Una sentinella della virilità. L’omofobia maschile come baluardo di un ordine di genere tradizionale
Sandro Bellassai, Una sentinella della virilità. L’omofobia maschile come baluardo di un ordine di genere tradizionale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 1, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5940
Ogni forma di stigmatizzazione, pregiudizio, persecuzione di un gruppo sociale può essere analizzata dal punto di vista dei soggetti che subiscono tali manifestazioni identitarie violente, trattando ad esempio dei gravi costi a vari livelli che esse provocano nelle loro vite; ma può anche essere studiata concentrandosi sui soggetti che le producono, e dunque sulle dinamiche culturali, politiche, psicologiche che a livello collettivo sono alla base di simili fenomeni di ostilità. In quest’ultimo caso, naturalmente, l’analisi può rivelare molto non tanto dell’identità soggetta al pregiudizio, quanto di quella da cui proviene il pregiudizio stesso.
In queste pagine si proverà a trattare alcuni aspetti storico-culturali dell’omofobia maschile (ovvero intramaschile: da parte di uomini nei confronti di altri uomini), e lo si farà precisamente in questa seconda prospettiva: con l’obiettivo, cioè, di comprendere cosa l’omofobia dica dei soggetti che la praticano e la alimentano, e a quali loro urgenze, insicurezze, contraddizioni identitarie essa venga concepita – consapevolmente o meno ― essere una risposta. L’impostazione di fondo del discorso implicherà qui che l’omofobia maschile risulti un atteggiamento funzionale più a integrare o proteggere la propria identità di genere, che a individuare esattamente e delineare razionalmente i tratti di una certa identità omosessuale che si vuole colpire.
Anche per queste ragioni interpretative, da un punto di vista storiografico l’omofobia intramaschile (per ragioni di brevità d’ora in poi, salvo diversa indicazione, indicata semplicemente come omofobia) verrà quindi connessa agli elementi principali di una dimensione identitaria di genere dai confini più ampi: quello della costruzione, a partire da un contesto storico abbastanza specifico, di una rigida ortodossia dell’identità maschile eterosessuale di cui l’immagine dell’omosessuale maschio ha costituito normativamente il “controtipo” negativo1. Prima di volgere lo sguardo alle dinamiche più propriamente storiche dell’omofobia, tuttavia, può essere utile un inquadramento introduttivo alle profonde connessioni che essa mostra con la sfera identitaria delle mascolinità.
1 La mascolinità tradita
Il termine omofobia compare sin dai primi anni Settanta del Novecento nel dibattito scientifico, in particolare in ambito psicologico e poi sociologico, e nasce negli Stati Uniti2. Travasato nello stesso decennio anche nel linguaggio corrente, questo termine è stato tuttavia in vario modo discusso, all’interno degli studi; accanto a esso, in tempi più recenti si sono proposte nuove categorie quali omonegatività, eteronormatività, ostilità antiomosessuale, eterosessismo ecc.3. Al di là dei suoi possibili limiti interpretativi4, è comunque indubbio che omofobia sia ormai da tempo il termine più diffuso, a molti livelli del discorso pubblico (politico, mediatico, culturale in senso lato), per indicare vari fenomeni relativi al pregiudizio e all’ostilità nei confronti delle persone omosessuali.
Non c’è dubbio, peraltro, neppure sul fatto che la “scoperta” dell’omofobia (storicamente coincidente, com’è facilmente comprensibile, con la comparsa del termine stesso) abbia segnato l’inizio del lento passaggio da un’attenzione sociale esclusivamente concentrata sulla “devianza” omosessuale a una prospettiva critica che per la prima volta sottolinea con forza, sulla base di una crescente sensibilità diffusa, l’inaccettabilità di un atteggiamento ostile verso le persone omosessuali; non a caso, uno dei maggiori studiosi dell’omofobia ha ricordato come anche il termine eterosessismo sia nato praticamente in contemporanea5. Né bisogna dimenticare, ovviamente, il grande impatto che su tali mutamenti della percezione collettiva ha avuto lo sviluppo inedito – per estensione e radicalità – di un vero e proprio movimento omosessuale, la cui “data di nascita” si fa risalire convenzionalmente agli scontri di Stonewall, a New York City, nel 19696.
Ed è proprio nella prospettiva di mettere a fuoco analiticamente l’ostilità contro gli omosessuali da parte degli uomini eterosessuali, appunto, che in queste pagine si proverà a trattare dell’omofobia; di quest’ultima considerando primariamente, quindi, la funzione che essa è chiamata a svolgere nell’economia identitaria della stessa popolazione maschile eterosessuale. L’omofobia infatti non opera esclusivamente nell’ambito delle interazioni tra uomini eterosessuali e omosessuali. In termini generali, il posizionamento omofobico svolge, non secondariamente, una funzione importantissima e tutta interna alla mascolinità ortodossa: esso non produce “soltanto” ostilità verso gli omosessuali7, ma si traduce anche in un atteggiamento che condanna ed emargina quei comportamenti considerati “devianti” da un profilo eterosessuale ortodosso, fissando così delle vere e proprie distanze sociali, delle nette gerarchie, all’interno del genere maschile nel suo complesso.
A dirla tutta, l’omofobia non investe nemmeno le sole relazioni tra uomini, ma tende piuttosto a condizionare fortemente, in quanto atteggiamento normativo dell’identità di genere, finanche le relazioni tra genere maschile e genere femminile. Per quanto a prima vista possa apparire paradossale, essa allunga infatti la propria ombra sulla scena delle relazioni eterosessuali fra uomini e donne, in quanto produce una serie di rilevanti effetti in termini di stereotipi, aspettative, rischi collegati al maggiore o minore tasso di virilità esibito: un irrigidimento sul piano emozionale ed espressivo; una concezione tendenzialmente predatoria della sessualità; una percezione esasperatamente meccanica e performativa del proprio corpo, ecc. Tutti atteggiamenti, questi, che hanno la finalità comunicativa di certificare la propria appartenenza alla schiera degli uomini dotati di inequivocabile virilità, e quindi di fugare lo spettro sociale dell’omosessualità. In sintesi, l’omofobia è a un tempo: un criterio regolatore dei rapporti patriarcali con le donne, perché esalta una mascolinità ortodossa e aggressiva; un codice di comportamento che mantiene le relazioni con gli altri maschi entro limiti identitari molto precisi, limiti che gli uomini continuamente riaffermano l’un l’altro attraverso il culto pubblico della virilità.
Una diffusissima mentalità omofobica, del resto, considera per definizione antitetiche omosessualità e virilità; l’omosessuale quindi sarebbe la sintesi di tutto ciò che è anti-virile, che è opposto alla vera mascolinità. All’interno di un orizzonte identitario perfettamente manicheo, chiuso e polarizzato all’estremo tra rosa e azzurro, ciò che si allontana pericolosamente dal “vero” maschile non può che sconfinare, altrettanto sciaguratamente, nel femminile; il radicato stereotipo dell’omosessuale che “copia” la donna (cioè, ovviamente, che si conformerebbe a un “femminile” ugualmente stereotipato), perno di ogni cosmologia omofobica moderna, rivela con tutta chiarezza quale sia la vera posta in gioco: il “tradimento” della virilità, almeno quanto ― e forse anche più di ― una reale attrazione per altri uomini, quindi di un reale orientamento omosessuale.
2 Il peccato capitale dell’omosessuale
In questa concezione, che per vari aspetti è relativamente recente nella storia culturale dell’Occidente, il grande peccato dell’omosessuale non è “solo” – e forse nemmeno tanto ― la sua sessualità rivolta verso gli uomini, ma la degradazione pubblica della virilità che egli metterebbe in scena impersonando l’antitesi di quest’ultima, la femminilità. Come scrive Maria Giuseppina Pacilli (sempre in riferimento a una visione maschile tradizionale), «un uomo omosessuale – o che semplicemente appare come omosessuale – non solo sta comunicando qualcosa sul proprio orientamento sessuale, ma sta anche dicendo che ha rinunciato, in modo definitivo e irrevocabile, alla definizione di sé come uomo»8. Questa funzione di rafforzamento dei rigidi confini dell’ortodossia virile svolta dall’omofobia maschile è sottolineata da molti studi; come sintetizza Luca Trappolin,
vi è quindi un generale consenso, in letteratura, nel considerare l’omofobia dei giovani maschi, rivolta soprattutto verso i loro pari, come strumento di imposizione di un’identità maschile improntata alla ricerca dei segni della virilità tramite la svalutazione e l’opera di degradazione di tutto ciò che vi si oppone simbolicamente9.
L’«invertito», termine molto diffuso fino almeno a metà Novecento, è quindi anche – e forse soprattutto, in una logica virilista – un uomo che per l’appunto inverte le ortodossie identitarie di genere, oltre – e forse prima ancora ― che un uomo che tenda al sesso con altri uomini. Uno degli autori più importanti dei masculinities studies, il sociologo statunitense Michael Kimmel, ricorda che il primo principio della mascolinità è identico a prescindere da religione, etnia, gruppo sociale: essere un uomo significa prima di tutto «non essere una donna». La contrapposizione al femminile, quindi, risiede al cuore delle definizioni della «giusta» mascolinità10. Come sottolinea Kimmel, tali dinamiche sono ben attive sin dalla seconda infanzia, quando il bambino inizia a identificarsi maggiormente con la figura paterna e ad allontanarsi dalla madre per marcare la propria identità maschile; in sintesi,
il bambino, respingendo la madre, rinnega anche le caratteristiche di cura, di compassione e tenerezza che essa rappresenta [e] reprime questi tratti in se stesso, perché essi rivelerebbero la sua incompleta separazione da lei. Per tutta la vita, dunque, egli dovrà dimostrare di non possedere nessuna delle caratteristiche femminili della madre. L’identità maschile nasce così, in prima istanza, dalla rinuncia alla femminilità, e non tanto dall’affermazione della maschilità, e ciò rende l’identità di genere maschile fragile e inconsistente11.
Alla luce di tali considerazioni, non risulterà quindi sorprendente la circostanza che per più aspetti, in una concezione virilista, omofobia e misoginia risultino più affini di quanto potrebbe sembrare a un primo sguardo. Nel momento in cui l’omosessuale, in quanto stereotipo, viene stigmatizzato prevalentemente per la sua effeminatezza (nelle movenze del corpo, nella voce, nell’abbigliamento; ma anche perché gli vengono attribuite caratteristiche psicologiche antitetiche alla virilità quali mancanza di forza, coraggio, razionalità, volontà ecc.), l’omofobia mostra una parentela non certo accidentale con la denigrazione patriarcale delle donne. L’omosessuale appare come un uomo che somiglia a una donna, è un disertore dai ranghi sacri della virilità; se da un lato può essere addirittura secondario che un uomo “accusato” di omosessualità abbia davvero un tale orientamento sessuale, dall’altro è sempre primaria la questione se egli esibisca tratti identitari tradizionalmente associati al femminile. Ciò che soprattutto crea turbamento (perché ogni pregiudizio fondamentalmente origina da un turbamento) è che egli incarni la negazione di ciò che dev’essere un vero uomo, che insomma metta in scena con la sua sola esistenza una scabrosa degenerazione della virilità.
La paura dell’omosessualità in quanto opposta alla virilità è talmente importante che spesso ancora oggi, nelle dinamiche di un qualsiasi gruppo di ragazzi, quello della verifica virile sembra essere uno dei problemi più preoccupanti. Il gruppo maschile infatti funziona di solito come una specie di «polizia di genere», secondo l’espressione pregnante di Kimmel, ovvero come uno spazio sociale in cui gli uomini si sorvegliano costantemente l’un l’altro circa la dose minima di virilità che è doveroso esibire in pubblico. L’omofobia, allora —prosegue il sociologo —, affonderebbe le radici nella paura che gli altri uomini scoprano il nostro terribile segreto: quello di un timore inconfessabile ma ineliminabile di non essere all’altezza del ruolo virile, di non essere realmente riconosciuti come veri uomini. Non c’è quindi altra scelta che fingere di essere ciò che non si è, e nella vita di un uomo questa è una lezione che si impara molto presto:
Uno dei sistemi più diffusi, quando ero adolescente, consisteva nel chiedere a un ragazzo di osservare le proprie unghie: se avesse rivolto il palmo verso di sé, piegando le dita all’indietro per esaminarle, avrebbe superato la prova, avendo guardato le unghie «da uomo». Ma se, al contrario, avesse allontanato il dorso della mano dal volto e avesse osservato le unghie tenendo il braccio teso, sarebbe stato immediatamente considerato un effeminato e preso in giro per questo12.
Sul piano sociale, in quanto è connessa all’opinabile posizione dominante del presunto “sesso forte”, la mascolinità ordodossa è inoltre sottoposta a una condizione di precarietà costante, e dunque di permanente insicurezza identitaria: lo status sociale del vero uomo è sempre revocabile, la virilità è ogni giorno soggetta a un ansioso esame pubblico che letteralmente non finisce mai. In una concezione tradizionale, insomma, la mascolinità è legata a una vocazione performativa dell’identità di genere che appare storicamente tipica di un soggetto obbligato, praticamente giorno e notte, a dover dare prova di essere senza dubbio all’altezza della missione cosmica del dominio.
Indirettamente, il legame fondante fra omofobia e codice identitario virile può essere confermato, a contrario, dal molto minore peso sociale che anche storicamente ha assunto l’omofobia femminile, la lesbofobia. Sul piano dei linguaggi collettivi, ad esempio, non solo le immagini mediatiche che alludono a un rapporto lesbico sono percepite come decisamente meno perturbanti rispetto alle analoghe immagini maschili, ma la stessa intimità quotidiana fra donne eterosessuali, anche a livello fisico, appare socialmente accettabile in misura impensabile rispetto al suo corrispettivo maschile. Dopo tutto, non occorre essere persone esperte di prossemica per accorgersi di quanto sia diffuso un chiaro interdetto sociale riguardante la violazione, da parte di un uomo eterosessuale, della cosiddetta distanza intima di un altro uomo eterosessuale, quella che conduce potenzialmente al contatto fisico; a meno che, ovviamente, non ci si trovi in situazioni molto particolari in cui tali norme di interdizione dell’intimità possano essere sospese senza conseguenze negative (sport, parodie di piccola violenza o combattimento, circostanze emotivamente gravissime).
Molti anni fa, in un celebre studio sperimentale, Stephen Morin e Ellen Garfinkle provarono addirittura a misurare le implicazioni spaziali dell’omofobia. Quando i partecipanti all’esperimento venivano introdotti in una stanza per un colloquio con uno psicologo, dovevano posizionare la propria sedia nello spazio rispetto a quest’ultimo; si registrò che quando lo psicologo esibiva in bella vista un distintivo dell’associazione dei terapeuti omosessuali, i partecipanti spontaneamente collocavano la sedia ben più lontano di quando si trovavano di fronte un interlocutore senza alcun segno distintivo. Nel primo caso, inoltre, la distanza risultò di ben tre volte superiore a quella che le partecipanti allo stesso esperimento mettevano tra sé e una psicologa con un distintivo dell’associazione delle terapeute lesbiche13.
Con questo, ovviamente, non si intende certo dire che la lesbofobia tra donne sia un problema sociale trascurabile; il punto è piuttosto che le insicurezze identitarie del genere storicamente dominante sembrano produrre conseguenze incredibilmente drammatiche sulle regole della convivenza umana a ogni livello. Sembra insomma esistere uno specifico e serissimo tabù dell’intimità che è specificamente maschile, e che in tali forme severe ha pochi corrispettivi nel femminile; non c’è forse da stupirsi, in effetti, se consideriamo il legame strettissimo tra identità virile e omofobia. Virile significa dominante, secondo una logica tradizionale, e in questo senso la serietà è certamente un connotato indiscutibile della questione: con la cosmica missione maschile del dominio c’è davvero poco da scherzare. Del resto, neppure a livello lessicale esiste un corrispettivo femminile del termine virilità, con tutto ciò che socialmente, storicamente, politicamente esso si porta dietro. E magari qualcosa, una simile circostanza, vorrà pur dire.
3 L’omofobia contemporanea in prospettiva storica
Qualcosa vorrà dire anche che le normative punitive dell’omosessualità, nella stragrande maggioranza degli Stati che in età contemporanea le adottano, siano storicamente dirette contro le relazioni fra uomini e ignorino – almeno formalmente: altro ovviamente è il discorso sulla prassi repressiva degli apparati istituzionali, per non dire della riprovazione sociale14 – l’omosessualità femminile. Quello tedesco è forse il caso più rilevante: il celebre articolo 175 del codice penale del 1871, che condanna gli «atti contronatura», è rivolto esclusivamente contro gli omosessuali maschi; nemmeno durante il Terzo Reich, quando tali norme repressive vengono decisamente inasprite, è presa in considerazione l’ipotesi di perseguire le lesbiche per vie giuridiche (il che, tuttavia, non impedirà una feroce persecuzione dell’omosessualità femminile, fino allo sterminio nei Lager, realizzata senza necessità di specifici strumenti formali)15.
Analogamente, il cosiddetto emendamento Labouchere che nel 1885 penalizza nel Regno Unito gli atti di «gross indecency» ― e che dieci anni dopo renderà possibile il clamoroso processo a Oscar Wilde ― si riferisce soltanto agli uomini. Naturalmente, questi esempi non intendono suggerire che le donne omosessuali, lesbiche o bisessuali, abbiano goduto di maggiore libertà. Tuttavia, essendo concepita come un insostenibile vulnus identitario inferto al genere dominante, è primariamente l’omosessualità maschile che va colpita con la massima solennità. Il punto è insomma che un simile accanimento punitivo diretto esplicitamente contro il solo genere maschile suggerisce una riflessione storiografica specifica, sul piano del legame fra identità maschile e potere; in quanto “traditore” del genere dominante, si può ipotizzare cioè che l’omosessuale maschio comporti uno scandalo politico più preoccupante – in una logica virilista – del suo corrispettivo femminile, proprio in quanto minaccia di aprire dall’interno una pericolosissima crepa nell’edificio patriarcale.
Al centro di queste pagine, come si è detto, è più che altro la rappresentazione dell’omosessualità; un rapido cenno alla realtà fattuale delle relazioni omosessuali, tuttavia, può forse aggiungere un ulteriore tassello allo scenario storico qui sommariamente evocato. Uno degli elementi più importanti della crisi del «modello pederastico classico», nella definizione di Barbagli e Colombo, è l’affermazione tra Otto e Novecento di un nuovo schema all’interno della sessualità tra uomini, in cui il soggetto socialmente più forte – molto spesso, colui che ha richiesto il rapporto ― svolge ora un ruolo sessualmente passivo; il partner invece, svolgendo un ruolo attivo, solitamente non rappresenta sé stesso come omosessuale, invertito, pederasta ecc. L’omosessuale quindi (secondo la visione corrente, il soggetto dal cui vizio nasce il rapporto) si passivizza, cioè — nella percezione sociale — si femminilizza. La polarizzazione attivo/passivo inizia così lentamente a incorporare quella maschio/femmina; un processo lungo e per nulla omogeneo nei vari contesti nazionali, ma che tra Settecento (in Europa settentrionale) e Novecento conduce a un nuovo modello di identità omosessuale fondato sull’«inversione di genere»16. È anche questa una dinamica storica che sembra convergere verso uno scenario in cui, tanto nella percezione comune quanto nella produzione scientifica, omosessualità maschile ed effeminatezza si sovrappongono sempre più.
Per più aspetti, quindi, soprattutto a partire dalla Belle Époque omofobia maschile e misoginia procedono parallelamente. Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la Grande Guerra monta infatti in tutto l’Occidente un vero e proprio allarme sociale maschile nei confronti della minaccia storica della “femminilizzazione”, come frutto avvelenato del progresso. È questo un termine che si adatta perfettamente a descrivere tanto scenari prossimi in cui le donne avrebbero conquistato nuovi spazi sociali, quanto future prospettive (altrettanto apocalittiche) di “degenerazione” in senso omosessuale della popolazione maschile; a cominciare, ovviamente, dalla sua parte più «civilizzata» e perbene. Agli occhi dei misogini, peraltro, nella fin de siècle la prospettiva della “femminilizzazione” della società è già drammaticamente annunciata dalla crescita dei movimenti femministi, e in generale dalla percezione di un inedito (per quanto ancora molto limitato, nella realtà) protagonismo delle donne nella sfera pubblica.
Nel bel mezzo di quello che essi percepiscono come un attacco in piena regola condotto dal genere femminile contro l’assetto tirannicamente patriarcale della società e delle leggi, dunque, i guardiani della virilità occidentale identificano l’omosessuale come una specie di “quinta colonna” del nemico, un vero e proprio cavallo di Troia all’interno delle sacre mura eterosessuali, un subdolo vettore di corruzione e fatale indebolimento nelle maschie file delle “razze” superiori. Certamente, l’omosessualità maschile è stata ferocemente perseguitata da tempo immemorabile; nella Belle Époque, tuttavia, cioè in un periodo in cui la classica riproduzione della supremazia maschile sembra notevolmente complicata dagli incipienti processi di modernizzazione, secolarizzazione ed emancipazione femminile, gli accenti con cui si evoca il suo spettro e gli strumenti concreti per esorcizzarlo conoscono una drastica brutalizzazione17.
Che in quest’epoca si assista a un importante mutamento rispetto alle classiche dinamiche omofobiche, lo sottolineava diversi anni fa anche lo storico britannico John Tosh:
La stigmatizzazione degli omosessuali come categoria aberrante di uomini separati dai “normali” sembra essersi affermata pienamente soltanto alla fine del diciannovesimo secolo […] Da allora in poi la figura dell’omosessuale si costituì come capro espiatorio del patriarcato: colui che metteva in pericolo le basi della famiglia, che disprezzava l’etica del lavoro e che sovvertiva il cameratismo delle associazioni di soli uomini18.
La scienza, nell’epoca d’oro del positivismo, svolge un ruolo essenziale nell’additare alla società intera i confini del bene e del male, naturalmente esprimendosi nel registro laico del normale e del patologico. Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del secolo successivo, l’omosessualità viene inquadrata prima come una patologia degenerativa, e in seguito comunemente ritenuta una condizione innata. Secondo la classica impostazione di Michel Foucault, se prima era percepita come un comportamento, ora l’omosessualità diventa una precisa figura sociale: «Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie»19. Il comportamento di un omosessuale appare insomma come l’espressione di un’identità profonda, non come un semplice atto. L’«inversione» sessuale non è più una pecca morale, ma una condizione naturale che ogni uomo può disgraziatamente scoprire in sé stesso, a prescindere dalla perfezione morale della propria condotta. Tutto ciò spinge gli uomini turbati dall’insicurezza di genere a distinguersi il più possibile dallo stereotipo dell’omosessuale, in modo da provare a sé e (soprattutto) agli altri di non possedere nessun carattere che non possa essere considerato indiscutibilmente maschile.
Così come la conosciamo oggi, in breve, l’omofobia nasce tra Otto e Novecento; in questa forma storica, rappresenta innanzitutto una reazione maschile a fronte di quella che appare come una crisi profonda delle identità di genere, tale da mettere seriamente in discussione la mascolinità tradizionale e la supremazia del genere maschile sul genere femminile. Questa controffensiva reazionaria disegna un paesaggio identitario presentato come “naturale”, e drasticamente ordinato in modo gerarchico, nel quale il vero uomo costituisce l’esemplare più perfetto della specie, mentre la donna appartiene a un mondo inferiore e rappresenta necessariamente un soggetto bisognoso del superiore controllo maschile. All’interno di questo schema manicheo, l’omosessuale maschio diventa così una specie di errore evolutivo, una cellula impazzita che per la sua natura degenerata è fatalmente condannata a sprofondare verso gli Inferi.
Di questa nuova immagine negativa dell’omosessuale, il principale tratto distintivo è l’effeminatezza: attributo che rivela chiaramente quanto la vera posta in gioco identitaria sia l’allontanamento degli uomini da un’ideale normativo di “vera” mascolinità (virile, forte, attiva e dominatrice). L’effeminatezza dell’omosessuale, inoltre, appare legata a una sua irriducibile perversione organica, alla sua “natura” degenerata confermata dalla moderna scienza; nell’insieme, una simile definizione fornisce sul piano logico una base clinico-politica per alimentare l’allarme sociale circa la “crisi” moderna delle identità di genere naturalmente intese, e quindi per una complessiva offensiva omofobica che coniuga riprovazione sociale, patologizzazione scientifica, discriminazione e persecuzione giuridica.
Si tratta di una stereotipizzazione omofobica destinata a durare per tutto il Novecento, se non oltre: fino agli anni Sessanta e Settanta, certamente, quando in molti ordinamenti giuridici vengono abolite le norme penali contro l’omosessualità, e quando la scienza medica abbandona la concezione dell’omosessualità come fenomeno patologico (nel 1973 l’American psychiatric association depenna l’omosessualità dal Manuale delle malattie mentali); ma decisamente più a lungo, in effetti, considerando la persistenza nel senso comune di tali stereotipi – e dunque la virulenza degli atteggiamenti omofobi socialmente diffusi ― fino in pratica al presente. Uno dei pilastri di questa visione che considera sostanzialmente l’omosessualità come escrescenza identitaria patologica è ancora, oggi come nell’epoca d’oro del positivismo ottocentesco, la presunta conformità alla “natura” di un assetto esclusivamente binario delle identità di genere e degli orientamenti sessuali, fondamento ideologico primario di un riconoscimento assiomatico dell'”anormalità” sessuale.
L’omofobia istituzionalizzata, d’altro canto, conosce in epoca contemporanea un picco repressivo sotto i regimi fascista e nazionalsocialista, e non certo per caso: sebbene con alcune differenze importanti, infatti, entrambe le dittature si fanno esplicitamente paladine di una restaurazione dell’autentica virilità nazionale corrotta dalla modernità liberale, concetto questo che negli anni Venti e Trenta continua certamente a includere l’aborrita emancipazione delle donne nonché la relativa, e non meno nefasta, “femminilizzazione” della società. A differenza che in Germania, nell’ordinamento italiano sin dal 1889 (dal codice penale Zanardelli) non è mai esistita una figura di reato che colpisse l’omosessualità; il che non impedisce al fascismo, che si vuole «suscitatore di virilità», di perseguitare gli omosessuali ricorrendo a reati in qualche modo considerati affini (quale, ad esempio, l’offesa al comune pudore o alla stirpe, a seguito del codice Rocco del 1930); ovvero, ancor più sbrigativamente, ricorrendo in centinaia di casi alla misura amministrativa del confino di polizia20. Ben più tragico il destino di coloro che in non piccolo numero finiranno per essere i rosa Winkeln, i triangoli rosa dei Lager nazisti: inasprito nel 1935, l’articolo 175 contro gli omosessuali tedeschi serve molto bene gli interessi della razza superiore, alla cui riproduzione evidentemente gli omosessuali non danno il doveroso contributo patriottico. Solo nel 1969 la condanna penale dell’omosessualità verrà quasi del tutto abolita nella Repubblica federale tedesca (rimarrà fino al 1994 un diverso criterio, fra eterosessuali e omosessuali, per la definizione dell’età minima per poter avere un rapporto sessuale), mentre nella Germania Est l’omosessualità verrà completamente depenalizzata nel 1968.
4 L’omofobia e il declino del virilismo
Gli anni Sessanta e Settanta rappresentano anche – e non è certo un caso ― il periodo in cui quel pluridecennale irrigidimento ideologico in senso virilista dell’identità maschile, cui più sopra si faceva riferimento, e del quale la configurazione contemporanea dell’omofobia è parte non solo integrante ma propriamente integrativa, appare perdere seriamente credibilità anche a livello del senso comune diffuso. Agli occhi di molti tradizionalisti, la battaglia iniziata nel secolo precedente appare ormai gravemente compromessa: quasi ovunque, in Occidente, le donne hanno conquistato diritti impensabili solo pochi anni prima, e sul piano mondiale è stata acquisita perfino una clamorosa parità formale ai più alti livelli (come l’Onu ha sancito con la Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948); i processi di modernizzazione recenti, profondissimi e incredibilmente capillari, hanno prodotto un’innegabile secolarizzazione dell’etica, inclusa la morale sessuale; il clima più liberaleggiante dell’ambiente urbano, pienamente “moderno”, pluralistico sul piano culturale, che è ormai lo scenario esistenziale quotidiano per fasce crescenti di popolazione, favorisce relazioni di genere meno squilibrate, in particolare fra le nuove generazioni; una retorica stentoreamente misogina e trionfalmente virilista, quale aveva dominato nel Ventennio, è sempre più considerata un vecchio arnese ormai anacronistico.
A un simile scenario di trasformazioni profonde è in effetti strettamente legata anche sul piano causale la circostanza che l’omofobia contemporanea, quella forma specifica di stigmatizzazione sociale della quale si è collocata l’origine nel secondo Ottocento, conosca un evidente indebolimento proprio negli anni Sessanta e Settanta. All’interno di tale contesto in mutamento, non è probabilmente necessario insistere troppo sul ruolo fondamentale che svolgono i nascenti movimenti omosessuali, dalla già citata rivolta di Stonewall in poi. Anche a questa inedita legittimazione sociale – per quanto molto relativa, ma storicamente importantissima ― di un pluralismo degli orientamenti sessuali, nello stesso decennio Settanta, si deve evidentemente anche la progressiva ma clamorosa erosione dello storico tabù omofobico, in quegli anni, nelle interazioni quotidiane tra uomini: mentre tanti giovani uomini eterosessuali provano a mettere in discussione certe tradizionali rigidità nell’intimità maschile, altri si chiedono più o meno serenamente se davvero debbano ritenersi soddisfatti all’interno di una sfera di esperienza sessuale e affettiva esclusivamente eterosessuale21.
Anche la cultura di massa, infine, sembra veicolare modelli di successo che rimandano al registro identitario dell’androginia (David Bowie, per tutti), mentre la stessa moda maschile sdogana colori sgargianti, forme attillate, accessori non troppo differenti da quelli tradizionalmente femminili (si pensi al borsello, ad anelli e collane vistose ecc.) non solo nelle sfilate dei grandi stilisti, ma propriamente per un vasto mercato popolare. All’inizio del decennio Settanta, sui media italiani si discute già di un immaginario “unisex”, una cifra estetica che dall’abbigliamento promette di sconfinare nel più ampio campo della cultura e delle relazioni sociali, rendendo tendenzialmente meno netti – o addirittura superando – i connotati esteriori del maschile e del femminile in quanto identità polarizzate22.
A partire da quel tornante storico, qualcosa si è indubbiamente rotto nel meccanismo di riproduzione “automatica” dell’omofobia quale è stata descritta in queste pagine. Analogamente alla misoginia, in breve, l’omofobia in quanto tale non è certo scomparsa né ha smesso di produrre effetti fortemente tossici sulle vite concrete di persone non “conformi” a quel corredo culturale di genere che da esse ci si aspetta più o meno rigorosamente. Tuttavia, la visibilità sociale degli omosessuali, pur se spesso mediaticamente caricaturizzata, è certamente cresciuta negli ultimi quattro-cinque decenni; allo stesso modo, è aumentata la consapevolezza diffusa della necessità di una parificazione di alcuni diritti, fra le multiple identità di genere. Tutto ciò sembra suggerire che l’omofobia abbia conosciuto un cambiamento epocale, e forse anche che, per quanto tutt’altro che estinta, essa sia decisamente meno credibile di un tempo.
Alcuni diritti tuttavia non vuol dire tutti i diritti, non vuol dire gli stessi diritti a prescindere dalla soggettività di genere: e questo è senz’altro un segnale inequivocabile del persistere di una situazione di discriminazione, del perpetuarsi di un accesso più limitato alle libertà fondamentali, di una menomazione a tutt’oggi esistente dei diritti di cittadinanza in senso lato. Circola ancora ampiamente, nel senso comune come sui media e in Parlamento, un principio implicito per cui i diritti valgono non universalmente, ma a seconda dell’identità di chi li rivendica; così, se per certi gruppi sociali appare tutto sommato accettabile a (quasi) chiunque che debbano esistere norme a contrasto della loro discriminazione o vittimizzazione, per altri soggetti invece – certamente sottoposti a discriminazioni, violenze e omicidi, come le cronache costantemente evidenziano ― non vale di fatto lo stesso princìpio.
Forse in nessun altro caso questa dinamica illiberale appare più chiara, che a proposito di un disegno di legge di cui molto si discute proprio mentre queste righe vengono scritte, e che peraltro riguarda proprio il contrasto giuridico all’omofobia. Il ddl Zan, dal molto tormentato iter parlamentare, si propone di estendere le norme che con la cosiddetta legge Mancino già puniscono chi diffonde l’odio o incita o commette violenza su base “razziale” o “etnica”, comprendendo quindi adesso le corrispondenti fattispecie di atti quando riferite al genere e all’orientamento sessuale. Ma il percorso di questa proposta di legge si è rivelato, per l’appunto, quanto mai accidentato; ciò che quindi si accetta, come princìpio di diritto, nel caso dell’odio razzista non si accetta nel caso dell’odio omofobico. Perché, si dice in alcuni interventi contrari al ddl Zan, con la sua approvazione si affermerebbe una sorta di regime dittatoriale in rosa e paillettes, un totalitarismo da Gay pride, un carnevale permanente di ogni aberrazione “contronatura”.
Secondo il cattolico tradizionalista Mario Adinolfi, ad esempio, questa diverrebbe nientemeno che «la prima legge fascistissima approvata dal 1926», grazie alla quale «le scuole “di ogni ordine e grado” (articolo 7 ddl Zan) finiscono in prima linea nella costruzione dei nuovi balilla del politicamente corretto, educati a concetti di cui non possono conoscere il senso fin dall’età di tre anni»23; a sentire il deputato leghista Alessandro Pagano, «questa legge perseguiterà proprio gli eterosessuali»24; per la deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria, infine (ma si potrebbe ovviamente proseguire molto a lungo con gli esempi), la legge introdurrebbe «una sorta di pensiero unico», essendo «liberticida e ideologica»25. Quest’ultimo aggettivo non è ovviamente casuale: da parte di varie organizzazioni, associazioni, movimenti politici ormai da anni si conduce una vera e propria crociata contro la presunta «ideologia gender», laddove con questa assurda locuzione si intenda comprendere tutto ciò che a livello culturale, politico ed educativo minacci di mettere in discussione un ordine “naturale” dei sessi imperiosamente e rigorosamente distinto in maschile e femminile.
Un ritornello tecnicamente reazionario che a questo punto, si può dire, non risulterà forse del tutto nuovo a chi avrà avuto la pazienza di leggere fino in fondo queste pagine.
Note
- Cfr. George L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino, 1997 [1996]. Per una lettura delle dinamiche evolutive dell’omosessualità nell’era contemporanea, rimane imprescindibile Marzio Barbagli, Asher Colombo, Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, il Mulino, Bologna, 2001. Per un ampio repertorio di espressioni omofobiche dall’antichità a oggi, cfr. Paolo Pedote, Giuseppe Lo Presti, Omofobia, Stampa alternativa, Viterbo, 2003.
- Fu lo psicologo statunitense George Weinberg il primo a proporlo come categoria analitica in una pubblicazione, nel 1972. Cfr. Luca Trappolin, Raccontare l’omofobia in Italia. Genesi e sviluppi di una parola chiave, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019, p. 15.
- Per una discussione intorno alle varie implicazioni interpretative di questi termini, ma anche per una ricostruzione del dibattito intorno ad essi, cfr. ibidem, cap. 1.
- L’espressione omofobia conterrebbe originariamente, secondo alcune critiche, uno «sbilanciamento clinico» concentrato su una «paura» di natura individuale, mettendo quindi in secondo piano la dimensione sociale e culturale del pregiudizio. Cfr. Simona Falanga, Alessandra Parisi, Carlo Di Chiacchio, Una ricerca empirica italiana, in Omosapiens. Studi e ricerche sugli orientamenti sessuali, a cura di Domenico Rizzo, Carocci, Roma, 2006, p. 61.
- Gregory M. Herek, Beyond “Homophobia”: Thinking About Sexual Prejudice and Stigma in the Twenty-First Century, in “Sexuality Research & Social Policy”, vol. I, n. 2, aprile 2004, p. 15.
- Per una sintesi, cfr. Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano, 1999.
- Naturalmente questa ostilità ha conseguenze gravissime, beninteso, e non va in alcun modo sottovalutata; di qui, le virgolette doverosamente poste sull’avverbio soltanto.
- Maria Giuseppina Pacilli, Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità, Il Mulino, Bologna, 2020, p. 97.
- Trappolin, Raccontare l’omofobia in Italia, cit., p. 191.
- Michael S. Kimmel, Maschilità e omofobia. Paura, vergogna e silenzio nella costruzione dell’identità di genere, in Tra i generi. Rileggendo le differenze di genere, di generazione, di orientamento sessuale, a cura di Carmen Leccardi, Guerini e associati, Milano, 2002, p. 179.
- Ivi, p. 181.
- Ivi, pp. 186-187.
- Stephen F. Morin, Ellen M. Garfinkle, Male Homophobia, in “Journal of Social Issues”, vol. 34, n. 1, 1978, p. 37, cit. in Elisabeth Badinter, XY. L’identità maschile, Longanesi & C., Milano, 1993 [1992], p. 155.
- Naturalmente anche l’omosessualità femminile viene socialmente osteggiata come un segno di crisi profonda: anzi, accomunando emancipazionismo e donna «mascolinizzata» (un’associazione che avrà lunga fortuna), già a fine Ottocento si accusano le femministe – ad esempio – di istigare le ragazze a «insanabili pervertimenti sessuali» e alla «avversione contro tutto il sesso maschile». Citazioni tratte da un articolo di Hans Kurella pubblicato nel 1896 sull'”Archivio” di Cesare Lombroso, cit. in Bruno P.F. Wanrooij, Storia del pudore. La questione sessuale in Italia (1860-1940), Marsilio, Venezia, 1990, p. 197.
- Cfr. Robert Beachy, Gay Berlin. L’invenzione tedesca dell’omosessualità, Bompiani, Milano, 2016 [2014]; John C. Fout, Sexual Politics in Wilhelmine Germany: The Male Gender Crisis, Moral Purity, and Homophobia, in “Journal of the History of Sexuality”, vol. 2, n. 3, 1992. Per la persecuzione dell’omosessualità femminile durante il Terzo Reich cfr. R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista, a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi, Ombre corte, Verona, 2010.
- Barbagli, Colombo, Omosessuali moderni, cit., p. 249. È questa un’impostazione non del tutto scomparsa nel senso comune fino a tempi recenti, o fino ai giorni nostri: l’omosessuale “autentico” sarebbe colui che si degrada a svolgere un ruolo simile – in una visione maschile tradizionale della sessualità – a quello di una donna: essere penetrato da un uomo di indubbia virilità. Ampie sopravvivenze di tale concezione, per cui l’omosessuale è sempre e soltanto il soggetto passivo, mentre quello attivo non perde un solo grammo di orgoglio maschile, si trovano ancora oggi frequentemente nel turpiloquio omofobico, laddove si fa appunto offensivo riferimento, aggressivamente e virilmente, a forme violente di sodomia.
- Cfr., su questo scenario complessivo, Laura Schettini, Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento, Le Monnier, Firenze, 2011.
- John Tosh, What Should Historians do with Masculinity?, in “History Workshop Journal”, n. 38, 1994, p. 191 (tr. it. Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici?, in Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, a cura di Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, Il Mulino, Bologna, 1996).
- Michel Foucault, Storia della sessualità, vol. I, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1999 [1976], p. 43. Critiche a questa impostazione sono esposte in Barbagli, Colombo, Omosessuali moderni, cit., pp. 224-225.
- Cfr. Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano, 2005.
- Ho descritto tali dinamiche nel mio L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma, 2011, cap. 5.
- Cfr. Fiammetta Balestracci, La sessualità degli italiani. Politiche, consumi, culture dal 1945 ad oggi, Carocci, Roma, 2020, pp. 111ss.
- Mario Adinolfi, I cinque veri obiettivi del Ddl Zan , visto il 4/5/2021.
- Cfr. Francesco Lepore, La crociata nei confronti del disegno di legge contro l’omotransfobia e la misoginia, visto il 4/5/2021.
- Secondo quanto riportato da alcuni organi di stampa, Calabria ha pronunciato queste espressioni nel corso di un intervento alla Camera, il 3 agosto 2020; cfr. tra gli altri Simona Musco, Leggi anti omofobia, anche Forza Italia dice no: «Mira al pensiero unico» , visto il 4/05/2021.
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