Bibliomanie

I natali dimenticati di un successo nazionale: il rimosso popolare intorno agli esordi del Giro d’Italia
di , numero 52, dicembre 2021, Saggi e Studi, DOI

I natali dimenticati di un successo nazionale:  il rimosso popolare intorno agli esordi del <em>Giro d’Italia</em>
Come citare questo articolo:
Domenico Guzzo, I natali dimenticati di un successo nazionale: il rimosso popolare intorno agli esordi del Giro d’Italia, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 11, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9623

Raramente – forse mai con tale smaccata sproporzione – un evento sportivo di portata e riconoscimento globale subisce una “damnatio memoriae” delle proprie origini e dei propri padri fondatori, popolarmente generalizzata come quella che continua a gravare sul “Giro d’Italia” di ciclismo.
L’evenienza è tanto paradossale quanto clamorosamente appare estesa non solo la letteratura scientifica, ma anche la pubblicistica divulgativa – rivolta ad un trasversale bacino di tifosi – che a tutt’oggi insiste in un profluvio di analisi statistiche, disamine nozionistiche e rievocazioni romantiche dai più svariati angoli visuali1.
A ben guardare, il fattore di fibrillazione tra la ricerca storiografica e la memorialistica comune degli appassionati sembra risiedere in un difetto d’attenzione della prima, che tende a concentrare lo sforzo di “ricostruzione validata” sul tracciato novecentesco della “Corsa Rosa”, lasciando troppo poco presidiati – anche per via di una grave penuria di fonti archivistiche – i momenti embrionali di una grande competizione sportiva pur tenuta a battesimo dalla nascente stampa per le masse2: gli anni Venti del XX secolo vengono allora a imporsi quali “Colonne d’Ercole”, eterodosse cesure periodizzanti, di un discorso scientificamente falsificato relativo al “Giro”, il quale invece non si sforza di rischiararne altrettanto adeguatamente i primordi esistenziali, condannando genesi ed esordi ad una troppo superficiale elencazione di fatti, responsabilità e personalità, che inesorabilmente lasciano poi germinare fumose ambiguità e zone d’ombra nello sguardo più generalista3.

1. Le ragioni possibili di una negligenza memoriale
Qualcosa di solo vagamente avvicinabile, può ravvisarsi nella vulgata connessa alla strutturazione del Campionato mondiale di calcio, che a fronte di aneddoti largamente padroneggiati anche dal pubblico generalista in merito alla canonica litania di edizioni ufficiali apertasi nel 1930, sconta pur’esso una evidente subordinazione memoriale delle radici ideative ed organizzative: basti la derubricazione del nome di Jules Rimet – nume tutelare della manifestazione assurta a massimo evento sportivo mondiale – in mero riferimento della coppa assegnata alla squadra vincitrice fino al 1970, rimasta peraltro al centro di accorati “amarcord” più per le sue ingloriose traversie (due furti ravvicinati culminati in una distruzione per fusione in lingotti d’oro) che per l’autorevole intitolazione4.
Ma nel caso dei “Mondiali” per antonomasia, si tratta esclusivamente di un deciso restringimento della platea generalista “informata sui fatti”, e non di un effettivo misconoscimento coinvolgente anche gli addetti ai lavori e gli studiosi, che difatti riescono con linearità condivisa a sviluppare narrazioni piene e sfaccettate5. Non oblio o depauperamento del dato storico, dunque, ma semplice (fisiologica) marginalizzazione in esotici lidi specialistici, di un periodo iniziatico dai tratti ancora troppo amatoriali e “provinciali” per riuscire a resistere alla concorrenza immaginifica della successiva iper-professionalizzazione miliardaria del calcio internazionale6.
La curiosa peculiarità del “Giro d’Italia” viene d’altronde ribadita dal non poter appellarsi – per giustificare i propri “oscurati natali” – neppure a tale ipotetico “salto evolutivo”, poiché sin dai primi colpi di pedale dell’edizione inaugurale (Milano, 13 maggio 1909), tanto la copertura mediatica che la presenza di componenti (atleti e società) già lautamente emancipati dal dilettantismo, sono risultate altissime e – mutatis mutandis – almeno pari a quanto poi vissuto dalla Corsa Rosa nelle decadi posteriori7.
Diversamente, nello svanire dietro a nebbiose reminiscenze della dialettica umana che aveva partorito la seconda competizione ciclistica mondiale, pare esserci piuttosto uno sfortunato connubio di defenestrazioni editoriali e morti premature, le quali schiacciandosi a monte e a valle di un’epocale cesura quale la Grande Guerra, hanno depennato le complesse figure di Eugenio Camillo Costamagna e, ancora più gravemente se possibile, di Tullo Morgagni, dalla trinità originaria completata in Armando Cougnet8.
Se infatti la germinazione di quest’ultimo maturò tremendamente in fretta tra l’estate del 1908 e la primavera 1909, altrettanto rapidamente – già nel 1912 – l’alveo comunicazionale che legittimava e forniva diritto d’autore all’impresa (“La Gazzetta dello Sport”) finiva per espungere, nelle more di un drammatico passaggio di proprietà della testata9, coloro cui si doveva l’ideazione fondativa (Morgagni) e, fin lì, la coordinazione generale dell’intera manifestazione ciclistica (Costamagna): accadeva, vale a dire, che al primo relativo calo di risultati – per tirature e gradimento tifoso10 – due degli attori protagonisti dell’organizzazione del Giro uscissero di scena per sopraggiunta incompatibilità alle direttive del nuovo corso padronale, mentre sopravviveva la sola presenza di Cougnet, in ogni caso imprescindibile a ragione della sua funzione di responsabile esecutivo della Corsa.
Alla traumatica rottura11, erano succedute un paio di ulteriori edizioni in sordina e condite da topiche disdicevoli12, precipitate poi in bocca all’autentica “sincope” quinquennale della Prima Guerra mondiale: malgrado entusiastiche premesse di attenzione popolare, il rientro dalla forzata interruzione bellica era stato altrettanto tormentato, a causa principalmente delle distruzioni infrastrutturali imposte dal conflitto e della generale crisi socio-economica che aveva investito la smobilitazione nazionale13. Soltanto nel 1922, in un Paese rimesso in piedi e sempre più autoritariamente “normalizzato”, il Giro d’Italia ritroverà con continuità la stessa spinta ascendente dei folgoranti inizi14: quell’inerzia espansiva destinata, entro un lustro, a trasfigurare lo svolgimento della gara a tappe in vera e propria epopea, principalmente attraverso le disfide tra i primi “campionissimi”, Costante Girardengo e Alfredo Binda15.
Una definitiva istituzionalizzazione tra i massimi eventi sportivi mondiali, che si produrrà quando Costamagna e Morgagni saranno addirittura morti da anni, stroncati ancor giovani da uno sconcertante fato avverso, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: il cinquantaquattrenne Eugenio portato via da un male incurabile, nel 1918, dopo il naufragare di alcuni progetti editoriali nati “biliosamente” come improbabili antagonisti diretti della ripudiata“ Gazzetta dello Sport”16; il trentasettenne Tullo perito nel disastro aereo di Verona (17 vittime, 2 agosto 1919)17, quando era già divenuto il più importante “giornalista aviatorio” d’Italia18. Della dipartita di Costamagna nessuno parve neppure accorgersene, tanto era – incredibilmente e rapidamente – caduto nel dimenticatoio una volta uscito dall’occhio di bue della Rosea19. Di Morgagni, invece, venne sin da subito elaborata una agiografia pagana, imperniata sul suo “eroico sacrificio” mentre cercava di dimostrare la possibilità di far nascere il “volo civile” – ovvero democraticamente moderno, per la quotidianità delle masse – dalla gloriosa esperienza dell’aeronautica militare20: una fama mitica, ma quasi tutta declinata fuori dal ricordo del contributo dato al ciclismo, e soprattutto effimera perchè contaminatasi presto di propaganda fascista (Mussolini, anche per ragioni personali, volle farne un “padre postumo” de l’Ala d’Italia)21 e di conseguenza trascinata nel silenzio del “passato indicibile” una volta caduto ignominiosamente il regime littorio22.
Osservata con lo schiacciamento prospettico di una ormai secolare posterità, tale concatenazione di eventi predispone evidentemente all’escissione memoriale delle figure fin qui discusse: i clamorosi atti inaugurali del Giro si intravedono appena nel cono d’ombra imposto dal catafalco della Grande Guerra e le flebili impronte di Costamagna e Morgagni non brillano di luce propria. L’unico fil rouge del binomio Giro-Gazzetta capace di tenersi teso tra l’edizione numero 1 del 1909 e il rilancio in grande stile inveratosi dagli anni Venti resta allora Armando Cougnet, il quale si ritrova condannato a sussumere, gratuitamente e forzosamente, il grosso del “citazionismo” sulla sua oltremodo lunga carriera di Patron della Corsa Rosa23.

2. Come avvenne realmente: la scintilla ideativa
Volendo rendere giustizia storiografica all’effettiva genesi del Giro d’Italia, serve riandare al luglio 1908 e, più precisamente, all’esperienza da corrispondente al “Tour de France” (creato nel 1903) che il redattore-capo de “La Gazzetta dello Sport”, Tullo Morgagni, ha modo di fare, in sostituzione dell’abituale inviato a questa manifestazione ciclistica – il collega Armando Cougnet – in quell’anno eccezionalmente dirottato a seguire le contemporanee Olimpiadi di Londra (27 aprile – 31 ottobre 1908).
Morgagni è poco più di un ragazzo, 26 anni, ma porta già i “galloni” dell’invenzione del Giro di Lombardia (1905) e della Milano-Sanremo (1907), ovvero i due massimi eventi della stagione ciclistica italiana: grazie al suo intuito e alla sua fattiva creatività, il giornale per cui lavora – anch’esso molto giovane e piuttosto esile, essendo nato nel 1896 e risultando composto da una redazione di una decina di collaboratori in totale – sta conoscendo impressionanti tassi di crescita e di popolarità, dato anche che le corse su due ruote si sono imposte proprio ad inizio Novecento quale sport nazionale (per subentrarvi, il calcio avrebbe dovuto attendere l’epoca fascista)24.
Durante il soggiorno francese era successo che Tullo aveva materialmente assistito alla praticabilità su massima scala del suo sogno più recondito: coronare la stagione ciclistica del Bel Paese, già aperta e chiusa da due sue “creature”, con un lungo circuito itinerante che inviti lo spettacolo a pedali nei cento campanili nazionali. Una magnifica manifestazione di potenza sportiva che avrebbe osato rivaleggiare in prestigio, richiamo e difficoltà con la stessa Grande Boucle, addirittura anticipandola sul tempo, grazie al miglior clima italico che garantiva cieli tersi e piacevoli temperature fin da maggio. In realtà, una idea quantomeno ardita, a guardare l’indigenza generalizzata che marchiava vie di comunicazione, apparati periferici dello Stato e campagne dell’Italia primo-novecentesca.
Rientrato a Milano ad inizio agosto, Morgagni si era immediatamente lanciato nello studio logistico e nella presa di contatti con amministratori, meccanici, allenatori e costruttori. Confrontandosi assieme al suo caro amico Angelo “Micio” Gatti, fresco fondatore della Atala, viene a sapere delle intenzioni del “Corriere”, che starebbe predisponendo una bozza di percorso con l’ausilio del Touring Club – incallito organizzatore di corse automobilistiche lungo lo stivale – e della Bianchi, principale player tecnico del settore ciclistico nazionale25.
Proprio dalla Bianchi, Gatti è recentemente andato via, in malo modo, e smania in vista di una doppia occasione di pronto riscatto: un “Giro” promosso dalla “rosea” avrebbe significato, infatti, far perdere al suo ex datore di lavoro una commessa prestigiosissima, aprendo al contempo uno spazio di visibilità per il proprio nuovo marchio. Tullo d’altra parte è ben cosciente dell’impatto che questo tipo di grandi corse a tappe possono esercitare sulle vite dei giornali sportivi26 e già il 5 agosto 1908 fa recapitare a Costamagna (direttore de “La Gazzetta”) dire e a Cougnet (responsabile della sezione ciclismo), entrambi fuori città, un telegramma dal tono perentorio ma suggestivo: «Improrogabili necessità obbligano Gazzetta lanciare subito Giro d’Italia. Ritorna Milano. Tullo»27. Nel tardo pomeriggio del giorno appresso, sono tutti nella sede di via Radegonda 10: gli animi si agitano nervosamente perché se c’è infinita voglia di anticipare ogni concorrenza, allo stesso tempo mancano esperienze pregresse su cui appoggiarsi (in quel momento non esiste che un modello al mondo, il Tour stesso, realizzato in tutt’altre e ben superiori condizioni materiali) e soprattutto soldi.
Con l’intuizione di costruire un circuito a tappe mettendo in fila percorsi già testati da “classiche in linea” – come la “Napoli-Roma”, la “Firenze-Roma” o la “Torino-Milano” – nel giro di due settimane i tre giungono a fissare confini e perimetro di un tracciato che nascerebbe e morirebbe a Milano – andando così a massimizzare la centralità de “La Gazzetta” – e che prevederebbe un montepremi non inferiore alle 25.000 lire.
Il 24 agosto 1908, un titolo a tre colonne annuncia «per la prossima primavera il primo “Giro d’Italia” che diverrà una delle prove più ambite e maggiori del ciclismo internazionale»28, lanciando così un pomposo editoriale:

«La bella penisola attraversata da una balda schiera di campioni internazionali. Le varie e gloriose regioni agitate, commosse, trepide per quel soverchio di vite impetuose che s’inseguono, corrono, su quelle terre che hanno la febbre di tanta arte e tanta vittoria: di vite, che volano, salutate dai più dolci e cari parlare alla gloriosa Milano, la quale le ha viste partire e che, quasi gran madre sportiva d’Italia, ansiosa le attende ritornare. Ecco il sogno!
Ed ora, questa immagine della mente, sta per diventare un fatto compiuto, una nuova pagina indimenticabile indistruttibile del roseo foglio il quale, (da tanti anni), crea, eccita, ravviva la gran fiamma dello sport della nostra nazione.[…] Noi, che senza soverchio rumore, serenamente – non spendendo troppo fiato in sedute inconcludenti – abbiamo ritornato ai grandi onori il ciclismo italiano, noi, ora, lanciamo l’appello che agita, che scuote le anime sportive.
Noi gridiamo: Italiani preparatevi. Nel 1909 si correrà la gran prova alla quale anelano forti gloriosi campioni di nazioni sorelle. Uomini ritenuti invincibili per il diritto di grandi numerose conquiste: uomini dai garretti provati in cimenti terribili, vogliono scendere nelle nostre terre per aggiungere il lauro della gran madre latina alla corona gloriosissima del loro passato!
Italiani! Voi che sapete le recenti fatiche del «Giro di Francia»; voi che sapete quanto sia difficile la vittoria sul suolo straniero, voi, permetterete che i colori della nostra nazione debbano abbassarsi perché vinti dei nostri grandi vicini?!
Mai…
Salutando colla più sentita cortesia la loro simpatica venuta, vi preparerete a combatterli, a vincerli, lasciando nel loro cuore due tracce indimenticabili: l’onestà e la correttezza della vostra vittoria e il desiderio immenso di cimentarsi ancora con voi, in quelle terre ospitali che salutarono le vostre immani fatiche e le vostre inesauribili energie.»29.


Si tratta però, di una mera dichiarazione d’intenti, volta esclusivamente a sgomberare il campo dagli avversari: quasi un bluff. Si ammette, infatti, di essere ancora allo stadio di abbozzo di «una prova di otto o dieci tappe» su circa 3000 km, che vagheggia d’improbabili sconfinamenti nella Nizza francese (città natale di Cougnet), nella Trento e nella Trieste austro-ungariche, escludendo a priori, pur «con sommo dispiacere, per difficoltà insormontabili d’organizzazione e, soprattutto per mancanza di strade (sic!) […] le Puglie, la Calabria, la Basilicata e naturalmente la Sardegna. Non parliamo della Sicilia»30. Pure il regolamento è ancora in fase di studio, mentre i riconoscimenti economici a vincitori e classificati (dalle 3.000 lire del primo posto sino alle 100 lire dell’ultimo) sono già prefissati. Per far comprendere oggi l’enormità dell’avventura in cui “La Gazzetta” si stava imbarcando, basti sottolineare come le oltre 25.000 lire di montepremi complessive – il compenso di gara più ricco del mondo di allora – equivalevano sostanzialmente all’intero capitale sociale della accomandita che possedeva il giornale. O, ancora, come lo stesso Costamagna guadagnasse 2000 lire all’anno, che era peraltro uno stipendio di tutto rispetto. Non v’è allora da stupirsi se la descrizione si chiudeva con uno scaramantico augurio «di splendida riuscita, cosa della quale nessuno dubita»31.
Auspicio che mostra la corda già due settimane più tardi, il 7 settembre 1908, per il tramite di un microscopico e sospirante trafiletto: «per ora interrompiamo di trattare del Giro d’Italia»32. Prendere tempo, magari rinviando all’anno successivo, per tentare di salvare la faccia.

3. Come avvenne realmente: l’impresa organizzativa
Sarà un alea benigno a salvare il corso degli eventi: un socio di minoranza della “rosea”, focoso fanatico del ciclismo su strada, amico intimo sia di Cougnet che di Costamagna, è da poco rientrato a Milano dopo aver espletato le ultime formalità in qualità di segretario del Comitato Nazionale Olimpico del Regno d’Italia. Fervente nazionalista, arriva bramoso di “rivalsa patriottica” per aver assistito all’epica e sfortunata maratona di Dorando Pietri, privato negli ultimi metri, per verdetto di giuria, della medaglia d’oro più prestigiosa dei Giochi.
E quando gli viene esposta l’impasse attorno al progetto del “Giro d’Italia” non esita a mettere in gioco tutte le sue entrature per attivare una corposa raccolta fondi. Di professione è banchiere alla Cassa di Risparmio ed ha amicizie altolocate. Primo Bongrani, questo il suo nome, riesce quasi immediatamente ad ottenere l’attivazione di una apposita linea di credito che immette liquidità nelle tasche degli organizzatori, rendendone altresì più affidabile il profilo agli occhi di potenziali sponsor: il solo Vincenzo Lancia dell’omonima casa automobilistica investe ben 1.000 lire. A stretto giro, arriva poi – anche facendo leva sulla storica rivalità con il Touring Club, che avrebbe dovuto “in esclusiva” allestire il Giro per conto del “Corriere della Sera” – un pieno sostegno economico e logistico dall’Unione Velocipedistica Italiana (UVI)33, oltre all’accordo di commercializzazione con la Thomas Cook & Son (la prima e più importante agenzia viaggi del mondo, storicamente attiva nel Bel Paese) di pacchetti di biglietti per facoltosi tifosi stranieri – principalmente inglesi – che vorrebbero da comode postazioni seguire tappa per tappa la corsa.
Fra piccoli e grandi oboli, Bongrani ha già raggranellato ad inizio 1909 oltre metà del budget necessario: per raggiungere la soglia minima di sostenibilità finanziaria, si presenta al “Corriere della Sera” e prospettandogli un grande ritorno d’immagine, per un gesto di signorilità morale che sgombrasse il campo da sospetti di rancore, ne esce con una sovvenzione di 3.000 lire: ovvero l’intero premio del primo classificato, che in questo modo diviene “offerto” dal quotidiano di via Solferino, il quale riesce così a rimettere almeno un piede dentro l’enorme evento mediatico e popolare, perso sul filo di lana. Data l’accesa rivalità fra i due giornali, si tratta di un piccolo capolavoro d’arte diplomatico-pubblicitaria34.
Forte di questa solidità materiale, Bongrani rivolge quindi le sue attenzioni alla ricerca di un’investitura dall’alto, che doni lustro e rango all’ardita operazione. Suggerisce a Costamagna d’invocare il conferimento di un medaglione d’oro della Corona, simbolo del supporto ufficiale di Sua Maestà. La richiesta segue un iter speditissimo e già il 9 febbraio 1909, il Gabinetto di Casa Savoia – ricevute le debite rassicurazioni dal Prefetto di Milano – dà il suo placet35.
Nella medesima data, rivendicando il proprio ruolo di main sponsor, il “Corriere della Sera” pubblica il bando d’apertura per le iscrizioni al I° “Giro d’Italia”, di cui si scopre la programmazione per il mese di maggio, anche se ancora priva di date precise: significherà provare a sfruttare la coda d’entusiasmo della Milano-Sanremo, fissata come sempre in aprile, e anticipare il più possibile la Grande Boucle di luglio per creare un sufficiente margine temporale a favore degli eventuali campioni transalpini desiderosi di cimentarsi in Italia, ma senza mettere a repentaglio la partecipazione al “Tour”. L’articolo fa sapere che «la corsa è internazionale, aperta a dilettanti e professionisti, muniti di licenza», che servono «L. 5 pei professionisti, L. 10 pei dilettanti» e che «a chi avrà la fortuna di avere l’agognato numero uno, sarà assegnata una piccola medaglia d’oro con contorno d’argento su cui sarà inciso: Al I° iscritto del I Giro dItalia»36. Viene anche descritto il probabile percorso, articolato in 9 tappe: rispetto alla bozza del 24 agosto 1908, si nota la sparizione di Trento e Trieste, con tutto il circuito nel Triveneto. Evidentemente al crescere dell’interesse collettivo, il richiamo al nazionalismo irredentista non sembra più così fondamentale per propagandare l’iniziativa, anche a fronte della difficoltà di superare una frontiera così calda e contesa. Restava invece presente un traguardo nella Nizza di Cougnet.
Dieci giorni dopo, precisamente il 17 febbraio 1909, La Gazzetta tocca il suo nuovo record di vendite (120.000 copie) grazie al traino di una competizione non legata al ciclismo, quale il Campionato Mondiale di lotta greco-romana tenutosi a Milano, che aveva visto trionfare il triestino Giovanni Raicevich. Un volano che la “rosea” capitalizzerà lungo le settimane seguenti per montare curiosità attorno all’appuntamento di maggio: pubblicando lettere, proposte ed indicazioni di semplici lettori, aggiornando sulla definizione del regolamento e registrando ogni nuova iscrizione di un certo livello.
Nel frattempo Armando Cougnet, designato ufficialmente direttore di corsa, studia chilometraggi e punti di controllo, svolge sopralluoghi, chiede alla pubblica autorità permessi, manutenzioni straordinarie e futura presenza di forze armate a vigilare gli snodi cruciali del percorso: commissiona al celebre pilota automobilistico Felice Nazzaro – considerato il migliore al mondo – una ricognizione complessiva del tracciato individuato, che verrà infine svelato venerdì 26 marzo 1909. Si apprende così che pure Nizza è stata cancellata: il programma definitivo è a 8 tappe, con partenza da Milano il 13 maggio ed arrivi – sempre intervallati da 2 o 3 giorni di riposo – a Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino. È previsto quindi il passaggio, con presenza di un’oasi di rifornimento, da Forlì, casa natale di Tullo Morgagni. Epilogo il 30 maggio nel capoluogo meneghino da cui si era scattati due settimane prima. Classifica a punti mutuata dal modello Tour de France, divieto di ristoro e di assistenza tecnica al di fuori di punti prestabiliti, possibilità di gareggiare per conto di una squadra o in totale autonomia (saranno i cosiddetti “corridori isolati”). Per aumentare ulteriormente l’attrattiva, il premio-base per coloro che riusciranno a completare il circuito è elevato da 100 a 300 lire. Cifra che all’epoca consente di sfamare un’intera famiglia per svariati mesi e che quindi si rivela una fortissima attrattiva per molti giovani dilettanti di estrazione modesta o addirittura indigente.
L’esito della “Milano-Sanremo” 1909 è il miglior viatico pubblicitario cui “La Gazzetta dello Sport” potesse sperare: finalmente «i colori d’Italia» hanno battuto fra una folla oceanica «i giganti della strada» stranieri. È notizia che merita l’intera prima pagina e caratteri cubitali. Il rispetto e la tenuta di tutti gli ingranaggi logistici, sottoposti alla pressione di centinaia di migliaia di tifosi scatenati, lascia incensare la “rosea” di una «organizzazione che farà epoca», valida al contempo come atto di garanzia verso l’imminente messa in piedi del Giro. Mentre la consacrazione di Luigi Ganna che «polverizza il record di Petit-Breton» è lo stendardo da issare sulla nave di quell’orgoglio patriottico che è fattore romantico ineludibile delle sfide sportive d’inizio Novecento.

«Siamo schietti. Prima d’ora i nostri campioni in tante lotte nelle quali si erano trovati a disputare il terreno ed il lauro ai corridori stranieri, avevano sempre dovuto cedere le armi. Sarà stato difetto di educazione fisica, di pratica agonistica, sarà stato fatalità; ma il vero si è che essi videro con una vicenda disperante i competitori strappar loro il primato al traguardo verso cui avevano pur tanto anelato con tutta la tensione dell’organismo e della volontà.
Ma questa volta la rivincita sospirata è giunta alfine a riabilitare la fama del valore già proverbiale d’Italia ed a cancellare il dolore cocente dei nostri precedenti insuccessi.
Luigi Ganna ha offerto in questa memorabile assise della forza e della combattività una misura veramente degna delle risorse possenti di un popolo la cui fulgida storia conobbe tutti i primati.
Quest’anima semplice di fanciullo e di primitivo, non ancora per il passato ben consapevole delle virtù poderose che dormivano nel suo corpo rude ed atletico di macchina da lavoro – si è finalmente destata all’appello di un paragone solenne di stirpe ed ha voluto indomabilmente, selvaggiamente voluto la vittoria per sé e per la propria nazione. […]
Ormai l’incanto è rotto. Da questa vittoria primaverile, da questo stupendo inizio di stagione sportiva, s’inarca la parabola abbagliante di una nuovissima primavera di allori italiani.»37.


Il 7 maggio 1909 viene diffusa la lista definitiva delle iscrizioni: 166 nomi fra i quali, oltre ovviamente a tutti i campioni italiani, spiccano anche tedeschi, svizzeri, austriaci, argentini e russi. Forzando la mano con i rispettivi sponsor tecnici – che avrebbero preferito inviare i propri atleti al “Tour del Belgio”, un mercato commerciale molto più redditizio e un tracciato sicuramente meno sfiancante e pericoloso – hanno deciso di presentarsi pure fenomeni transalpini del calibro di Trousselier, Garrigou, Faber, Van Houwaert, Petit-Breton. Non mancano poi colpi di teatro come l’adesione del vecchio mito Romolo Buni, ritirato da quasi un decennio: ha 38 anni suonati, ma non è il più vecchio in lizza. Il bolognese Enrico Nanni va addirittura per i 4538.
A sospingere le registrazioni hanno contributo i molti premi speciali messi in palio dalle varie case del settore: il più ricco è quello promosso dalla Wolber, costruttrice di prenumatici, che offre 4.000 lire da dividere fra i corridori muniti di gomme “smontabili”, una novità rispetto ai più comuni tubolari. Quasi tutti i ciclisti gareggiano da “isolati” (pagandosi da sé le spese), benché si abbiano sei squadre ufficiali – frutto di geometrie variabili fra “macchine” e “vulcanizzati” – che stipendiano, foraggiano e sostengono i fuoriclasse professionisti: Ganna e Pavesi per la Atala-Dunlop; Gerbi e Rossignoli per la Bianchi-Dunlop; Galletti e Cuniolo per la Rudge Whitworth-Pirelli; Van Houwaert, Faber, Garrigou, Petit-Breton e Trousselier per la Stucchi-Persan,
Tutti comunque, indistintamente, hanno a disposizione lo stesso infernale mezzo: una bici da 15 chili con cerchioni in ferro e rapporto fisso, che non consente alleggerimenti in salita e costringe a continuare la pedalata anche in discesa. Sono peraltro obbligati a portarsi dietro gli attrezzi di riparazione, oltre ai “palmer” di scorta messi al torace. Unico conforto due borracce: una d’acqua….l’altra di vino, o a volte grappa, per i momenti più difficili39

Come avvenne realmente: l’edizione numero 1
Partenza alle 2h53 antimeridiane del 13 maggio 1909 dal Rondò (poi Piazzale) di Loreto: uno dei principali motivi di questo avvio in notturna risponde all’esigenza di evitare orari di punta per ingorghi di traffico e di tifosi. L’organizzazione non può contare infatti che su 2 autovetture – il resto della carovana sarà composto da altre quattro macchine per le squadre e due riservate alla stampa al seguito – e le forze dell’ordine garantiscono l’agibilità solo nei luoghi di inizio e fine della gara. Ma la ragione suprema della scelta deriva dalla titanica lunghezza delle tappe, la media è di 307 km a percorso, che impone percorrenze superiori alle 10 ore: unicamente attivando la corsa così presto, si ha allora la certezza che anche gli attardati arrivino con ancora qualche scampolo di luce. Sulla linea di via si dispongono 127 atleti, una quarantina in meno di quelli iscritti: mancano tra gli altri Van Houwaert, Faber e Garrigou. A tutti, compresi gli stranieri, viene distribuito un volantino – pubblicato già su “La Gazzetta” della vigilia – dall’esplicito sapore patriottardo:

«[…] Come corridori italiani avete il grande compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri compagni avversari degni ma legali e cortesi. Corridori! Concorrenti tutti! Più che il premio vi sia d’incitamento l’amore puro per lo sport. In questo amore, in questa passione sana e sincera, voi troverete le forze necessarie per vincere, per trionfare. Noi seguiremo le sorti della battaglia sereni ma fermi nell’idealità immacolata della giustizia. […] Ed ora correte, correte, correte: tutta l’Italia vuole vedervi, ammirarvi. Tutti sentono il bisogno di applaudirvi. Il vostro bel gesto di aver saputo osare segna l’inizio di una vittoria. In ognuno di voi c’è un trionfatore.»40

La prima tappa è anche la più lunga dell’intero circuito nazionale: 397 km!
Fra l’oscurità, la ressa di curiosi ed appassionati, la tensione, il “Giro” s’inaugura col botto, letteralmente. Il più atteso, il più osannato, il «beniamino dei beniamini» – come lo definisce la “rosea” – Giovanni Gerbi, cade subito per colpa di un bimbo tifoso che sfuggito al padre gli si è parato all’improvviso davanti. L’incidente è rovinoso, la bicicletta è letteralmente spezzata ed il regolamento ne impedisce la sostituzione. Il “diavolo rosso” ci mette tre ore a farsi riparare il mezzo alla buona, col ferro filato: riparte – a prescindere dal minutaggio di distacco, la classifica a punti gli consentirebbe un recupero nelle prove successive – e riesce ad arrivare al traguardo di Bologna. Ma è già sfinito, moralmente abbattuto e con con una bici sostanzialmente sbilenca: il suo “Giro”, per quanto riguarda le posizioni di vertice, è già concluso. Alla “Gazzetta” ciò appare di una gravità straziante:

«Il Primo Giro d’Italia ciclistico si è iniziato con un incidente drammatico. Non c’è sangue, non ci sono morti, ma non per questo il dramma è meno intenso e meno commovente, non per questo meno fosca vi appare l’ombra di ciò che gli antichi chiamavano «fato» […] e che a Napoli traducono «iettattura». […] Poche centinaia di metri: un bimbo avanti, un capitombolo, un piccolo groviglio di uomini e di macchine, poi tutti, uomini e macchine, si rialzeranno incolumi, tranne una macchina […]. Poi, nel primo chiarore dell’alba nascente, brancolerà un uomo, come sperso, in cerca di un vilissimo cerchio metallico da buttare in faccia alla Sfortuna, passerà un bronzeo volto rigato di lagrime e con la febbre negli occhi, in cerca di un volto amico, di una parola di conforto, di una leva, di un martello, di una fucina. La maglia rossa, usa ai trionfi, sembra sanguinare di strazio. […] Dopo più di tre ore la macchia rossa riprende la via, che poteva essere della vittoria e che diventa quella del Calvario.»41.

È l’inizio di una selezione darwiniana: Petit-Breton si schianta contro dei massi e si lussa una spalla. Continua stoicamente, conclude la tappa con un onorevole ventisettesimo posto, ma anche per lui i giochi sono subito chiusi. Contro ogni pronostico, a Bologna vince in volata lo sconosciuto diciannovenne Dario Beni. Il percorso ha richiesto la bellezza di 14 ore e 6 minuti, ed ha già “eliminato” 30 concorrenti.
Negli appuntamenti seguenti, a partire dai 378,5 km che dal capoluogo felsineo portano a Chieti, tutti gli atleti cadono e forano più volte. Pavesi va fuori strada, si ferisce gravemente ad una gamba e poi viene colto da un attacco di appendicite.  Trousselier, distrutto, si ritira durante la quinta prova. Ganna esaurisce le sue scorte di “palmer” e riesce a proseguire solo per la generosità di alcuni suoi compagni.
Proprio il campione di Induna Olona trionferà infine, risultando essere il più regolare (a podio in 6 tappe su 8) e chiudendo terzo a Milano dietro a Beni, che avrà così l’onore di conquistare sia la gara d’esordio sia l’epilogo del I° “Giro dItalia” della storia. Ganna vince per la sua costanza in un sistema a punti, ma se si fosse utilizzato il cronometraggio dei tempi, non sarebbe andato oltre il bronzo, con il gradino più alto ad appannaggio di Giovanni Rossignoli, finito invece addirittura terzo in classifica generale. Era d’altronde l’unico metodo realisticamente utilizzabile alla luce delle risorse di monitoraggio e della tecnologia di comunicazione dell’epoca, che non assicuravano un controllo continuativo ed integrale di tutte le fasi della corsa: l’alto rischio di truffe – quale quella molto frequente di “farsi dare un passaggio” in auto o in treno – e di imboscate tipo lo spargimento di chiodi sul selciato o la manomissione delle indicazioni stradali per sviare gli avversari, rendeva più conveniente “neutralizzare” i distacchi temporali, sulla cui origine effettiva non si poteva avere assoluta contezza, in favore di una distribuzione aritmetica sulla base dei piazzamenti di tappa.
Al netto di qualche marchiano strafalcione (come il modificare ripetutamente il luogo previsto per il traguardo senza avvisare tutti i commissari e le squadre), comunque imputabile ad inesperienza di fronte ad improvvise criticità logistiche, Cougnet si è dimostrato un perfetto direttore di gara. Ha avuto la brillante intuizione di fotografare ogni atleta alla partenza, in maniera da fugare ogni possibile dubbio sulla loro identità all’arrivo. Ha anche astutamente fissato i punti di firma e di dispaccio telegrafico presso le stazioni ferroviarie, sicuramente l’apparato statale meglio capillarizzato sull’intera Penisola. Sfruttando le pochissime autovetture a disposizione, ha saputo barcamenarsi fra testa e coda del gruppo, andando ad individuare volta per volta le problematiche maggiori, coadiuvandosi poi per la loro risoluzione con i compagni di viaggio Costamagna – negli aspetti di giuria – e Morgagni, cui toccava la doppia mansione di supervisione della prassi di appello e numerazione corridori, e di coordinamento con la redazione giornalista centrale.
Ma Cougnet è riuscito, soprattutto, a gestire le spaventose ed oceaniche folle che invadevano gli arrivi di ogni singola tappa. In special modo, nell’ultimo segmento di percorso verso l’epilogo di Milano, i numeri si fecero mostruosi, tanto da mettere in allarme le forze dell’ordine. Oltre mezzo milione di persone si era riversato per le strade della città sin dal primo mattino di quel 30 maggio 1909. Solo al parco Trotter ove era fissato il filo di lana, si contavano più di sessantamila spettatori in trepidante attesa: le strade erano letteralmente occluse dalla massa e per liberare il passo ai corridori vennero impegnati tutti i reparti dei carabinieri a disposizione. Addirittura, ci fu bisogno di richiamare uno squadrone di cavalleggeri, i Lancieri di Novara, per ristabilire un minimo di sicurezza e per scortare – al galoppo e con le drappello al vento – l’ultimo chilometro della volata finale. Divenendo loro malgrado parte del problema, quando l’inciampo di uno degli equini portò a terra molti atleti, fra i quali Rossignoli – che poi finirà settimo – ancora in lizza per la vittoria generale.    

  4. Il giorno dopo del successo dell’edizione numero 1  
Da questo incredibile ed insperato successo, peraltro coronato dal trionfo di un connazionale, vennero tratte svariate lezioni. La prima fu sicuramente che “La Gazzetta” s’era conquistata fama immortale nel panorama giornalistico e sportivo italiano, portando a perfetto compimento un’iniziativa da quasi tutti reputata improba, se non addirittura scellerata, per il suo spirito d’emulazione concorrenziale verso il mitico Tour de France42.
La seconda indicazione riguardava il passaggio definitivo ad un ciclismo di puro professionismo stipendiato dalle “squadre”, a discapito dell’eroico romanticismo dei pionieri amatori che avevano infiammato l’alba novecentesca con la loro “tantalica” ricerca dei “premi di gara”, a margine delle loro occupazioni prioritarie di muratore o di panettiere. Sul podio della classifica generale sono infatti giunti tre fra i più pagati, e meglio assistiti, corridori nostrani: punte di diamante delle équipes messe in piedi dai principali fornitori tecnici. Rossignoli per la Bianchi, Galetti con la Rudge e Ganna su bicicletta Atala, la quale conquistando il Giro aveva capitalizzato al massimo grado la “soffiata” passata a Tullo Morgagni l’anno precedente.
La diaria mensile del campione d’Induno Olona, per esempio, toccava la cifra “pazzesca” di 250 lire: solo il primato nel Giro gli era valso ben 5.325 lire – l’equivalente del reddito annuale di un alto funzionario statale – e alla fine del 1909 i suoi guadagni si attestavano oltre le 24.000 lire. Tanto da consentirgli tre anni dopo di creare una propria fabbrica di biciclette. In questo senso, la “girata di spalle degli Dei” di fronte alla prova della “stella individuale” Giovanni Gerbi43 – che mal s’era adattato a correre “sotto padrone”, al punto di decidere dal 1910 di organizzarsi in autonomia, fondando un team a suo nome – divenne l’emblema di tale staffetta storica. Eugenio Costamagna parve coglierne l’eclissi nel momento stesso del suo ritiro durante la tappa Firenze-Genova: «ultima appare la maglia rossa tanto celebrata; essa è in uno stato pietoso: la pedalata è pesante, sembra il trotterello di un cavallo malandato; gli occhi dell’astigiano sono pieni di pianto: non potrà continuare, eppure passa come un soldato della vecchia guardia»44. A parte un paio di corse minori e due terzi posti nei Giri 1911 e 1912, il “diavolo rosso” non strapperà più nessun trionfo per il resto della sua carriera.
È l’affermazione dell’industria ciclistica sull’artigianato velocipedistico: battendo forte sul ruolo giocato nel Giro, e poi sempre più intensamente sulle vittorie in classiche e grandi circuiti successivi, le case costruttrici arrivano a raddoppiare le vendite nel lasso di un decennio. Nel 1919 si conteranno 1 milione 300 mila biciclette in circolazione, contro le sole 600 mila del 1909.  
Ma il più magniloquente risultato del circuito a tappe è sicuramente la realizzazione di una grande evento finalmente nazionale e trasversalmente popolare: un’autentica impresa in un Paese ancora monco, slegato e fragilissimo, com’era il Regno d’Italia creato appena quarant’anni prima, per fanatica volontà di una ristrettissima élite di notabili e di combattenti garibaldini.
La stessa Chiesa cattolica, che restava ufficialmente in conflitto con lo Stato sabaudo per la famigerata questione di “Roma capitale” e che dalla sua invenzione aveva interdetto l’utilizzo della bicicletta ai preti – considerandola un indecoroso mezzo e un veicolo di spirito anarchico – ne era rimasta condizionata, cominciando da quel momento a maturare una più aperta posizione, confluita infine nel pieno “sdoganamento” operato da Benedetto XV nel 191445.
A sancirne più emblematicamente l’inedito dispiegamento sociale e a ribadirne l’inopinata valenza di palingenesi nazionale, è probabilmente l’eclettico intellettuale Renato Simoni, non certo un “uomo d’area sportiva”, il quale dispensa un lungo, e forse definitivo, articolo sul “Corriere della Sera” in concomitanza con l’ultimo giorno del Giro:

«Si discute molto intorno alla curiosità febbrile e alla passione entusiastica che il Giro d’Italia ha acceso nelle folle. […] Il più discusso è il pubblico. Lo si vede affollato davanti ai bollettini della corsa, fremere, animarsi, litigare, gridare, acclamare, protestare; lo si sente parlar della gara dappertutto, stringere amicizia col vicino di tram per scambiare impressioni sull’estrema probabilità di vittoria […].
Ci sono stai dei momenti, quando si attendevano i telegrammi con la successione degli arrivi, che a Milano come altrove, mezza città si distraeva dalle sue cure, levava la testa dai suoi affari, per chiedere: «Chi è il primo?».
Abbiamo tutti sentito questa agitazione focosa, questo anelito verso il rombo della vittoria ignota, verso il nome che doveva scattar fuori dalle tumultuose scommesse e dalle flottanti supposizioni. E alla sera, al fresco, pei viali arborati dei bastioni, al parco, i ragazzi, questi pronti imitatori dei fatti più sonori e più celebri, facevan stridere le cento ruote delle loro biciclette, èri di gara, ripetendo i bei nomi popolari dei vincitori probabili con lo stesso ardore con il quale altre generazioni più ristrette e più raccolte e più fine sognarono e sognano dopo l’Iliade bagliori di armi eroiche e dopo la Gerusalemme spade generose e donne cavalleresche.»46.

Note

  1. Cfr. Gianni Rossi, Quel Giro d’Italia del Novecento. I campioni del secolo scorso in una corsa da sogno, Portogruaro, Ediciclo, 2007; Pier Bergonzi e Elio Trifari (a cura di), Un secolo di passioni. Giro d’Italia 1909-2009, Milano, Rizzoli, 2009; Giacomo Pellizzari, Storia e geografia del Giro d’Italia, Torino, Utet, 2017; Dino Buzzati, Dino Buzzati al Giro d’Italia, Milano, Mondadori, 2018.
  2. Sul ruolo de “La Gazzetta dello Sport” – organizzatrice del “Giro d’Italia” – dentro al costituirsi di una industria editoriale italiana volta alla comunicazione di massa, si vedano: Valerio Castronovo, Luciana Giacheri Fossati e Nicola Tranfaglia (a cura di), Storia della stampa italiana nell’età liberale, Roma-Bari, Laterza, 1979; Andrea Sangiovanni, Le parole e le figure. Storia dei media in Italia dall’età liberale alla seconda guerra mondiale, Roma, Donzelli, 2012.
  3. Si vedano, a titolo esemplificativo, le errate retro-datazioni (fino al 7 agosto 1908) relative alla prima dichiarazione pubblica sull’intenzione di organizzare il “Giro d’Italia” da parte de “La Gazzetta dello Sport”, in volumi ad ampia diffusione popolare: cfr. Gioacchino Lanotte e Paolo Colombo, La Corsa del secolo. Cent’anni di storia italiana attraverso il Giro, Milano, Mondadori, 2017; Laura Grandi e Stefano Tettamanti (a cura di), Hai voluto la bicicletta. Il piacere della fatica, Palermo, Sellerio, 2015. O ancora, si veda la persistente ed aberrata attribuzione ad Armando Cougnet dell’invenzione (per di più in solitaria) del Giro: Remo Bassetti, Storia e storie dello sport in Italia: dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio 1999. Più di tutto, in generale, colpisce la lacuna di lavori monografici sui tre artefici della nascita del “Giro d’Italia”, solo parzialmente colmata da: Domenico Guzzo, Tullo Morgagni. Il giornalista “volante” che inventò il Giro d’Italia, Gorizia, LEG, 2021.
  4. Cfr. Martin Atherton, The Theft of the Jules Rimet Trophy. The Hidden History of the 1966 World Cup, Aachen, Meyer & Meyer Sport, 2008. In ambito mass-mediale, si vedano: Fabio Bianchi, Continua la maledizione della Rimet rubata, in “La Gazzetta dello Sport”, 11 novembre 2003; Maria Pia Fusco, L’incredibile storia della Coppa Rimet, in “la Repubblica”, 16 giugno 2010; O Roubo da Taça, regia di Caito Ortiz, Prodigo Films, 2016.
  5. M. Sánchez Santiago, Jules Rimet y el origen de los mundiales de fútbol (1930-1954), in  “AGON: International Journal of Sport Sciences”, n. 2, 2015, pp. 99-113; Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti, Storia della Coppa del Mondo di Calcio (1930-2018), Firenze, Le Monnier, 2018.
  6. Cfr. Mauro Miccio, Comunicazione, evoluzione e denari nel calcio, in “Analisi giuridica dell’economia”, n. 2, 2005, pp. 521-528.
  7. Basti il riferimento ai “Tre Moschettieri” (Luigi Ganna, Carlo Galletti, Eberardo Pavesi), già celeberrimi e professionisti almeno dal 1907. Cfr. Federico Boggiano, L’Avocatt e i suoi Ramarri: l’epopea del ciclismo vista da Eberardo Pavesi, Arenzano, Caroggio, 2003; Claudio Gregori, Luigi Ganna. Il romanzo del vincitore del primo Giro d’Italia del 1909, Milano, Vallardi, 2009.
  8. Del ruolo dimenticato di Morgagni, testimonia lo stesso Cougent: «Il colpo magistrale dell’improvviso e tempestivo lancio del Giro d’Italia nell’agosto del 1908 va tutto a suo onore. Io come amministratore, Costamagna come direttore, accettammo ed approvammo il fatto compiuto», cfr. Armando Cougnet, Tullo Morgagni, in “Ciclismo illustrato”, luglio 1948.
  9. La testata verrà rilevata dal S.E.I. (Società Editoriale Italiana) del gruppo Verso Della Torre-Pontremoli, già proprietario de “Il Secolo” di Milano e de “Il Messaggero” di Roma.
  10. L’edizione del 1912 suscitò grandi polemiche e fu malamente accolta dal pubblico, per via della formula “a squadre” (che annullava i protagonismi individuali) e della mancanza di competizione (l’équipe Atala-Dunlop stravinse senza resistenza alcuna). Cfr. Cosa ha insegnato il “4° Giro d’Italia”, in “Corriere della Sera”, 7 giugno 1912.
  11. Si tenga conto che Costamagna era stato addirittura il fondatore della Rosea, nel 1896, nonché il coraggioso reclutatore di Cougnet (1902) e Morgagni (1905) quando erano ancora novizi imberbi.
  12. Le edizioni del 1913 e 1914 saranno peraltro funestate da alcune gravi sviste organizzative (in particolare nelle tappe del Sud Italia) e da una eccessiva durezza del percorso (solo 8 corridori concluderanno il Giro del 1914).
  13. In alcuni casi, soprattutto nelle zone del Triveneto, le devastazioni di ponti e strade costrinsero gli atleti ad avanzare a piedi con le bici in spalla.
  14. Il salto di qualità di questa edizione è segnalato dal deposito legale del marchio “Giro d’Italia” da parte de “La Gazzetta dello Sport” e dalla prima copertura filmica integrale (per farne rotocalchi da proiettare nei cinema nazionali) della competizione.
  15. Cinque vittorie finali per Binda e due per Girardengo, tra il 1919 al 1928.
  16. Nel 1913, chiusa l’esperienza in “Gazzetta”, Costamagna aveva fondato a Torino “Lo Sport del Popolo”, stampato anch’esso su carta rosa, supplemento della preesistente “La Gazzetta del Popolo”.
  17. Cfr. Catastrofe aviatoria nei cieli di Verona, in “Corriere della Sera”, 3 agosto 1919.
  18. Nel 1917, Morgagni aveva fondato la più importante rivista nazionale di divulgazione aeronautica, “Nel Cielo”, che era poi stata il motore organizzativo della prima Mostra Aviatoria rivolta al civile (Taliedo, maggio-agosto 1919), una volta conclusa la Grande Guerra. Cfr. La Mostra di Taliedo e i voli del pubblico, in “Corriere della Sera”, 15 giugno 1919.
  19. Al punto che neppure il quotidiano di Torino, “La Stampa”, si premurò di riportarne il necrologio.
  20. Cfr. Carlo Montù, In memoria di Tullo Morgagni, Roma, Tipografia del Senato, 1919.
  21. Benito Mussolini aveva una particolare predilezione per la memoria di Tullo Morgagni, in ragione della comune origine forlivese e, soprattutto, del ruolo di Manlio Morgagni, fratello maggiore di Tullo, fidatissimo braccio destro del futuro dittatore sin dal 1914 (sarà l’unico gerarca a suicidarsi alla notizia della deposizione di Mussolini, il 25 luglio 1943). Cfr. Domenico Guzzo, La ricerca della modernità: Luigi Ridolfi, Tullo e Manlio Morgagni, in Giovanni Tassani (a cura di), Romagna in trasformazione: Forlì e il forlivese dal dopoguerra al regime, 1919-1932, Forlì, Grafikamente, 2019, pp. 329-345.
  22. Per l’esempio massimo di glorificazione ad uso propagandistico del regime fascista, si veda: Orazio Marcheselli, Un’ala nel cielo: Tullo Morgagni giornalista aviatore, Roma, Ufficio editoriale aeronautico, 1941.
  23. Questione distorcente, forse non a caso, ben notata soltanto da uno sguardo estero: cfr. Pierre Carrey, Giro. La course la plus dure du monde dans le plus beau Pays du monde, Paris, Hugo Sport, 2019.
  24. Domenico Guzzo, Tullo Morgagni, cit., pp. 35-65.
  25. Al “Corriere della Sera” continuava a mancare oltremodo una vetrina esclusiva nella crescente passione popolare per lo sport: si guardava in particolare all’enorme ritorno mediatico ottenuto dal giornale generalista francese “Le Matin”, che aveva organizzato nel 1907 il celeberrimo “Raid Pechino-Parigi” in automobile, peraltro vinto da un equipaggio italiano composto anche dal giornalista de “Il Corriere”, Luigi Barzini.
  26. Lo stava a dimostrare il foglio francese “L’Auto” che, dopo anni di totale soccombenza, era riuscito nel solo giro di 10 mesi a portare al fallimento il suo acerrimo rivale “Le Vélo”, grazie all’esplosione di vendite determinata dall’invenzione del “Tour de France”.
  27. Domenico Guzzo, Tullo Morgagni, cit., p. 86.
  28. I° ANNO: IL GIRO D’ITALIA organizzato dalla “Gazzetta dello Sport”. 3000km – 25.000 lire di premi, in “La Gazzetta dello Sport”, 24 agosto 1908.
  29. Magno (Eugenio Costamagna), L’onda invincibile, ivi.
  30. Il Percorso, ivi.
  31. Un saluto e un augurio, ivi.
  32. Una tregua di riserbo, in “La Gazzetta dello Sport”, 7 settembre 1908.
  33. L’antesignana, nata nel 1894, della Federazione Ciclistica italiana.
  34. Domenico Guzzo, Tullo Morgagni, cit., p. 88-91.
  35. Daniele Marchesini, Benito Mazzi, Romano Spada, Palmèr, borraccia e via! Storia e leggende della bicicletta e del ciclismo, Portogruaro, Ediciclo, 2001, p. 139.
  36. Il Giro d’Italia. L’apertura delle iscrizioni, in “Corriere della Sera”, 9 febbraio 1909.
  37. Primavera di vittoria, in “La Gazzetta dello Sport”, 5 aprile 1909.
  38. Il Giro d’Italia. Corsa ciclistica internazionale organizzata dalla “Gazzetta dello Sport”. La chiusura delle iscrizioni!, in “La Gazzetta dello Sport”, 7 maggio 1909.
  39. Gabriele Gargantini, La gran storia del primo Giro d’Italia, in “Il Post”, 21 maggio 2017.
  40. Domenico Guzzo, Tullo Morgagni, cit., p. 98.
  41. La prima tappa del Giro d’Italia – Il dramma di Gerbi, in “La Gazzetta dello Sport”, 14 maggio 1908.
  42. Le naturali auto-celebrazioni de “La Gazzetta” furono accompagnate da un coro di applausi anche da parte di agguerrite testate sportive concorrenti. Cfr. Il successo del Giro d’Italia, in “La Gazzetta dello Sport”, 31 maggio 1909; Corrado Corradini, Rientrando dal Giro d’Italia, in “La Stampa sportiva”, 6 giugno 1909.
  43. Cfr. Carlo Fontanelli e Giampiero Petrucci, Le imprese del “Diavolo Rosso” Giovanni Gerbi, Empoli, Geo Edizioni, 2000.
  44. Così nel resoconto di gara apparso nell’edizione del 26 maggio 1909.
  45. Cfr. Alejandro M. Dieguez, Antonella Stelitano e Quirino Bortolato, Bicicletta, società e Chiesa ai tempi di Pio X, Treviso, San Liberale, 2014.
  46. Renato Simoni, Il “Giro d’Italia” e il popolo, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 1909.

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