Bibliomanie

Cantus Circaeus, il tema della crisi universale
di , numero 40, settembre/dicembre 2015, Note e Riflessioni,

<em>Cantus Circaeus</em>, il tema della crisi universale
Come citare questo articolo:
Lucia Pietrafesa, Cantus Circaeus, il tema della crisi universale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 6, settembre/dicembre 2015

Alla seconda opera pubblicata a Parigi, nel 1582, Bruno diede il titolo di Cantus Circaeus. Anche questo testo, come il De Umbris Idearum, è composto «per una ordinata esposizione di quella prassi della memoria che egli stesso chiama prassi del giudicare».1 Si tratta, anche in questo caso, di un’argomentazione di carattere mnemotecnico, al cui interno, il suggestivo incantesimo operato da Circe è utilizzato come espediente per presentare i principali insegnamenti della nuova ars memoriae. Il primo dei due dialoghi di cui è composta l’opera è, indubbiamente, quello più interessante ai fini della nostra ricerca. Introdotto da Jean Regnault, segretario di Enrico d’Angoulême e fratello naturale del re di Francia Enrico III, il complesso dialogo tra Circe e la sua ancella Meri, ambientato nel castello della maga, si distingue nettamente dal secondo soprattutto per la problematica etica che svolge. Il lamento di Circe ha inizio con un’invocazione al sole, affinché ponga rimedio al caos in cui versa la natura:

Sole, che solo illumini tutto. (…) Per il tuo ministero la compagine di questo universo conserva vita e vigore, giacché secondo le ragioni che sono contenute nell’anima del mondo tu fai discendere fino a noi e sotto di noi, traendole dalle idee, le forze imperscrutabili delle cose, da cui poi derivano le virtù varie e le molteplici erbe, delle altre specie di piante e delle pietre, che mediante i raggi delle stelle acquistano la potenza necessaria a trarre in sé lo spirito del mondo2.

Nel De Umbris Bruno afferma che la natura «figura corpi per gli animi e li fornisce di strumenti adeguati»3 alle proprie possibilità; nel Cantus, le cause della crisi che travaglia il mondo vanno ricercate nella natura matrigna che, pertanto, genera dal suo seno corpi umani con animi brutali. Dalle parole di Circe emerge lo sdegno per il disordine che regna sul piano naturale4. L’infrazione delle leggi di natura ha determinato un profondo divario tra essere e apparire, celando sotto sembianze umane animi ferini. Lo stato di corruzione etica e di decadenza morale in cui versa l’uomo non dipende, pertanto, dalle azioni o dai meriti e non è in relazione ad una religione storica. L’uomo, per Bruno, decade moralmente quando cessa di comunicare con la natura, quando smette di interagire con colei che lo genera dal suo seno, quando, cioè, non opera in conformità all’uomo interiore, all’anima-nocchiero, secondo le proprie possibilità, ponendosi, di conseguenza, sotto l’ombra delle tenebre. La natura, in quanto sostrato di ogni cosa possibile, se dominata dal Caos, cessa di essere oggetto di conoscenza privando l’uomo della possibilità di intravedere l’ombra della luce. Circe, la celebre maga che nel poema omerico trasforma i compagni di Odisseo in maiali, con «barbara e rozza magia»5 tenta di ristabilire l’ordine sul piano naturale ripristinando la corrispondenza tra essere e apparire e tramutando, in questo caso, gli uomini nelle bestie che realmente sono. L’incantesimo non modifica, infatti, la natura degli uomini ma, penetrandone l’intima essenza, restituisce a ciascuno il proprio aspetto reale. L’invocazione al sole ed alle sette divinità planetarie, con i loro nomi, gli animali, le piante ed i luoghi ad esse sacre, conferisce alla maga ed alla sua ancella l’accesso alle leggi, spesso sovvertite dagli uomini, che regolano la natura. Solo ora è possibile attuare la reformatio e, dominando gli spiriti ministeriali6(cioè le potenze misteriose, presenti ed operanti in natura) che presiedono alla formazione dei corpi, riportare nella natura un principio di ordine. Bruno, in realtà, non individua chiaramente le cause del disordine naturale, si limita ad affermare che l’asimmetria prodottasi tra essere ed apparire è stata determinata dai veicoli delle forme che hanno falsato i sigilli impressi dalla natura7. La maga, attraverso le litterae, i caracteres e i sigilli, (ovvero attraverso alcune delle infinite vie di comunicazione che superano i limiti del linguaggio parlato e consentono di instaurare un rapporto fecondo tra l’uomo, il mondo naturale e il piano del divino)8, riesce a vincere il caos , restaura la giustizia naturale e priva le bestie dell’aspetto umano9. Riesce, dunque, a ristabilire la verità che, al suo grado più alto, è conformazione alla natura, adesione alle sue intime e prodigiose forze che tutte le cose dominano e trasformano. L’esito dell’intervento magico non è, tuttavia, definitivo: Circe è consapevole che in futuro la sua azione riformatrice non sarà apprezzata10, poiché alla ricostituzione dell’ordine, nella dimensione della Vanitas, cioè sotto il dominio della vicissitudine, potrà nuovamente succedere il caos travolgendo la natura e le leggi che la regolano. L’incantesimo colpisce coloro che danneggiano il consorzio umano avendo a disposizione della propria indole malvagia e bestiale la lingua, in grado di ferire l’intimo stesso degli animi, e la mano, capace di disporre di tutte le armi. Gli strumenti umani, se amministrati da animi bruti, danneggiano l’ordine universale, divengono mezzi di distruzione, inganno e sopraffazione. Restituire alle bestie il loro reale aspetto significa soprattutto privarle del potere distruttivo e trasformatore tratto dal possesso delle mani. Il motivo della mano è qui sviluppato, fondamentalmente, sulla sua dimensione di strumento generale di sopraffazione dell’uomo su tutta la natura. E’ la mano che distingue l’uomo dalle fiere (rendendolo massimamente temibile e più pericoloso di qualunque bestia feroce) e, proprio dal suo uso indiscriminato, ha origine la corruzione. Una volta operato l’incantesimo e concluso l’inganno al sole, appare alla vista di Circe e di Meri una folla rumorosa e caotica di bestie domestiche e selvatiche, terrestri, acquatiche e del cielo, in mezzo alla quale pochi e sparuti esseri umani, rimasti tali perché tali erano anche in essenza, scappano terrorizzati. Meri, alquanto stupita, chiede alla propria maestra di spiegarle il senso di questa portentosa trasformazione e di insegnarle il segreto per riconoscere tutte quelle bestie anche quando hanno l’aspetto di uomini e si nascondono sotto le sembianze di una natura che non gli appartiene. Nella seconda parte del dialogo ha inizio una lunga escursione in mezzo al territorio, aspro e selvaggio, che circonda la dimora della maga. La maestra e l’allieva incontrano una ad una tutti i tipi di bestie presenti11 e di fronte ad ognuna di esse Circe svela a Meri il segreto per riconoscere il rapporto tra indole ferina e comportamento umano. Il primo oggetto d’analisi, il porco, riflette i canoni elaborati nell’ars memoriae del De Umbris (la maga presenta una “ruota” al cui interno le lettere dell’alfabeto sono associate ai caratteri propri della natura di questo animale)12 mentre, quelle successive, affrontano temi di carattere etico dando origine ad una vera e propria galleria di tipi umani. I primi sono i codardi cani che, obbedienti e servili verso coloro che conoscono, anche se malvagi e scellerati, condannano ed attaccano tutti coloro che non conoscono, nonostante questi abbiano intenti benefici e siano portatori del vero. I cani rappresentano, dunque, la «razza di barbari che condanna e attacca tutto quanto non intende»13, cioè tutti gli individui tenacemente attaccati ad una riconosciuta tradizione di sapere, oppure a consolidati modi di pensare e che rifiutano tutto ciò che costituisce novità e differenza, per quanto benefica essa possa essere14. Seguono i muli, i capri, le scimmie, i camaleonti, i polipi e gli avvoltoi, ovvero, imitatori, adulatori, parassiti dei potenti, superbi, simulatori e cacciatori d’eredità. Si potrebbe pensare che il Nolano abbia ben rappresentato, con toni seri e sarcastici, la folla di clientes, consiglieri, nobili ed intellettuali che, al tempo del suo soggiorno a Parigi, frequentava la corte del re di Francia15. Ai camaleopardali, cioè alle giraffe, corrispondono coloro che «quando avevano aspetto umano solevano essere cultori degli dei secondo i riti, spregiatori della carne a parole, immondi per un genere diverso di vizi nel modo di vivere e bifolchi nel modo di scrivere»16. Il riferimento non è espressamente rivolto ai riformati, per un critica esplicita dei quali è necessario attendere lo Spaccio de la Bestia trionfante e la cruciale esperienza inglese, quanto piuttosto ad un tipo di religiosità tutta esteriore, quella dei cocchiaroni, dei frati conventuali e degli uomini di chiesa in genere, una religiosità intrisa di fanatismo e superstizione, in cui si mescolano una rigida osservanza delle norme e dei canoni ecclesiastici ed un più o meno scoperto abbandono ai vizi e alle degenerazioni degli istinti umani. In ultimo i galli, attraverso i quali Bruno esemplifica la situazione di decadenza etico-politica del suo tempo con particolare riferimento alle sanguinose guerre civili francesi tra ugonotti e cattolici, dietro le quali si muovono forti interessi di potere. Circe osserva che il gallo, non a caso simbolo della monarchia di Francia, «si celava sotto le spoglie di quanti furono soliti logorarsi in reciproci dissidi e che ridicolmente si vantavano di fronte agli altri dei misfatti commessi contro i loro simili»17. Non va dimenticato, inoltre, il riferimento chiaramente autobiografico esternato, con toni particolarmente aspri, sia nel rapporto noctilucae, ovvero «i dotti, i sapienti e gli uomini illustri: in mezzo agli incolti, agli asini e agli uomini oscuri»18; sia in quello tra usignoli e «quella razza di individui ciarlieri che parlano molto per dare l’impressione di sapere molto: ma li sosteneva soltanto l’approvazione degli sciocchi, giacché al pari degli sciocchi erano oggetto di disprezzo agli occhi dei sapienti, cui non era sconosciuto quel proverbio che dice “vaso vuoto assai risuona”»19. Lo scopo di questo primo dialogo dell’opera appare chiaro nel momento in cui ci si accinge a leggere il secondo: incontriamo infatti i due fittizi allievi di Bruno, Borista ed Alberico, che hanno appena finito di leggere assieme il canto della maga Circe. Quello che segue è, dunque, un altro breve manuale di mnemotecnica non dissimile dall’Ars memoriae del De umbris idearum20. Il testo del Cantus Circaeus, ci svela, in poco più di una pagina, il sistema per imprimere nella memoria il dialogo: è, in definitiva, un’introduzione concreta e fattibile, anche per un neofita come Alberico e gli eventuali lettori, ad un metodo che fa della fantasia e della ragione che pensa per mezzo di immagini, un sorprendente laboratorio di elaborazione e valutazione del sapere, aperto ad essere integrato con le più pregnanti considerazioni, sia sul piano teorico che su quello operativo, delle versioni più complesse e difficili della nuova arte di Bruno. In conclusione si può affermare che, sebbene nel Cantus Bruno introduca il fondamentale tema della crisi universale e sveli il suo concreto interesse per la problematica etica, l’opera non ha ancora lo spessore del successivo Spaccio de la Bestia trionfante. Ciò che gli sta a cuore, al di là della riforma etica, è l’insegnamento del nuovo strumento operativo da lui interpretato, ovvero, la nuova arte della memoria.

Note

  1. BRUNO, Il canto di Circe, p. 231.
  2. Idem, pp. 239-240.
  3. BRUNO, Le ombre delle idee, p. 107.
  4. J. B. NOLANI, Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C.M. Tallarigo], 3 voll. in 8 parti, Neapoli [- Florentiae], 1879-1891. Cantus circaeus, vol. II, p. 186: «Quis quaeso rerum modus est? Ecce sub humano cortice ferinos animos. Convenit ne hominis corpus ut caecum atque fallax habitaculum bestialem animam incolore? Ubi sunt iura rerum? Ubi fas, nefasque naturae? (…) Cur non miscentur ignibus maria, et limpida nigris terris astra, si in terris ipsis et earum gubernaculus nihil est quod faciem demonstret suam? Ipsa ne nos mater natura decipit ? Matrem dixerim an novercam»?
  5. CILIBERTO, Giordano Bruno, p. 19.
  6. BRUNO, Cantus circaeus, in Opera latine conscripta, vol. II, p. 187: «Si perpauci hominum animi sunt effincti, cur quaeso tot hominum sunt efformata corpora?Convertere igitur ad partes tuas o Sol, et tantum naturae et dignitatis tuae praeiudicium vindicato. Insignito Circem tuam tu caeterique praepotentes dii, ut eidem potentia qua ministerialibus spiritibus proximisque corporum istorum formatoribus imperare valeat».
  7. BRUNO, Il canto di Circe, p. 252: «Tutti insieme venite ad assistermi, sette principi del mondo, e contraetevi nella vostra Circe, di modo che, una volta ottenuta la vostra potenza (…), mi sia possibile stringere in un vincolo gli spiriti che amministrano e dispensano le figure dei corpi, perché questi, sia pure contro la loro volontà, facciano emergere nella piena luce e (via via che si ritrae la mentita sembianza di uomo) da occulti che erano rendano infine visibili i lineamenti nascosti di un altro genere di esseri viventi ».
  8. BRUNO, Il canto di Circe, p. 253, nota al luogo n. 125.
  9. BRUNO, Cantus Circaeus, in Opera latine conscripta, vol. II, p. 193: «Haec sunt quibus ipsas credimus nos posse mutare naturae leges: cur non per ipsas licebit easdem impie prophanatas instaurare»?
  10. Ibidem, p. 193: «Futurum est ut inculper Moeri: beneficam Circem maleficam imprudentes homines appellabunt».
  11. Le bestie enumerate sono trentasei: 18 terrestri, 7 che vivono nell’acqua, 11 che solcano il cielo.
  12. BRUNO, Il canto di Circe, p. 256: «Il porco è infatti un animale A. avaro, B. barbaro, C. coperto di fango, D. duro, E. errante qua e là, F. fetido, G. goloso, H. ha un debole senno, K. cocciuto, L. lascivo, M. molesto, N. non è buono a nulla, O. ocioso, P. pertinace, Q. querulo, R. rude, S. stolto, T. turgido, V. vile, X. Lunatico, Y. auricolato, Z. volubile, Ψ. non si dice buono se non quando è morto». Cfr. Appendice, doc. B.
  13. Ibidem, p. 258.
  14. Ibidem: «(…) così adesso questi cani, vili e smascherati per tali dal loro stesso aspetto, latrano contro tutti gli sconosciuti, anche se vengono con intenti benefici, mentre si fanno più miti con quelli che conoscono, per quanto siano malvagi e scellerati».
  15. L’utilizzo mnemotecnico del «canto» della maga Circe non mina la ricchezza narrativa di questo dialogo, che fornisce una suggestiva descrizione dell’ambiente su cui Bruno si era affacciato nel momento in cui, dopo l’uscita del De umbris idearum e il conseguente invito a corte, era entrato a far parte del gruppo dei lecteurs royaux, quella schiera di influenti e potenti intellettuali che si riuniva intorno alla figura del re.
  16. BRUNO, Il Canto di Circe, pp. 262-263. In questo giudizio pesa, come si è già sottolineato, la personale esperienza di Bruno nel convento di S. Domenico Maggiore a Napoli.
  17. Ibidem, p. 276.
  18. Ibidem, p. 275.
  19. Ibidem, pp. 271-272.
  20. Senza dubbio questo testo è più «leggero» rispetto al De Umbris per quanto riguarda le considerazioni teorico-filosofiche, ma è pur sempre innovativo rispetto ai tradizionali trattati di memoria artificiale.

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