CÔté Bach di Lucia Tancredi. La semanticità del messaggio musicale
Elisabetta Brizio, CÔté Bach di Lucia Tancredi. La semanticità del messaggio musicale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 27, no. 8, ottobre/dicembre 2011
La vicenda sulla quale si affabula in Côté Bach (ev 2009) è la storia di una rigenerazione, del tentativo di trasformare in altro uno stato stagnante dell’essere. Critico musicale, personaggio-protagonista che vive un momento di transito dall’irretimento nella sua logica inerziale dell’appagamento a una ingiunzione a disconoscersi, non è affatto casuale che resti senza nome fin quasi alla fine del racconto. Come segno che si ricompone nella propria recherche, Lucien è indotto a riconsiderare la propria esperienza e a tentare di affrancarla dallo scadimento nell’automatismo e da ciò che finora aveva creduto essere o interpretare: uno «specialista della rimozione», come egli stesso si definisce nella sua autopresentazione, in un esordio, dunque, per caratterizzazione diretta.
Inaspettatamente, per caso, in una spaesante flânerie – e un prologo siffatto dà la misura del peculiare proustismo del libro (là dove Proust è palesemente presente nel romanzo fin da un titolarsi tutt’altro che occasionale), del nesso tra imprevedibilità e destino, della necessità del caso, della casualità dell’incontro “fortuito e inevitabile” che finisce per innescare un imperativo, nonché del risuonare della baudelairiana poetica dello choc, “figura segreta” dell’arte e folgorazione del flâneur che mentre vaga per le strade di Parigi riconosce qualcuno tra la folla incognita – Lucien si imbatte con Marie, la donna del suo choc, avverte la sua presenza nell’eccedere della folla della metropolitana, a due anni di distanza dalla loro separazione. Agnizione che accade nel momento in cui gli viene commissionata una breve biografia di Bach. «È incredibile la leggerezza con cui andiamo incontro al destino», ed «è terribile quando la letteratura si incrocia con la vita vera. È come aver liquidato all’improvviso il tempo», argomenta egli all’inizio della storia, che è inoltre la storia di un inseguimento e di un deciframento, dell’inevitabilità di un nuovo apprendistato, giacché sono le cose che non si aspettano quelle che sorprendono e trafiggono fino al segno di orientare in maniera drasticamente diversa l’esistenza di ognuno. Per certi versi, come Gilles Deleuze scriveva a proposito della Recherche, vale a dire di un’opera volta al futuro piuttosto che al passato, anche questo libro della Tancredi si fonda sulle progressive acquisizioni che avvengono nelle tre intense settimane di apprendimento sulle quali il protagonista metodicamente ci aggiorna.
Nel Jardin d’Acclimatation di una Parigi non nominata Lucien osserva Marie: «c’è nella scena una bellezza di pittura, dita di sole si insinuano tra le acacie, lasciano a terra ombre azzurre come le avrebbe dipinte il pennello veloce di Renoir». Ella «non sta guardando nulla, sembra quasi essersi disposta per poter essere guardata»: assistiamo alla stilizzazione estrema della figura di Marie – creatura spiritualizzata e non effabile ai sensi –, come pure della rarefatta spazialità del giardino, avvolto in una lieve alonatura di sogno e di remoto silenzio meridiano ancorché extratemporale. Più che di voyerismo, siamo di fronte all’incantamento di un luogo estatico che ingenera sensazioni supplementari, e per la presenza di specifici elementi simbolici come la vegetazione “incantata” e la fontana – seppure allestiti in un contesto solare anziché notturno –, vagamente evoca lo sfondo intriso di favola del maeterlinckiano dramma simbolista Pelléas e Mélisande.
Nella linea di svolgimento del suo erratico e incalzante déchiffrement, il protagonista, un contemporaneo Valmont, figura epigonica nella sua urtante sazietà e nella noia (disposizione che lungo il romanzo trasmuterà da un generico spleen alla noia nel senso strettamente moraviano di imprigionamento nell’incomunicabilità, di incapacità di afferrare l’oggetto pulsionale), ragioni del suo attuale inaridimento spirituale, si chiede: «Se Valmont avesse voluto riconquistare madame de Tourvel, ce l’avrebbe fatta»? Paradossalmente, anche Lucien si trova a dover conquistare una donna che – benché fosse stata la sua donna – sente di non poter avere. Le relazioni pericolose di De Laclos è un romanzo-ossessione di Lucia Tancredi, stando alle sue stesse affermazioni in occasione di una delle presentazioni del libro. Accade talvolta con i personaggi della letteratura l’istituirsi di un rapporto empatico – “coniugale” diceva Gesualdo Bufalino – e di rifiutare l’epilogo della loro storia, di concepirlo differentemente, congetturando per i protagonisti un’altra occasione. In amore non contano la vanità o una reputazione da preservare, come in Le realazioni pericolose: Côté Bach si pone come provocazione nei confronti dell’affermazione secondo la quale la felicità è situata nell’appagamento sensuale. L’amore è qualcosa di ulteriore rispetto alla pura fisicità; senza banalizzare, è «avere qualcuno a cui raccontare». E la Tancredi desidera un’altra conclusione per i suoi personaggi, un esito che senza infingimenti con sé stessi si volga al ripensamento del valore esistenza. E lancia la sua sfida: fare di Lucien un anti-Valmont. Metaletteratura? Forse; intanto qui si ragiona sulla pericolosità dello scherzare in amore. E di metaletteratura si può parlare anche nella misura nella quale il protagonista dovrà scrivere una pur sintetica biografia bachiana.
Metatestualmente, Bach è punto di riferimento stabile e pervasivo del romanzo, non tanto per motivazioni estrinseche o estetiche. La biografia di Bach è il rovescio della vita di Lucien. Il trisavolo del musicista, Weit Bach, era mugnaio e accordava le note al ritmo uguale della macina del mulino. Una coincidenza predestinante: «la musica di Bach è buona, come il pane è buona», dice Lucien. Là dove il simbolo del pane diventa allegoria, e se rinvia alla quotidianità è anche allusivo della vita eterna. Una bontà che trattiene una implicazione morale che anima le cose apparentemente minimali di una devozione e di una forza emotiva inusuali ai più, in una destabilizzazione dell’omologato. Per Bach la quotidianità e il senso del divino avevano il medesimo valore sacrale, e la sua musica suona di questa osmosi.
Lucien mostra con intensità crescente tutta l’insofferenza verso lo stereotipo della propria esistenza, ne avverte la perdita della forza espressiva e l’adeguamento al cliché, alla convenzionalità. Si accorge che persino Marie in sua assenza è divenuta più luminosa, migliore nella sua aurea semplicità. Vivere «côté Bach», dalla parte di Bach, seguire la sua strada, convertirsi al suo metodo: come dire tornare alla essenzialità delle cose, ai turbamenti e alle ragioni del cuore, a una visione olistica e non «pornografica» (che sarebbe eminentemente polare, nella misura in cui enfatizza il dettaglio sorvolando il contesto) della realtà e dell’uomo. Viceversa, Marie «quando sfiora un dettaglio concepisce già un insieme»: attinge a un’altra prospettiva, guarda le cose ogni volta in modo nuovo e non selettivamente. «Voglio comporre dettagli in un insieme», dirà Lucien, nella sua risoluzione a emanciparsi dallo slegamento insito nella dimensione pornografica e deficitaria del vivere. E nell’andare, imparare a vedere ciò che si frappone tra le nostre distanze, aveva detto all’inizio della storia. Passare dall’adorazione di idoli fallaci alla riabilitazione del valore supremo dei sentimenti. Rispetto a Bach, Lucien misconosce la categoria della bontà. Con sua figlia Sophie seguirà l’esempio di Bach, e finirà per riconquistarla attraverso la musica bachiana. È il primo e decisivo passo per lo scioglimento delle proprie questioni private. Contemporaneamente vediamo accentuarsi la ricerca della parola circolare, «ronde, ritornante e conclusa per dire Bach», un varco per cominciare a scrivere, per «provare a fingere di vivere côté Bach». Per figurarsi un’altra occasione e procedere non elusivamente, ma in vista della trasformazione dello choc in esperienza vissuta, emendando gli inganni trascorsi, «come mia nonna che faceva matasse da lacere maglie familiari per realizzare maglioni perfetti in cui non c’era più traccia di nodi o sbrecchi». Con la determinazione a più non voler interpretare una parte, a redimere la propria assenza dopo averla praticata e permessa.
Tra esperienza e memoria, l’acquisizione di una nuova consapevolezza induce Lucien a riconsiderare le figure del padre (nella cui malattia percepisce il proprio mondo di silenzio), della madre, di Marie e dei suoi figli, a cercare anche attraverso uno sguardo retrospettivante le ragioni dell’ora, il senso degli accadimenti apparentemente irrilevanti, persistenti e non elaborate ombre dell’accaduto, ma anche quello dei devastanti fatti del presente, come la malattia e la morte del padre. E forse va rilevata la non marginalità dell’indissolubilità della diade amore e morte, sempre nella circolarità cui si accennava: Lucien ritrova Marie in occasione dell’agonia di suo padre. C’è forse un parallelismo tra questo evento e la funzionalità della prematura scomparsa del padre di Bach (nella cui vita, pur nell’avversa sorte, tutto sembra avvenire «al posto giusto e nel momento giusto», come nelle vite dei santi), circostanza che ha inibito l’orientamento di Johann Sebastian verso gli archi, lasciandolo alla sua autentica vocazione. «Mio padre sta morendo. – pensa Lucien – A cosa è funzionale?».
La pulsione emancipativa dallo stereotipo, antidoto contro ogni dimensione pornografica e settoriale del vivere, passa attraverso illuminanti conversazioni che cooperano in vista dell’apprendimento di Lucien: con l’uomo della chiesa, con l’amico filosofo, con Miranda, con il padre agonizzante, e soprattutto con Sophie. Insieme al ritrovamento di Marie avviene il rinvenimento della parola ronde (ancora, proustianamente, e deleuzianamente, i segni dell’arte recano una maggiore pregnanza, dato che, essendo essi posteriori rispetto a quelli della vita, ci mettono nella posizione di risemantizzarla tenendo conto dell’insieme degli inganni e delle incongrue inferenze dell’esperienza) il nome, BACH, «tetracordo di quattro note musicali (…) vicino alla sua origine, perfettamente aderente alla sua forma». Il tetragramma del nome Bach – associato al tetracordo delle teorie musicali pitagoriche – sembra implicitamente connesso al tetragramma, il sacro nome, quello innominabile e sacerrimo di Jahveh, JHWH, che con Bach ha anche una parziale assonanza-consonanza, legata in parte proprio alle vocali, che in ebraico non si scrivono – e per l’esattezza all’Aleph, l’origine prima –, e dunque fondata su un’assenza, un vuoto, un’ombra, una opacità ermeneutica.
E soltanto in seguito alla agnizione della parola ronde il protagonista svelerà il proprio nome, che suo padre aveva voluto anonimo, senza significati incorporati, dunque senza ulteriori responsabilità implicate. Al contrario del proprio, Samuel, derivante da Shem, che in ebraico vuol dire ascoltare, e che è anche il nome per eccellenza, quello divino. Il nome Lucien non significa nulla, pur evocando la luce – potrebbe anche adombrare quello di Lucia, il nome dell’autrice di questa storia: quasi un amuleto di sillabe che ella associa al protagonista perché lo supporti nel rettificare l’inammissibile epilogo della storia di Valmont. Vi è sottesa una dialettizzazione tra luce e tenebre, conoscenza e oscurità, assoluto e vuoto. Come l’En-Soph di cui parlava la Cabala, che è appunto infinito, e insieme nulla, voce divina, dunque fondante e assoluta, ma anche silenzio, dal momento che il nome e la sapienza divini sono inconoscibili, e dunque non effabili. Così anche la vicenda del protagonista, pur giungendo a una soluzione, resta comunque indecifrabile, come in fondo quella di ognuno di noi. Musica per Bach, Cabala per le parole in ebraico. Per Bach le note corrispondevano a lettere: e chissà che non sia stato proprio per questo che i tedeschi hanno, prima e meglio di altri, sentito e sviluppato – come poi farà Debussy in modo eminente – la semanticità del messaggio musicale, il fatto che la musica sia portatrice di significati, oltreché di sensazioni, percezioni, stati d’animo in un unicum con la parola significata.
Le pagine di apertura e di chiusura del libro riportano due suggestive foto di Sebastiana Papa: quasi un incontro di mani nel tempo pare raffigurare la prima, un procedere speculare laddove il tempo dell’attualità è arrestato nell’atto di accingersi a suonare il pianoforte. Quasi un moltiplicarsi di mani nei marcati riflessi della seconda, nei cui effetti speciali viene scongiurata l’idea della solitudine che inerisce al pianista-solista. Ennesimo correlativo del labilissimo confine tra la sfera dell’arte e quella dell’esperienza, ambiti solo esteriormente remoti che anche in quest’opera affluiscono e interferiscono nell’esemplare convergenza tra il diegetico, l’iconografico e lo scritturale.
In quanto alla scrittura di Lucia Tancredi si può legittimamente parlare di una tonalità “barocca” che la contraddistingue. Una scrittura costruita su equilibri incessantemente perseguiti, stratificata e insieme impalpabile, fortemente evocativa di suoni, di immagini, di ricordanze pluriverse, tramata – infraleggendo – di riflessioni, di rapidi trapassi analogici e di rimandi alla letteratura, alla musica, alla pittura. Nondimeno – e qui sta la sua peculiarità –, malgrado le frequentissime transcodificazioni, la forma debolmente diaristica e l’esattezza nomenclatoria di innumerevolisimi lemmi e forme aggettivali, il testo si qualifica in virtù della sua intrinseca organicità strutturale. Non si avvertono fratture negli sbalzi della trama tra Lucien che parla al telefono con sua figlia Sophie o che rievoca la vita di Bach. Uno stile barocco, ma di un barocco mimetizzato, non artificioso né manierato, sintesi di limpidezza e di razionalità, sottigliezza di pensiero e nettezza di contorni: considerazioni sulla musica, liricissime descrizioni di luoghi, flussi di coscienza e dialoghi – nonché gli stessi fondamenti che promuovono l’istanza narrativa, inconseguenti ma l’un l’altro interferenti – trascorrono sinestesicamente e riconfluiscono nel continuum uniformante della fabulazione. Sebbene tra i vari piani del racconto si istituisca una disomogeneità di ritmo e di inflessioni che dà luogo come a una fuga di segmenti, di luoghi, di effetti retrospettivi, di referti anacronici e di digressioni (che tali propriamente non sono in quanto parti integranti dei pensieri di Lucien, dunque sezioni massimamente esplicative della trama), si verifichi, in altri termini, una trasferibilità di motivi per un ampliamento delle risonanze nella costruzione di simmetrie dislocate, il lettore stenta a riconoscere i differenti livelli espressivi, perché tutto confluisce, nel progressivo scioglimento della suspense dell’azione narrativa, convergendo a definire una prospettiva unitaria.
E ancora: come in Bach uno stesso motivo viene ripreso in contesti diversi, così accade con le figure attanziali di questo romanzo, che sono, ciascuna, portatrice di un’idea e di uno sguardo che le rappresentano in altre gradazioni a seconda delle situazioni e delle sfumature, alla maniera in cui nella polifonia imitativa bachiana un motivo (che, come detto, può assumere anche un valore simbolico e semantico, giacché le note corrispondono alle lettere), o la sua immagine speculare, riappaiono in voci e posizioni differenti, ampliati, variati e diversamente armonizzati. Nella musica di Bach, come in questo romanzo, i motivi si rincorrono, si cercano, si incrociano, si specchiano e si fanno eco a vicenda alla ricerca di un senso generale che si svela, e al contempo si cela (si rivela come significato e si nasconde come senso, o viceversa), per chiarificarsi solo alla fine, nella compiutezza e nell’armonia complessive che poi si irradiano, retrospettivamente, su tutto l’insieme della composizione. Lo stesso si verifica, se vogliamo, in Proust con la “piccola frase” della sonata di Vinteuil, frase che è quasi allegoria del senso stesso dell’opera, il quale, disseminandosi in pagine e pagine, solo alla fine sembra aver trovato – o dà al lettore l’illusione di poter trovare – la propria forma e la propria identità. Analogamente, nelle Variazioni Goldberg, in cui l’Aria iniziale e finale, con la sua struttura circolare, sembra evocare proprio il senso profondo, virgineo e infinito, della nostalgia, la perdita e il ritrovamento – e insieme l’apertura dell’anello dell’eterno ritorno, l’eternità che entra nel tempo attraverso il ritmo disteso e fluente, e insieme rigorosamente scandito e disciplinato della musica.
Nella snervante e nevrotica tensione che lo anima nel suo inseguimento di Marie, mentre furtivamente scruta tra i libri di lei nella casa vuota, Lucien definisce Marie «la fuggitiva», come Proust aveva designato Albertine, e se la raffigura come nell’immagine ovale e virata seppia della copertina del sesto volume dell’edizione italiana della Recherche: «rimasta bloccata per incantesimo nella sua fuga in un vuoto leggero. È l’immagine di Marie come è diventata». Un ammiccamento dell’autrice o una svista? Sicuramente una raffinata e affettuosa intrusione da parte della Tancredi, essenzialmente e intimamente proustiana. Ma anche l’effigie della nostra vana illusione di possedere l’essere amato («quante volte il mistero ci ha adescato perché aveva uno sguardo estraneo e familiare allo stesso tempo», pensava Lucien in seguito al fortuito avvistamento di Marie) e di un determinarsi non enfatico del senso che ascriviamo alla nostra esperienza, nonché dell’ingannevole impressione di poter sequestrare il tempo perduto. Un’altra Marie e un altro Lucien saranno i protagonisti – ormai altrimenti caratterizzabili – della prosecuzione di questa storia, che con il ribaltamento della prospettiva di Valmont non sembra prevedere alcuna “end of the road”. Come lascia intendere l’autrice attraverso le parole conclusive della lettera di Marie, che l’amica Miranda, a chiusura del racconto, farà leggere a Lucien: «Quando ci ritrovammo, non c’era niente da spiegare. Entrare nell’essenza semplice dell’amore è come dormire – morire forse? – per svegliarsi quando le cose cominciano.»
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