nemmeno hai diritto al beneficio del dubbio; al contrario, con un passato prossimo si ha l’impressione di poter ritirare, modificare e – lo diciamo? – manipolare quanto si è detto. E l’altro che ci ascolta si mette già più di buon umore. E allora no, impegnativo, troppo impegnativo quel passato remoto).
Abbandonato, povero passato remoto… Lasciato solo a taluni volumi di storia, ai romanzi di Moravia e di tanti altri protagonisti delle “patrie lettere”, nonché agli affezionati utenti del Regno delle due Sicilie, ormai è relegato alla lingua dei morti. Che “venne, vide e vinse” lo diciamo solo di qualcuno che ormai è trapassato; ma se abitiamo ancora questo mondo, diciamo che “sono arrivato, ho visto, ho vinto”. E che perdita, però! Che differenza fra quel “Vinsi” con tutta la sua definitività, la sua magnificenza e l’orgoglio, e quel “ho vinto”, che pare l’esclamazione del vecchietto in tabaccheria, stupito davanti al gratta e vinci. A Cesare spetta un passato remoto e a noi, comuni mortali, un passato prossimo. E forse è giusto che questo tempo così meravigliosamente altezzoso resti privilegio di quelli che tutto sanno e tutto hanno visto. A noi ancora viventi può bastare questa speranza dell’attaccamento al presente: per parlare al passato remoto c’è sempre tempo…
Così l’italiano; ha il tempo presente, ha il tempo passato (remoto e prossimo). Ha il tempo futuro. Tempo della grammatica e tempo filosofico si confondono e si mescolano, hanno una perfetta corrispondenza, così perfetta da non necessitare di alcuna differenziazione semantica. Ma l’inglese?
Beh, diciamo che gli inglesi invece qualche distinzione la fanno.
Tanto per cominciare, gli inglesi distinguono lessicalmente il Tempo filosofico da quello della grammatica: il primo è detto time e il secondo è detto tense. Con time indichiamo quindi il concetto temporale universale, quello che io e il mio amico Corrado e il resto del mondo con tanto buon profitto condividiamo. Con >em>tense indichiamo invece il tempo della Grammatica, cioè l’applicazione linguistica e comunicativa al concetto universale di tempo. Il verbo, grazie all’aggiunta di suffissi o a modifiche nella coniugazione, mi renderà palese a quale concetto di time io mi voglia riferire. Se vorrò riferirmi al “present time” userò un verbo al “present tense”; se vorrò riferirmi a un “past time” mi servirò di un verbo al “past tense”. Se vorrò riferirmi al “future time”… mi toccherà arrangiarmi.
Qui infatti sta la prima e più importante distinzione (anche se non tutte le grammatiche la presentano come tale, rendendo a mio parere molto confuso e difficile l’apprendimento di un concetto che invece renderebbe l’uso del verbo inglese assai più facile e immediato), e cioè che per il popolo della sterlina il futuro non è un tempo. Come, non è un tempo? E allora che cos’è?
Mettiamola così: la grammatica, ben lungi dall’essere frutto di polverose annotazioni di topi da biblioteca, che già sadicamente immaginavano di torturare con declinazioni, casi e coniugazioni i futuri studenti, è cosa viva, che si modifica, e soprattutto che rispecchia la cultura, lo spirito e l’essenza del popolo che la parla. La grammatica è un po’ come la Coop: la grammatica sei tu.
Ricordo di aver detto a lezione tante volte che la grammatica non è diversa dalla moda: funziona nella stessa maniera… La grammatica esiste perché la maggior parte delle persone in una data comunità condivide il lessico e la struttura della lingua nella quale si esprime; la grammatica raccolta in volume rende conto di questa comunanza, e per quel che può la fissa, ad uso di chi voglia impararla, o meglio padroneggiarla; ma in sostanza la grammatica non la fanno i grammatici, i grammatici fissano su carta quello che noi abbiamo – negli anni, nei secoli – contribuito a creare e modificare. Ora, se una nota modella un giorno non ha voglia né tempo di tingersi la ricrescita e decide di presentarsi con mezza testa castana e mezza testa bionda, cosa succede? Succede che il giorno dopo mezza popolazione femminile decide di farsi mezza testa castana e mezza testa bionda, quando fino all’altro ieri la sola prima apparizione di un minimo segno di ricrescita era additato come la peste bubbonica. Oppure, se alcune modelle (ancora), la cui massa grassa si avvicina pericolosamente allo zero, pubblicizzano jeans non solo così aderenti da rendere impossibile la circolazione sanguigna, ma pensati in modo tale che l’orlo del pantalone termini a mezza caviglia, troncando così la gamba (che se non sei alta un metro e novanta sembra che le terga poggino direttamente sugli stinchi), dicevo, se queste modelle pubblicizzano tali pantaloni, cosa accade? Accade che il giorno dopo tutte, indipendentemente dal fatto che tali pantaloni donino loro o meno, compreranno quei pantaloni. Accade anche che altre, che sul momento hanno trovato orribili quei pantaloni, nel giro di qualche mese, a forza di vederli addosso a tutti e nei negozi e nelle riviste, beh, alla fine se li mettano pure loro…
Con la lingua funziona più o meno così, eccetto che per la volubilità con cui avvengono queste modifiche. La lingua cambia, ma lo fa molto più lentamente, ha bisogno di secoli e secoli di stratificazioni, anche perché (giustamente) c’è anche chi si oppone con energia, come sta accadendo ora con il “piuttosto che” non disgiuntivo; però, che lo vogliamo o meno, la lingua cambia, si evolve, e più sono le persone che iniziano a prendere confidenza con una certa modifica e la portano nel loro linguaggio, più la lingua si piega a queste modifiche, fino a quando non diverranno accettate nell’uso comune. Portiamo quindi sempre qualcosa di noi stessi nella grammatica. Chissà che non sia vero che noi italiani usiamo il presente o il prossimoalpresente perché vogliamo vivere nel carpe diem
Fatto sta che invece gli inglesi non sono molto interessati al carpe diem; hanno una loro Weltanschauung, che si rispecchia nella grammatica, nella costruzione verbale, nel lessico. E nel fatto che, per loro, il futuro non è – tecnicamente – un tempo. E come dargli torto? Una azione futura in realtà non esiste, esiste solo la possibilità di un evento nel futuro. Ossia, esiste certo il future time, ma non può esistere il future tense! La distinzione è semplice: dal punto di vista puramente filosofico, il tempo futuro (future time) è quello che io mi auguro, spero, programmo, perché esiste nella mia mente. Il tense, invece, esprime, grazie a categorie grammaticali, il “quando” di un’azione: un’azione può essersi verificata nel passato, o starsi verificando ora. Ho solo queste due alternative. Ma un’azione che ancora non si è verificata non può essere definita da un “quando”, perché ancora tecnicamente non esiste: la mia è una previsione, non certo un’affermazione oggettiva. Come posso definire il “quando” di un’azione che ancora non è, e che potrebbe non essere mai?
Se io infatti dico “sto andando” oppure “vado”, quest’azione è oggettiva. Se io dico poi che ieri “ho visto, sono stato, ho parlato”, quest’azione pure è oggettiva, può essere espressa con un tense, poiché è stata, ed è stata o è indipendentemente dal mio modo di guardare ad essa. Il presente e il passato sono dunque tenses perché neutri dal punto di vista della soggettività del parlante. Le cose si verificano ora o si sono verificate nel passato indipendentemente dal filtro soggettivo del parlante; ma ciò che può o non può verificarsi nel futuro è per forza filtrato dalla soggettività di chi parla, proprio perché l’azione futura che ancora non è, appartiene alla sfera della volontà, del progetto, della speranza, del timore, del sogno, o anche della predizione, tutti aspetti totalmente soggettivi e relativi al singolo parlante. È proprio per questa soggettività che al futuro manca la caratterizzazione tipica del tense, ovvero la neutralità che invece pertiene a tutte le altre azioni, passate o presenti. È dunque chiaro il motivo per cui il futuro, a differenza del passato o del presente, non si può esprimere con un verbo modificato da un suffisso (come avviene per esempio con il past simple) o che si modifichi, per esempio. nella coniugazione (come avviene nel presente, con la -s alla terza persona singolare); ed è anche chiaro perché allora non esista un solo modo di esprimere un’azione futura, ma tanti modi quante sono le soggettive letture dell’azione da parte del parlante. Ma se il futuro non è un tempo, che cos’è? Per gli inglesi il futuro non è un tempo dell’azione, ma un modo (modality) dell’azione, e si può esprimere in base alla maggiore o minore percentuale di possibilità di realizzazione della stessa: in fondo, il futuro è solo una possibilità, più o meno probabile, più o meno realizzabile. Non ha nulla a che fare con il tempo, ha solo a che fare con la possibilità.
Per capirci meglio, pensiamo alle previsioni del tempo. In Italia le previsioni del tempo suonano all’incirca così: “domani rovesci al nord con qualche schiarita”,“bello al centro sud” “in arrivo perturbazione sul sud est con probabili maremoti”. Con quale certezza ci vengono comunicati questi bollettini meteorologici? A ogni modo, con altrettanta certezza, il giorno successivo, qualcuno tuonerà che quelli delle previsioni del tempo dovrebbero cambiare mestiere, perché non ne imbroccano mai una… Ma per gli inglesi, per esempio, non funziona così. Se guardate il weather channel, i bollettini meteorologici non sono altro che percentuali: 20% possibilità di pioggia, 30% possibilità neve e cose simili. Ebbene, questa è di base la differenza di percezione del futuro fra noi e loro. Noi diciamo come SARà, e poi ci lamentiamo se non è così, come se la previsione fosse certa. Loro specificano che esiste il 20% delle possibilità che piova, il che significa che è una percentuale abbastanza bassa, ma non nulla. E il britannico superprevidente l’ombrello lo prende comunque, just in case.
Noi viviamo il futuro come un tense, così lo abbiamo grammaticalizzato e così ne parliamo. Il fatto che l’evento non si sia ancora realizzato non lo rende ai nostri occhi meno reale: una realtà temporale, non diversa dal presente o dal passato. Gli inglesi invece lo vivono come una possibilità (come una modality), come una scheggia della nostra soggettività, ma non come una realtà temporale; di conseguenza, si servono di diverse costruzioni per rendere il concetto di tempo, a seconda del grado di possibile realizzazione dell’evento: diverso sarà parlare di futuro, per esempio, se un’azione che sta per verificarsi è già in divenire, se dipende interamente dalla nostra volontà oppure se è solo una predizione senza basi fondate nel presente. Ora è chiaro perché tanto si insista sulle differenze fra will, going to, about to, etc.
Abbiamo dunque descritto la prima delle due differenze sostanziali fra l’inglese e l’italiano: i tempi inglesi e quelli italiani – due i loro, tre i nostri. Ci resta la seconda, che non è meno complessa, e riguarda il concetto di “aspetto dell’azione” o, in inglese, aspect.
Abbiamo detto che il “tense”, o tempo della grammatica, definisce il quando di una specifica azione. L’aspetto, invece, si preoccupa di specificare non tanto quando quell’azione sia avvenuta, ma in che modo si sia svolta. È stata un’azione durativa o puntuale? Era un’azione conclusa o nel mezzo del suo svolgimento? L’aspetto ci dice come, sempre dal punto di vista temporale, si sia svolta un’azione. L’italiano ha perduto, in parte, questa caratteristica del verbo: i due passati di cui abbiamo parlato, il prossimo e il remoto, specificano quanto lontano nel tempo sia avvenuta un’azione, ma non – per esempio – quanto sia durata o per quanto sia stata ripetuta. La differenza fra questi due verbi è solo la diversa prossimità che essi hanno con il presente; si parla dunque di passati più vicini e più lontani. C’è poi il trapassato, che è un passato lontanissimo, verificatosi prima di un altro punto di riferimento nel passato. Comunque, in italiano, si tratta sempre di problemi di tempo e non di aspetto.
Per la lingua inglese l’aspetto è, al contrario, essenziale. Se all’italiano infatti è sufficiente specificare quando un’azione è avvenuta per sentirsi a posto con la propria coscienza ed essere convinto di aver soddisfatto la curiosità dell’interlocutore, per l’inglese non è affatto così semplice. Bella facilità dire solo quando: io voglio sapere quando, ma anche come, vi dice l’anglofono. E non un come a caso. Voglio sapere se quest’azione di cui mi parli, nel presente o nel passato, è finita o meno, se ne vedo i risultati oppure no, se ha qualche relazione con il presente o se è completamente conclusa o se è ancora in divenire mentre parliamo; inoltre, gradirei sapere se questa azione, magari iniziata nel passato, continua ora o, magari, si è recentemente interrotta. Insomma, il grado di precisione è leggermente più elevato. Povero italiano, che credeva di cavarsela con quel “vinsi”.
Qui sorgono molte delle difficoltà dello studente italiano che si immerge nel mondo dei verbi inglesi: non è semplice tenere a mente l’esigenza dell’interlocutore inglese, che vuol sapere molto di più di quello che un italiano è abituato a dire. Per di più, si creano spesso delle false corrispondenze fra tempi dell’una e dell’altra lingua (per esempio PRESENT PERFECT e passato prossimo), nell’illusione di una falsa corrispondenza di significato e uso, con esiti nefasti a più livelli. Se qualche corrispondenza c’è – e vedremo che c’è – è su un piano più concettuale.
Abbiamo infatti omesso, non per un caso, di parlare dell’unico tempo italiano che possiede qualcosa in comune con il sistema dei tempi inglese: l’imperfetto. Questo è infatti l’unico tempo che in italiano ha mantenuto una sfumatura aspettuale. L’imperfetto infatti è un tempo che specifica in che modo un’azione sia stata compiuta nel passato: esprime un che di non concluso, che si protrae nel tempo, oppure qualcosa di usuale e molte volte ripetuto nel passato.
“Da piccolo facevo sempre…” , “mentre mangiavo, tu lavoravi”… l’imperfetto crea attesa, suspense nel passato. Oppure indica reiterazione, ripetizione, abitudine: questi sono modi dell’azione, sono aspetti dell’azione, e ciò significa che questo tempo, oltre ad offrire indicazioni temporali (l’imperfetto si può riferire esclusivamente ad azioni passate), fornisce anche informazioni sulla qualità di questa azione, sul fatto che è in un certo modo “imperfetta” nel senso di non conclusa, non puntuale, ma durativa o reiterata. L’imperfetto italiano ci aiuta allora a comprender meglio i due aspetti che l’inglese mette a fondamento del suo sistema verbale: il Perfect (guarda caso) e il Progressive (o continuous, che potremmo anche chiamare imperfetto). Tali aspetti, a seconda del messaggio che si desidera comunicare, vengono combinati con i due tenses: sceglieremo il Perfect quando le azioni a cui ci riferiamo hanno caratteristiche di completezza, di conclusione o, in altri termini, quando ne vediamo il risultato nel presente, le vediamo interamente nel loro svolgimento dall’inizio alla fine. Sceglieremo al contrario l’aspetto Continuous/Progressive, quando avremo a che fare con azioni incomplete, colte nel loro svolgimento, o ancora in corso, prima che diano frutto o risultato.
Vorrei soffermarmi un momento su questo concetto di Perfect/Progressive, perché è di fondamentale importanza per comprendere bene quanto sottile sia la costruzione del sistema verbale inglese, e quanto meravigliosamente precisa nell’espressione sia la lingua degli anglosassoni. Quante volte si sente dire che l’inglese semplifica, impoverisce, respinge le sfumature. Che, essendo una lingua che mira alla pura comunicazione, ha eliminato dal suo sistema lessicale e verbale qualsiasi complessità, mirando solo alla sostanza e scartando tutto quanto di più complesso (e di moralmente più elevato) ci sia nelle altre lingue. È una menzogna bella e buona! È vero, il sistema verbale inglese non è flessivo, ha solo la famosa -s alla terza persona singolare del presente; il passato non si coniuga, fatta eccezione per il verbo essere. Il congiuntivo esiste, ma è oramai di antica memoria, e si usa solo per certe costruzioni assai formali e per alcune frasi fatte (fra cui il famoso “God save the Queen!”: quel save non è certo un presente con dimenticanza di -s, ma un’esclamazione e un augurio, dunque un congiuntivo); ciò non toglie che l’inglese, nei suoi verbi, abbia tenuto stretto questo meraviglioso elemento dell’aspetto, che dona al sistema verbale una complessità di sfumature e un’eleganza unica, di cui si prende coscienza in special modo nell’atto del tradurre e da cui, spesse volte, si resta affascinati. Non limitarsi a dire quando, ma voler in tutti i modi anche come: questo porta con sé notevoli conseguenze dal punto di vista della comunicazione; in effetti, se non mi limito a voler dire quando ma debbo anche dire come, sono costretto a pensare alle cause, alle conseguenze, allo svolgimento di questa azione. Essa non è mai puro avvenimento che ha fine in se stesso, ma acquista significato a seconda della sua durata, dei suoi risultati e della sua relazione col presente.
La filosofia del tempo entra nella grammatica grazie all’uso dell’aspetto, e senza che noi ce ne accorgiamo l’inglese ci spinge a dire molto più di quello che avremmo detto in italiano, o meglio, a pensare e a ripensare meglio a quanto volevamo dire, a quanto c’era di implicito e a quello che ne segue. Perché quando scegliamo un aspetto Perfect, abbiamo la consapevolezza del fatto che quest’azione, di cui ora parliamo, è in un certo senso “perfetta”, conclusa, finita. Che la possiamo vedere nella sua interezza, e comprenderla per intero. E che le conseguenze ci aspettano dietro l’angolo. Se scegliamo un Progressive siamo invece costretti a interrogarci sulla precarietà insita in questa azione: è ancora in divenire e chissà quando finirà, oppure era usuale un tempo, ripetuta e ripetuta, ed è passata in secondo piano rispetto ad un’altra, più incalzante, azione. Chiederci in che modo?, per concludere, ci costringe anche a interrogarci sul senso dell’azione: per gli inglesi la natura dell’azione deve sempre essere espressa, insieme con la sua collocazione temporale. Essi la vogliono vedere tutta, non per comprenderne la sola temporalità, ma per accettarne e affrontarne la natura.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2016 Valentina Vetri