Sulle possibilità della composizione operistica comparate a quelle del teatro di prosa
Gian Paolo Faella, Sulle possibilità della composizione operistica comparate a quelle del teatro di prosa, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 50, no. 14, dicembre 2020, doi:10.48276/issn.2280-8833.5363
1. INTRODUZIONE
Si tratta, in queste pagine, soprattutto di constatare l’impossibilità dell’opera, e del resto di qualunque altra arte, di andare oltre certuni propri limiti strutturali. Per quanto riguarda la prosa teatrale, poi, d’indagarne la struttura antropologica originaria proprio per contrasto rispetto alla composizione operistica. Evidentemente, tale confronto fra tecniche artistiche abbraccia due specifiche difficoltà: in primo luogo, il fatto che si tratti di una questione di altissimo livello di astrattezza e, in secondo luogo, la circostanza per cui la considerazione dell’arte operistica non come interna all’arte musicale, ma come una sottocategoria del teatrale, potrebbe a buon diritto risultare in un non completo apprezzamento del suo valore estetico, o a uno spostamento di focus non del tutto giustificato dal punto di vista generale.
Tuttavia è proprio questo il primo caveat che qui si intende porre: non si tratta stricto sensu di enunciare proposizioni generali, ma di ricercare le condizioni concrete dell’azione che ciascuna tecnica rappresenta, come pratica tra le pratiche, per come emergono nelle differenze specifiche tra i vincoli estetici che le irreggimentano, consentendone l’espressività.
Uno dei “sogni” di ogni estetica è quello dell’identificazione o della definizione dell’”arte”, o della “vera arte”. Una simile questione appare naturalmente sfaccettata, anche a causa della completa eterogeneità di tutte le arti nelle loro relazioni reciproche, ciascuna delle quali nasce da esigenze, e da un rapporto con la vita reale, diversi. Tuttavia, la comparazione tra prosa teatrale e opera ha questo di speciale: essa mette in campo il rapporto tra quella che forse è la più naturale, e probabilmente anche la più imitativa, di tutte le arti, la quale consiste per lo più nell’enfatizzare ciò a cui si assiste, e quella più costruita, più artificiale, più sofisticata, dal punto di vista produttivo, la quale consiste nell’esplicitazione del virtuosismo del bel canto nel contesto della messinscena di un alto, o sublime, stile di vita emergente dalla finezza tecnica di scenografie, costumi, arrangiamenti. Esse, così diverse l’una dall’altra, sono però anche l’una la sotto-categoria dell’altra, in una maniera che appare massimamente importante qui.
Quando ci si chiede cos’è il teatro, si può tranquillamente rispondere con una qualche definizione astratta. Quando ci si chiede cos’è l’opera, si risponderà invece per lo più con il riferimento a una tradizione: quest’opera, o quest’altra, “sono” l’opera, o la sua quintessenza1. La ragione è che l’opera è un’arte composita – essa necessiterebbe, per essere definita, di una lunga e non facilmente univoca descrizione. Il teatro, invece, sembrerebbe un “mestiere” estremamente “semplice” da circoscrivere, al di là di qualunque sovrastruttura: quello di trasporre sul palco ciò che si osserva nella vita (o che ci si trova ad osservare, per meglio dire).
Eppure, perché chiedersi, in generale, che cosa sia un’arte, quando tutti quelli che sono alfabetizzati ad essa potrebbero tranquillamente conoscere, seppure forse soltanto implicitamente, la risposta? Essenzialmente, perché è a partire dalle domande radicali (e soltanto a partire da esse!) che è possibile rinvenire caratteristiche peculiari e non indagate di quelle arti stesse.
Il metodo usato in questo saggio è quello dell’intuizione. Non si è proceduto per analisi e contestualizzazioni esaustive, ma per successive immagini, o tracce, in un percorso avanti e indietro tra definizioni e ipotesi2.
2. SULLA NOZIONE DI IMMEDESIMAZIONE E SUL CARATTERE DEL COMICO TEATRALE
La principale caratteristica della fruizione dell’opera è l’immedesimazione dello spettatore in uno dei due più forti vettori di catalizzazione della passione: l’amore privato e l’amor di patria, che si trovano ad essere i due grandi temi della composizione operistica, concentrando su di sé l’acme della tensione teatrale3. Una simile immedesimazione ha poi come risultato finale una forma di catarsi nell’apoteosi della voce, la quale dà senso all’intero processo artistico in questione.
L’immedesimazione, nel campo vasto dell’arte teatrale, è di per sé sostanzialmente l’opposto di ciò che viene apportato dagli elementi meta-teatrali (le occasioni di “dialogo” tra chi è sul palco e chi è sotto). In particolare, va sottolineato che tutto ciò che è comico è essenzialmente meta-teatrale e viceversa. Ne consegue che all’opera è almeno in una prima battuta estraneo l’intero carattere del comico – ma non, ad esempio, quello del farsesco o del buffo. Se si registra tale estraneità, è soltanto per il ruolo assolutamente preponderante della musica all’interno della costruzione operistica, al di sopra di tutto ciò che è recitativo: proprio la musica determina un’emotività partecipata nella fruizione che spegne quel distacco derivato da un pendolo di possibilità che va dall’assurdo al realistico e che definisce il campo della comicità.
Se “il maggiore nemico del riso è l’emozione”, come affermava lucidamente Bergson4, quella particolare tensione che altera il “normale” fluire della voce umana consente al bel canto di operare in una direzione affatto diversa da quella indicata dal comico, nella determinazione delle modalità della propria stessa fruizione estetica. Il “comico” vero e proprio può eventualmente entrare nell’opera, per la maniera in cui normalmente la si descrive, ma esclusivamente sotto forma di una leggerezza del tono, come ad esempio nel “comico” mozartiano, che è in realtà propriamente un buffonesco.
E se vi è, perciò, una certa scrittura da commedia, nell’opera buffa, il suo risultato non è tuttavia comico in senso pieno (e dunque nel senso specifico in cui è comica una parte consistente della prosa). Si tratta, piuttosto, di uno scherzo, o di un contrasto di fondo creato a partire da una narrazione collocata su un tono leggero rispetto al necessario portato emotivo del continuum musicale, con tutte le conseguenze anti-metateatrali di quest’ultimo. Ma in tale contrasto è comunque la musica a dominare la fruizione, imponendosi sulla recitazione nel dominio dell’attenzione dello spettatore, come nel gioco degli specchi tra personaggi rappresentato nel Così fan tutte mozartiano: il buffonesco operistico abita – in generale – nel sorriso che si crea all’osservare come la caratteristica spinta emotiva rilasciata dal diaframma del cantante o della cantante, nonché la costatazione dello sforzo fisico e tecnico che essa richiede, non impediscono allo spettatore di cogliere gli elementi di vivace curiosità dettati dalla brillante giocosità dell’intreccio. Eppure tale non impedimento non è ipso facto una vera e propria facilitazione, tanto è vero che la spontaneità del riso, anche, dunque, in quanto contrapposta al sorriso, è per lo più inibita dalla presenza stessa della musica cantata secondo le modalità suddette.
Per quanto riguarda ciò che accade nella prosa, uno dei dati che è essenziale richiamare alla memoria è il fatto che l’attore non può ridere spontaneamente, pena la sospensione della teatralità dello spettacolo teatrale in corso. Proprio in tale circostanza giace l’origine del comico teatrale nella dimensione del meta-teatrale. Il che vale a dire: l’attore non può essere palesemente inconsapevole di star recitando, poiché questa è la prima – se non addirittura l’unica – regola dell’arte teatrale.
Egli può, però, parlare come se il pubblico non ci fosse, o, il che è quasi l’opposto, parlare con il pubblico: in entrambi i casi, in talune circostanze, genererà o potrà generare il comico, che, comunque lo si intenda, va interpretato come un pendolo tra opposte opzioni – ad esempio nell’ipotesi che l’attore faccia finta di non essere visto mentre fa qualcosa sul palco, e nell’ipotesi del tutto opposta che parli direttamente con il pubblico.
Invece il bel canto “impone” un registro comunicativo attore-spettatore completamente sopra le righe del quotidiano, il che, si direbbe, potrebbe generare già il riso nello spettatore, se non fosse il risultato di una codifica sociale complessa che presiede a quella forma artistica e che non prevede la spontanea irruzione dell’ilarità come reazione per il non realismo insito nell’esercizio stesso del bel canto, ma suggerisce piuttosto l’ammirazione per l’artificio. Il bel canto si presenta così già soltanto per questo come un’arte rituale, o ritualistica: come una serie di condizioni di fruizione codificate e “attese” a causa della continuità di una tradizione che si richiede allo spettatore di celebrare.
3. IL CARATTERE PURO DELL’ARTE NELLA PROSA TEATRALE E QUELLO SEMI-RITUALE DELLA COMPOSIZIONE OPERISTICA
La prosa teatrale nasce da circostanze assolutamente frequenti nella vita ordinaria: di fatto, l’essere spettatori, volontari o involontari, di una conversazione altrui, non partecipando in alcun modo ad essa – non sentendo di parteciparvi, in particolare. Ciò che si osserva può essere definito in termini più o meno astratti, naturalmente: l’idea universale dell’attesa stessa – dunque, un concetto – è oggetto di contemplazione nel Godot beckettiano, le più prosaiche, ciniche e livorose dinamiche sociali di una piccola cittadina mitteleuropea nella poetica di un Dürrenmatt, la riflessione psicologico-esistenziale dell’io con se stesso in alcuni passi del dramma shakespeariano. Questi tre livelli, così come infiniti altri, definiscono teatralmente e non semplicemente letterariamente talune possibilità autoriali in quanto si offrono alla possibilità di reinventare creativamente ciò che si è innanzitutto origliato.
Le circostanze ascoltate ed osservate vengono infatti sublimate in un’arte, esaltando e codificando quell’elemento di distacco dell’osservatore da ciò a cui sta assistendo. Ora, le ragioni per cui ci si può ritrovare ad assistere a un dialogo senza avere la volontà o la possibilità di giocare in esso un ruolo attivo sono le più diverse: ciò può accadere per casualità, o perché in quel dialogo si citano fatti privati o tecnici che l’osservatore non conosce, o per una forma di curiosità verso vicende altrui, o persino di malizia, o infine, ad esempio, per una condizione psicotica dell’osservatore che spettacolarizzi la partecipazione esterna a una conversazione. Il tono drammatico o comico di ciò che viene osservato non dipende naturalmente (o non dipende totalmente) dall’oggetto della discussione, quanto piuttosto dal modo di presentazione dell’oggetto stesso. Tuttavia ciò non è esattamente vero.
Alcuni atti, come gli atti violenti o ad esempio i suicidi, ma anche gesti esplicitamente d’amore, i quali per molti versi non si potrebbero “mai” compiere in pubblico (se non si stesse, appunto, recitando), fanno inclinare lo spettacolo intrinsecamente verso il tragico. Ma si ricordi ciò che si diceva a proposito del rapporto di alterità tra immedesimazione e meta-teatralità. Di fatto ciò che nella vita reale sarebbe nascosto e privato è massimamente tragico, in quanto genera una massima immedesimazione. L’assottigliarsi del “muro” che costituisce la separazione tra la scena e la platea, invece (senza che esso scompaia del tutto, tuttavia), che fa inclinare il tono verso la commedia e la meta-teatralità, può essere descritto anche come un mostrarsi sulla scena di una conversazione più vicina a ciò a cui lo spettatore potrebbe assistere nella vita pubblica o sociale. Il privato, dunque, o ciò che gli assomiglia, è la principale dimensione del tragico. Il pubblico, o ciò che sembra rifarsi ad esso, la prima traccia del comico.
Si consideri, perciò, la sotto-categoria del teatrale che è costituita dalla composizione operistica. Ciò che spicca, in essa, è la forte dimensione del “fittizio” (innanzitutto per la presenza stessa del bel canto, ovvero di una forma di iper-espressione rispetto alla “naturalezza” del vissuto quotidiano, ma poi, come si dirà, anche per altre caratteristiche), che impedisce la meta-teatralità o per altri versi la incentiva, almeno nel senso che ogni tratto di allontanamento dal realismo – ad esempio l’iperbolicità del tono, o l’iper-espressività – è di per sé meta-teatralità. Così, la categoria dell’operistico illustra bene talune caratteristiche di ciò che è in generale teatrale.
Come si crea, infatti, la teatralità, in una condizione di cornice istituzionale che non sia teatrale in senso tradizionale? La si crea, more comico, incentivando l’impressione nello spettatore di essere sul palco – id est, osservato a sua volta da altri. Oppure, more dramatico, la si crea costruendo un discorso che appaia troppo privato per essere plausibile in pubblico, ed esponendolo appunto al pubblico come tale e quindi nella sua assoluta non naturalezza. È evidente, perciò, che non c’è bisogno della presenza di un palco per fare teatro. Ma la questione è: c’è forse bisogno di un palco per fare opera? La questione è più insidiosa di quanto non appaia. La teatralità, nell’opera, appare al servizio dell’incrocio di pratiche che mostrino, inter alia, eccellenze nell’artigianato e nelle arti (costumi, scenografia, musica). La dimensione propriamente teatrale dello spettacolo operistico appare allora per certi versi giustapposta a tale primaria esigenza sincretistica rispetto a quelle abilità sociali.
Si consideri, perciò, l’irruzione dell’opera nel vissuto quotidiano dello spettatore, vale a dire al netto di una cornice istituzionale che “prepari” la fruizione, se comparata a una simile irruzione nel vissuto da parte di un performer di prosa. Il tono tragico della prosa appare sostanzialmente come il discorso di un folle, qualora irrompa nel quotidiano, laddove il tono comico della prosa stessa consegna il senso di una “perfetta” integrazione sociale da parte del performer stesso nel suo contesto di ricezione. Il discorso operistico, invece, non manifesta nessuno dei due effetti appena menzionati sul ricettore. Esso dà piuttosto il senso, sul piano sociale, di un’esibizione di capacità perfezionata, il che è del resto tipico di ogni performance musicale. Già questo mostra la non-naturalità dell’arte operistica in quanto spettacolo propriamente teatrale: il suo carattere che dal punto di vista teatrale appare rituale o costruito, fruibile soprattutto e, si direbbe, quasi esclusivamente, fintantoché eccellente nella maniera della sua produzione.
4. TRADIZIONE E SPERIMENTAZIONE, NELL’OPERA E NELLA PROSA, DA UN PUNTO DI VISTA DI ANTROPOLOGIA DELL’ARTE
Per le ragioni appena enucleate l’opera appare essenzialmente come una tradizione artistica, piuttosto che come un’arte (pura). Essa si costruisce, così, per consolidamento delle aspettative del pubblico attorno a fatti che non sono astratti dalla vita quotidiana, ma che si rifanno a una loro ritualità, vale a dire a una pretesa di adesione ad essi quasi per mera ripetizione o per un conformismo rispetto a simboli sociali. Si prenda il caso delle tematiche operistiche, così spesso incentrate, particolarmente nella fase “classica” sette-ottocentesca, sulla ripresa di eventi storici o di personaggi letterari del passato (si pensi al Macbeth verdiano o ai Nibelunghi wagneriani).
Si tratta, con tutta evidenza, della proposizione di una mitologia moderna costruita attorno a figure che emergono da una pubblica opinione “colta”. Perché questo? Essenzialmente perché vi è nell’opera una dimensione spettacolare e quindi “pop”, e la storia che si fa notorietà è appunto un tipico concetto che fa da sfondo alla produzione tipica della cultura borghese ottocentesca.
Sebbene, invece, nella storia della prosa teatrale ci siano state diverse fasi nella maniera di costituire temi teatrali (dalla commedia dell’arte, alla “mitologia” shakespeariana al realismo storico di un Büchner), in nessuna fase della sua storia il teatro di prosa moderno è stato esclusivamente o primariamente riproduzione sulla scena delle gesta di grandi personaggi di matrice storico-letteraria, e cioè che devono la loro notorietà ai sistemi istituzionali di istruzione o al discorso politico-giornalistico.
Il rapporto fra mitologia e costituzione dei soggetti da narrare appare perciò diverso in quelle due arti. Nel discorso operistico, in scena va essenzialmente l’immaginario borghese, come nell’orientalismo pucciniano, quasi nel tentativo di estendere il “noto” a classi progressivamente subalterne, e quanto più lontane dal ceto artistico per eccellenza da cui “provengono” quei “soggetti”, quello lato sensu aristocratico. Nel discorso teatrale di prosa, ci va dapprima l’immaginario popolare (nella commedia dell’arte), quasi in un percorso di acculturazione dal basso e di immissione dello spettatore in una serie di contenuti di comunità. Successivamente, altri oggetti vengono messi in scena, ma sempre semmai creando un immaginario letterario-teatrale, e non mutuando un immaginario evolutosi a partire da altre forme artistiche, culturali, massmediatiche o politiche.
Il “personaggio” e l’“evento” storico, o la “moda”, come nel caso pucciniano, sono allora pienamente tematizzati nell’opera anche nell’epoca tardottocentesca e primonovecentesca, nella quale la letteratura di un Marcel Proust o di uno Italo Svevo li aveva in un certo senso espunti dal novero di ciò che era pienamente dicibile con dignità letteraria. L’opera si costituisce così in un rapporto particolare con la scrittura della storia e della letteratura in generale, e con la dimensione “pop” della produzione culturale.
La nozione stessa del canone classico e della sperimentazione nelle due arti sarà allora completamente differente, e ciò innanzitutto per un’asimmetria di fondo: il costrutto operistico appare come sistema di aspettative sociali ritualistiche, laddove il costrutto di prosa appare come un’astrazione a partire da dati antropologici di fondo.
Di fatto, la tensione principale nella sperimentazione operistica appare quella tra esaltazione o al contrario annullamento del suo carattere propriamente spettacolare, nell’esplorare le contraddizioni possibili tra parole e musica. Si prenda la pratica del giocare con la memoria dello spettatore, come nel Leitmotiv wagneriano. Si tratta di un gioco possibile – quello di associare allo stesso personaggio lo stesso tema musicale, che ritorna nel corso delle ripetute apparizioni di quello stesso personaggio. Tuttavia, qual è il significato propriamente culturale di una simile forma di sperimentazione – o di gioco?
Di fatto la mente del fruitore, recependo in generale un prodotto musicale, riconosce le soluzioni compositive che sono state adottate, e lo fa su un piano astratto. Egli riconosce la capacità del compositore di rimodulare temi, stilemi o atmosfere, secondo una serialità che è caratteristica del linguaggio musicale. Ma tale serialità non è percepita invece dalla fruizione teatrale, la quale non è indotta per il riconoscimento di serie, ma per un progressivo “completamento” di un quadro, di una forma di vita. Il ricettore dello spettacolo teatrale apprezza essenzialmente, nella fruizione, la maniera in cui è stato progressivamente costituito un carnet di personaggi: in qualsiasi arte, del resto, non si apprezza immediatamente o definitivamente l’autore, o il compositore, bensì l’interprete.
Introdurre la serialità nel teatro, come nel procedimento wagneriano del Leitmotiv, era dunque una forma di sperimentazione che andò nella direzione dell’aumento o della diminuzione del carattere spettacolare – e quindi non propriamente, per dir così, “culturale” – dell’opera? Si trattò di un’opzione linguistica che entrava nelle contraddizioni fra teatro e musica, cercando compromessi che tuttavia non possono non apparire al ribasso. Sperimentazione, nell’opera, è dunque innanzitutto “gioco” con le ragioni della sua spettacolarità. Se non che in tale gioco non c’è il dramma che è tipico della ricerca intellettuale in quanto totalmente asservita alla sperimentazione artistica.
L’opera appare dunque, secondo quest’ottica, essenzialmente come una tradizione rituale incardinata in una precisa stagione storica delle forme sociali di produzione – la tradizione dell’ostentazione “esotica” di eccellenze artistico-artigianali, nell’epoca in cui l’artigianato diventava appunto esotico rispetto alle strutture produttive (strutture divenute tutte principalmente industriali), legato ai fasti della società borghese – non molto diversamente da come l’utilizzo degli anfiteatri romani era legato a una specifica stagione storica di predominio militare che metteva a disposizione esseri umani per il “macello” costituito dagli spettacoli dei gladiatori, il tutto nella direzione dell’evasione del pubblico.
L’opera è scontro, o contraddizione, sempre potenziale fra musica e teatro: si tratta, a ogni modo, di arti pure. La “canzone” verdiana deborda dal testo alla musica per finire alla scena. La rappresentazione scenica del motivo verdiano è così già “spettacolo” in senso moderno: commistione di ragioni per l’esaltazione, che vanno a rincorrersi nel prodotto finale, in un climax in cui non si sa cosa esattamente si stia apprezzando, dal punto di vista del fruitore. Questa contraddizione (questo incontro-scontro) tra musica e teatro genera genuini spazi di manovra suscettibili di essere esplorati, limiti che possono essere varcati. La presenza di tali limiti è di per sé artistica, poietica, perché vincola consentendo, ma il carattere ibrido di essi, collocati, come sono, tra due arti pure, non consente la limpidezza dell’indagine che nasca allo scopo di superare, o esplorare, quei limiti stessi. Tale sperimentazione, poiché ha l’obbligo implicito di essere conforme al proprio carattere spettacolare perché esaltante, non è ancora totaliter artistica, perché è gioco diretto con un immaginario che è stato già creato altrove e che rimbalza in mille rivoli, come nel “politicissimo” canto d’esordio del Nabucco.
La sperimentazione del teatro di prosa offre tutt’altra gamma di possibilità, in quanto si pone come continuo bilanciamento tra le diverse possibili origini essenziali per cui lo spettatore stia assistendo a quella determinata conversazione (o a quel determinato silenzio). Ogni opera nel teatro di prosa è mito dell’origine del teatro, nel senso che consente al fruitore di immaginare una diversa nascita dell’arte teatrale. Il discorso artistico dell’opera nasce già costruito, il discorso artistico del teatro di prosa si sviluppa come continua rinascita di quell’arte a partire dai propri discutibili fondamenti antropologici.
5. ESTRINSECO E INTRINSECO
Alla luce di quanto argomentato, la costruzione operistica appare, di per sé, un’arte relativamente estrinseca, laddove la produzione di prosa appare procedere per un movimento intrinseco all’atto creativo, sebbene sarebbe del tutto improprio raccogliere da questo tipo di analisi qualunque significato ingenuamente valutativo rispetto ad un’arte o ad un’altra. Tutto ciò non intende affatto assumere il significato di un giudizio nei confronti di qualcuna di quelle due arti, ma solo riflettere un intento classificatorio ai fini di una teoria delle arti stesse e dei riti della loro fruizione. L’arte, infatti, è un determinato rapporto di lavoro tra l’uomo e una certa materia, ma questa materia non può essere direttamente l’immaginario del fruitore. L’immaginario è piuttosto il risultato di quel lavorio di elaborazione e alterazione della materia pura, che raccoglie in se stessa l’elemento della mediazione. Quando l’immaginario (già prodotto altrove e recepito come tale all’interno di una determinata arte, senza che un lavoro creativo di rielaborazione sia stato posto in essere) è la stessa materia dell’arte, si sfocia essenzialmente nella spettacolarizzazione o nel voyeurismo dell’immaginario stesso. Sarà intrinseco, allora, ciò che attiene al movimento dell’artista verso la materia, ed estrinseco ciò che gli consente di raggiungere surrettiziamente un obiettivo senza aver precedentemente lavorato quella materia, ma passando unicamente per effetti di spettacolo che derivano dall’inconsueto o dal tecnicamente geniale – effetti del sublime, si potrebbe dire kantianamente5.
Tuttavia quello che qui interessa è distinguere due diversi livelli dell’estrinseco, i quali, contrapposti, denotano la differenza tra teorico-artistico ed estetologico. Il giudizio sulla composizione operistica tutta, che si è qui espresso, in quanto analisi dei meccanismi di rapporto tra individuo che crea e che fruisce e immaginario che essa innesca, è infatti un giudizio teorico-artistico di esteriorità, poiché dipende, in ultima analisi, da un’interpretazione di che cosa sia arte – in quanto opposta, ad esempio, alla nozione di rituale o più genericamente di “pratica”. Ebbene tutt’altra cosa è il rapporto tra teatro e sospensione della teatralità dovuta all’inserirsi nel discorso teatrale di una componente esplicitamente politica (il che è cosa completamente diversa dalla meta-teatralità, qui usata per una definizione biunivoca del comico), relazione che si configura come estetica, piuttosto che propriamente artistica.
6. L’ESTRINSECO TEORICO-ARTISTICO. LA MARSIGLIESE NELL’ANDREA CHÉNIER DI UMBERTO GIORDANO E L’IGOR STRAVINSKIJ DELLA SAGRA DELLA PRIMAVERA
Si consideri, ad esempio, la ripresa del tema della Marsigliese all’interno dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano. Essa introduce naturalmente, ogni volta che riappare, il tema dell’amor di patria, costitutivamente opposto, per le ragioni e nelle modalità di cui sopra, al tema dell’amore privato. La scelta di un determinato motivo, in questo caso, ha il senso di far ricordare all’ascoltatore una determinata associazione mentale: quella tra la rivoluzione francese e il suono della Marsigliese. Tuttavia, si confronti tale citazione con lo stile compositivo di Igor Stravinskij, nella Sagra della Primavera, largamente basato sulla ripresa giustapposta di temi popolari. Stravinskij non usa, come Brahms, motivi famosi: usa piuttosto uno stile popolaresco. In Stravinskij c’è una pratica rielaborativa, dal punto di vista compositivo. In Giordano c’è solo l’uso di un immaginario reso celebre dalla storia e dalla storiografia per come esso è. Quello che manca, in sostanza, è in questo secondo caso il lavoro sulla materia. Ciò, tuttavia, è costitutivo dell’opera, a causa del fatto che il contenuto propriamente musicale, nell’opera, fa continuamente riferimento a un contenuto verbale. Si ricorda la Marsigliese con riferimento all’espressione verbale “rivoluzione francese”. Ciò non accade in Stravinskij: non c’è passaggio per la verbalizzazione, secondo lo schema:
Motivo musicale – Verbalizzazione – Motivo musicale
Vi è bensì esclusivamente un rimando interno a una strutturazione del lavoro compositivo con la materia costituita dal suono. Il carattere dell’opera è quello di un (eventuale) citazionismo esercitato attraverso il tramite della verbalizzazione – di fatto, un citazionismo non rielaborato sul piano intrinsecamente musicale. Questo tratto determina un altro elemento estrinseco nella stessa operazione compositiva. Il continuo “passaggio” dal verbale al musicale e viceversa – pur nell’indubbia supremazia del secondo elemento sul primo – determina nella composizione operistica un doppio carattere estrinseco: vi è infatti un carattere estrinseco sul piano teatrale, determinato, come detto in precedenza, dall’applicazione delle capacità registiche e recitative unicamente ai fini di una fruizione essenzialmente musicale, e un altro carattere estrinseco sul piano musicale, dovuto al fatto che la presenza di personaggi sulla scena, ciascuno portatore di una “voce”, suggerisce al compositore di raccogliere attorno a costoro contenuti tratti da un immaginario “pop”, allo scopo di rendere ragione, attraverso la musica, dei contenuti verbali espressi dal libretto.
Tali elementi estrinseci, come appare evidente, sono dovuti alla necessità della musicalità di essere in funzione del teatro, e della teatralità di essere in funzione della musicalità.
7. L’ESTRINSECO ESTETICO. I DISCORSI POLITICI NELLA MORTE DI DANTON DI BÜCHNER
Tutt’altra categoria di problemi è prodotta da un altro genere di elementi che rimandano a un certo carattere estrinseco di essi rispetto al prodotto artistico di cui sono parte. Ci si riferisce, in questo caso, ai discorsi di contenuto direttamente politico presenti in opere teatrali come la Morte di Danton di Büchner. Ora, è chiaro che il discorso che abbia un contenuto direttamente politico presso il fruitore di un’opera teatrale è essenzialmente sospensivo della teatralità dello spettacolo, poiché tende a far evadere la tensione teatrale. Perché? Ciò che va chiarito è innanzitutto il significato della nostra espressione “contenuto direttamente politico”. Ciò cui si allude è il fatto che determinati contenuti verbali sono direttamente politici in quanto suscitano la passione politica di chi li ascolta, innescando in lui il senso del sublime non indotto artisticamente, ma per l’appunto politicamente. In questo senso, è piuttosto naturale che tali discorsi sospendano la teatralità. Essi, infatti, suscitano qualcosa di simile all’immedesimazione (di per sé, come si è visto, produttiva del tragico), ma non propriamente identico ad essa. Si tratta, di fatto, di un’immedesimazione non in una qualche condizione personale ed esistenziale, ma piuttosto nel sentirsi parte di una comunità.
Tale peculiare condizione della fruizione è però diversa dalla meta-teatralità. Chi fruisce di uno spettacolo teatrale “interrotto” dalla politicità di un discorso, infatti, si sente chiamato in causa da un lato nel proprio sentimento di responsabilità pubblica, e dall’altro nel proprio anelito alla partecipazione pubblica, tutte cose che lo incitano ad aderire o a sabotare, a seconda che sia in concordia o no con quanto viene affermato sul palco. Queste due “categorie” della fruizione impediscono quel distacco, definito dalla quarta parete, che separa spettatore e attore, in una maniera affatto diversa da quanto accade nel caso del meta-teatrale, il quale piuttosto certifica la presenza di quella immaginaria parete, per annullarla o assottigliarla, piuttosto che semplicemente negarla ab initio.
La natura del discorso “politico”, pronunciato in un contesto teatrale, rivela taluni tratti della teatralità in quanto tale: il carattere parzialmente ludico – l’opposizione a ogni senso di responsabilità – e il fatto della non partecipazione, vale a dire la circostanza in cui lo spettatore non si sente in alcun modo partecipe di quanto stia avvenendo sulla scena. Il fruitore, messo di fronte al testo buechneriano, “esce” così dalla teatralità avendo a disposizione due strade: quella che – da “destra”, potrebbe dirsi – conduce all’essere chiamati a esprimersi sulla validità di quanto viene detto, e quella che – da “sinistra”, secondo la stessa logica – conduce al sentirsi parte dello spettacolo come ci si sentirebbe parte di un qualsivoglia evento sociale di altro genere.
Appare chiaro, infine, che altro è l’estrinsecità estetica dell’opera, come arte, rispetto alle sue due principali “componenti” – il teatro e la composizione musicale – e altro è l’estrinsecità semiotica della politica rispetto alla teatralità qui descritta.
8. CONCLUSIONI: TRA ESTETICA E SEMIOTICA
Quali i limiti tra estetica e semiotica6? Si è messo in luce il carattere – all’apparenza – non perfettamente riuscito o, in ogni caso, “imperfetto” di singole opere (la Morte di Danton, in particolare, e l’Andrea Chénier), o di specifici aspetti di esse, con l’identificazione di caratteri estrinseci che le contraddistinguerebbero. C’è da dire che la stessa nozione “teleologica” di perfettibilità, intesa naturalmente non in senso valutativo ma puramente regolativo (Kant), è naturalmente collegata alla dimensione estetica e per nulla a quella semiotica7.
La ragione di questo giudizio? Si intendeva alludere a qualcosa di intrinseco – inesplicabile, indicibile – all’interno della creazione artistica: quella perfetta sinergia di materia e forma che essa soltanto rende possibile e attuale. D’altro canto, si è identificato anche il carattere – asseritamente e quasi per scherzo – non riuscito di un intero genere della scrittura teatrale, quello operistico, in quanto contrapposto soprattutto alla prosa teatrale, definita come arte pura. Qual è lo statuto epistemologico di una simile critica o valutazione, ci si potrebbe chiedere? Di fatto, ci si è mossi qui a vari e differenti livelli di analisi. Da un lato, si tratta di descrivere nella sua forma più generale l’esperienza della fruizione nell’opera e nella prosa, come già segnata da asimmetrie (nella prima), irregolarità; dall’altro, di segnalare particolari momenti o forme di una perdita di qualità artistica rispetto al concetto generale dell’arte – ammesso che quest’ultimo possa esistere, poiché esso non è stato qui definito.
Il problema generale sullo sfondo resta quello della distinzione dell’arte dagli oggetti dell’antropologia: le pratiche e la dimensione ritualistica dell’agire, con la sua psicologica coazione a ripetere. Ciascuna arte, in qualche modo, presuppone sempre che tutto sia riassumibile in essa. L’opera, invece, è apparsa essere come un incontro – relativamente “autentico” o “inautentico” – tra almeno due di esse.
Da un punto di vista antropologico, lo spettacolo non è ipso facto arte8. Esso è, piuttosto, industria del divertimento o dell’evasione o finanche della riflessione stessa. E la distinzione fra industria e arte diventa del massimo rilievo, proprio davanti alla paradossale ideazione di una forma culturale come quella operistica, che è appunto da interpretarsi come la più industriale di tutte, essendo la realizzazione del massimo grado dell’abilità artigianale e, in particolar modo, delle maestranze9.
Il peso delle tradizioni è estremamente rilevante per tutti i sistemi di aspettative che sono connaturati alla fruizione di ciascuna arte. Tuttavia le tradizioni stesse diventano fattori preponderanti, nell’apprezzamento di un’opera, di fronte all’eventuale sclerotizzarsi di altri fattori. Uno dei dati di fondo sui quali concentrarsi è che quando una tecnica non crea essa stessa un immaginario “nuovo”, le sue capacità di inventiva si atrofizzano di fronte al peso della tradizione, la quale satura tutte le aspettative riposte nell’atto di fruizione e di apprezzamento. Nel sottolineare il carattere anche spettacolare e non meramente artistico della composizione operistica, non si è inteso minimizzare il suo portato culturale, ma solo inserire un possibile tassello in un’ipotetica geografia tecnico-poietica delle attività umane.
Note
- Adorno considerava “mode” le forme d’arte che non corrispondevano al suo ideale e che non garantivano l’esercizio di un’assoluta originalità, come il jazz. Nel fare riferimento a una tradizione, si sta operando in una direzione forse non dissimile. Tuttavia i vincoli alla costruzione operistica e alla prosa teatrale che qui si intende segnalare hanno soltanto il ruolo di tentare di fornire una spiegazione dell’effettivamente esprimibile in un dato contesto di regole implicite, piuttosto che di rilasciare un giudizio critico su determinati prodotti o finanche generi. Si veda Adorno, T. W., Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955. Tr. it. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino, 2018, pp. 108-120.
- Il problema di una definizione generale dell’estetico è brillantemente discusso in G. Matteucci, Estetica e natura umana, Carocci, Roma, 2019. Proprio per questo, si spera che il metodo intuitivo e rapsodico qui proposto riesca a sfuggire all’accusa di ingenuo cartesianesimo, che Matteucci riserva ai suoi avversari “razionalisti”, in quanto attribuirebbero al soggetto un controllo assoluto sulle proprie attività (negando così il ruolo attivo dell’esperienza). Cfr. ivi, particolarmente alle pp. 73-76.
- Tutto ciò non accade certo per caso, ma per la funzione, per dir così, soggettivante che ciascuno di questi sentimenti comporta per chi lo prova o per chi ne è anche soltanto testimone, spesso offrendo alla fantasia di chi di soggetti si occupa, scrivendoli, la possibilità di mettere in scena la lotta fra di essi come emblema stesso del dubbio tragico. Il centro di attrazione del sentimento dell’adesione incondizionata che il bel canto sembra richiedere a chi ne fruisca è così l’esplosività della passione privata e, spesso contrapposto a questa, il moto all’azione (politica) suscitato da quella pubblica. Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, in tutta la tradizione verdiana, dal Macbeth alla Traviata.
- Cfr. H. Bergson, Le rire, in «Revue de Paris», 1 Feb. – 1 Mar. 1900, tr. it. a cura di Arnaldo Cervesato e Carmine Gallo, Il riso, Laterza, Roma-Bari, 2018, p. 6.
- Per la teoria del sublime cfr. Immanuel Kant, Kritik der Urteilskraft, Lagarde&Friedrich, Berlin-Libau, 1790, tr. it. di Alfredo Gargiulio, Critica del giudizio, Laterza, Bari, 1963, particolarmente alle pp. 91-199.
- Su questo punto, si veda il magistrale contributo di Barthes, R., L’obvie e l’obtus. Essais critiques III, Éditions du Seuil, Paris, 1982. Tr. it. L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino, pp. 42-61.s
- L’allusione è all’idea di idea regolativa, che emerge all’interno della dialettica trascendentale in Kant, I., Kritik der reinen Vernunft, Hartknoch, Riga, 1781 (prima edizione). Tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 251-255. L’idea che i prodotti artistici facciano da modello per la stessa idea di perfettibilità in generale è discussa nella parte della dialettica trascendentale dedicata alla teologia razionale. Si vedano le pp. 394-400.
- Talvolta John Dewey sembra “cedere” su questo punto, forse per l’estrema continuità tra la meraviglia generata dall’atto puramente espressivo e la fruizione estetica propriamente detta, insita nella sua analisi. Si veda Dewey, J., Art as Experience, Minton, Balch&C., New York, 1934.
- Per la nozione di industria culturale, si veda Adorno, T. W., Horkeimer, M., Dialektik der Aufklärung, Querido, Amsterdam, 1947. Tr. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010, pp. 126-181. In questo lavoro si è presa per buona la distinzione tra alta e bassa cultura, che gli autori in questione riconoscono, e anche quella tra industria culturale e cultura (spontanea) di massa. Si sconsiglia, tuttavia, di utilizzare il concetto di industria culturale in un senso nettamente spregiativo: la circolazione del valore non può interrompersi né perciò rifiutare di scendere a patti con la mercificazione “borghese”. Piuttosto il nostro punto era quello dello statuto dell’opera e della prosa, giocato, com’è, tra antropologia dell’arte ed estetica, e indipendentemente da un giudizio su come avvenga o debba avvenire quella circolazione.
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