Dai fiordi scandinavi alle selve boeme: Nation building attraverso la musica
Carlo Vitali, Dai fiordi scandinavi alle selve boeme: Nation building attraverso la musica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 18, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9658
“Ora siamo tre fratelli uniti/ e così deve restare!”. Fratelli un po’ coltelli erano stati a lungo i tre Stati scandinavi: Danimarca, Svezia e Norvegia, legati da affinità linguistiche e religiose ma divisi da faide dinastiche, interessi economici e alleanze internazionali. Nel 1868, quando il futuro premio Nobel Bjørnstjerne Bjørnson incluse quel distico beneaugurante nell’inno nazionale norvegese Ja, vi elsker dette landet (Sì, noi amiamo questo paese), le note esistevano già da quattro anni; le aveva composte, in severo stile di corale luterano, suo cugino Rikard Nordraak.
Per il giovane Rikard, ardente patriota norvegese, la costruzione di un’identità nazionale passava anche dall’acculturazione del patrimonio musicale popolare in risposta alla soffocante egemonia di sinfonismo e camerismo tedesco, melodramma italiano e grand opéra francese: ideale romantico allora declinato in vari accenti dalla Spagna alla Mitteleuropa e dai Balcani alla Russia. Prima di morire ventiquattrenne in un sanatorio di quella Berlino dove aveva affinato la propria tecnica musicale, Nordraak riuscì a conquistare alla causa il coetaneo Edvard Grieg, anch’egli reduce da una solida formazione tedesca (1858-1862) al Conservatorio di Lipsia sotto la guida di Ernst Richter e Moritz Hauptmann. Gli stessi maestri a cui, dal 1863 al 1867, Johan Svendsen si affiderà per essere iniziato ai misteri del contrappunto severo. Sì, c’è molta Germania e anche un po’ d’Italia in questi albori della scuola musicale norvegese. Volendo potremmo aggiungere al catalogo la madre e prima maestra di Grieg: Gesine Hagerup, che negli anni Venti dell’Ottocento aveva preso lezioni da Albert Methfessel, Stadtmusikdirektor di Amburgo, squisito pianista nonché cantante di formazione italiana alla scuola del castrato umbro Francesco Ceccarelli, già buon amico di Mozart. Per non parlare di Ole Bull, “il Paganini del Nord”, zio acquisito di Grieg e fiero propugnatore dell’irredentismo norvegese. Alla radice del suo successo globale stavano le lezioni di Louis Spohr e di Heinrich Wilhelm Ernst, un allievo ceco (appunto) di Paganini.
Non poteva essere altrimenti. La Norvegia di metà Ottocento conta appena 1,5 milioni di abitanti e due centri urbani dove vive un sottile strato di borghesia colta: Christiania (oggi Oslo) e Bergen. Tutti i personaggi fin qui evocati sono nati e/o vissuti a lungo in quelle due città, cui se ne deve aggiungere una terza: Copenhagen, capitale decaduta di un impero marittimo dano-norvegese che comprendeva la Groenlandia, l’Islanda e le isole Fær Øer, più varie colonie indiane, caraibiche e africane. Durò dal 1523 al 1814, quando, per punire la Danimarca filo-bonapartista, il Congresso di Vienna decretò l’unione della Norvegia con la Svezia sotto lo scettro di Jean-Baptiste Bernadotte, un maresciallo di Napoleone passato al nemico. Fra queste carambole della Storia il fratellino minore della famiglia scandinava si barcamenò alla meglio. Perduranti legami economico-linguistici col fratello danese diseredato, ostilità e rivolte contro il fratellone svedese pigliatutto, e così via fino al 1905, quando ottenne pacificamente la sospirata indipendenza. Perciò non sorprende che per i Norvegesi gran parte della cultura patria, inclusa la figura fondativa del drammaturgo illuminista Ludvig Holberg (Bergen 1684 – Copenaghen 1754), passi per la Danimarca e per il suo retroterra nord-germanico e protestante: Amburgo, Berlino, Lipsia, Dresda.
A Copenhagen Grieg abitò, dopo la parentesi di studio a Lipsia e una breve rimpatriata nella natìa Bergen, dal 1863 al 1869, spinto – come egli stesso ebbe a scrivere – da “un desiderio indefinibile”. Soggiorno carico di destino, perché proprio nella nutrita comunità artistica della capitale danese Grieg assorbì da Nordraak i germi teorici di un Risorgimento musicale norvegese e, incoraggiato da Niels Gade, compose la sua prima ed unica sinfonia ma soprattutto le quattro Humoresker Op. 6, sostanziosa primizia della sua conversione dal classicismo tedesco ad uno “stile nordico” basato sugli apporti del folklore scandinavo. La fratellanza ancora molto problematica preconizzata da Bjørnson sarà anticipata dai primi Festival della Musica Nordica, celebrati a Copenhagen nel 1888, a Stoccolma nel 1897 e a Bergen nel 1898; qui sotto la presidenza dello stesso Grieg ormai promosso a bardo della nazione e monumento vivente.
A Copenhagen trascorse la maggior parte della sua lunga esistenza (in ultimo come Kapellmeister della corte danese) anche Svendsen, autore fra l’altro di quattro Rapsodie norvegesi per grande orchestra. Solo poco prima della sua morte nel 1911 – lui che aveva girato il mondo in tournée, aveva sposato un’americana e generato un figlio naturale che diventò il più celebre attore danese del Novecento – poté intestarsi un passaporto del neonato Regno di Norvegia: indipendente e pacifico sotto lo scettro costituzionale di re Haakon VII, figlio di un re danese e di una principessa svedese.
Certo né Grieg né Svendsen immaginavano un simile lieto fine mentre sudavano sugli esercizi di contrappunto nelle austere aule del Conservatorio di Lipsia. Con esiti diversi, perché Grieg giudicò deludente la didattica dell’orchestrazione ivi impartita, ma Svensen si inserì meglio nell’ambiente. Quando una nevrite al mignolo della mano sinistra spezzò il suo sogno di laurearsi violinista nella classe del grande virtuoso Ferdinand David, si dedicò con accresciuto impegno alla composizione. Nel 1865 il suo Quartetto d’archi in La minore esordì col botto: lo stesso David e altre stelle dell’orchestra del Gewandhaus, che al quartetto d’archi si dedicavano volentieri in privato, predissero al venticinquenne allievo una fulgida carriera: il suo còmpito fu pubblicato come opera 1, presto seguita dall’Ottetto Op. 3 (1866) e dal Quintetto Op. 5 (1867). Pioggia di premi, esecuzioni pubbliche e recensioni, ma nonostante il precoce successo Svendsen chiuderà qui la sua produzione cameristica per dedicarsi principalmente all’orchestra nella doppia veste di compositore e direttore. Altro frutto del soggiorno lipsiense è la sua Sinfonia in Re maggiore Op. 4; dopo la prima esecuzione a Christiania il 12 ottobre 1867, Grieg ne rimase così sconvolto da chiudere nel cassetto la propria in Do minore, composta quattro anni prima a Copenhagen.
Restarono comunque ottimi amici, ma da quel punto i loro percorsi stilistici si divaricarono, e le ragioni si possono già scorgere nel giovanile Quartetto Op. 1. Svendsen aveva tutto quello che mancava al più geniale Grieg: un acuto istinto della simmetria formale, il gusto dell’arco tematico lungo e ben sviluppato, quella capacità di abbandono al canto spianato che trionferà nel suo brano più celebre, la Romance in Sol maggiore per violino e orchestra Op. 26 (1881). I movimenti veloci del Quartetto (Allegro, Allegro scherzando e Allegro assai con fuoco) alternano raffinati intrecci delle parti a spunti ritmati di danza e parentesi più meditative; l’Andantino dall’incesso di Lied effonde un educato mix di lirismo e dramma. Non ci sono grandi originalità armoniche ma nemmeno ripiegamenti sui sentieri più battuti del classicismo accademico.
Accademico per obbligo è invece il compitino di un Grieg appena diciottenne: una fuga a quattro voci segnata Allegro con fuoco, dove nulla manca di quanto si richiedeva dai Maestri. Soggetto, controsoggetto, divertimento, ripresa, stretto e coda compressi in una miniatura di tre minuti, ma a colpire è anzitutto il soggetto enunciato in apertura dalla viola: un incisivo motto cromatico di cinque note su cui s’ingrana un rapido passaggio in terzine.
Ci si può infine chiedere cosa abbia indotto le signore del Vertavo String Quartet (Øyvor Volle e Annabelle Meare violini, Berit Cardas viola, Bjørg Lewis violoncello; nella foto) ad accoppiare nel loro usuale repertorio tali incunaboli ancora acerbi di Nordisk Musik col notissimo testamento spirituale di un Bedřich Smetana ormai sulle soglie della senilità e di un devastante collasso psicofisico: il Quartetto in Mi minore Z mého života (Dalla mia vita). Affinità di materia quanto alla musica come strumento di nation building? Ma l’irredentismo boemo fu storia ben più tragica, segnata da guerre totali, occupazioni straniere e cancellazioni culturali in una sorta di etnocidio strisciante durato secoli. La motivazione si può forse cercare in un dettaglio della biografia di Smetana, migrante economico (e/o profugo politico) dal 1856 al 1861. Trovò rifugio in Svezia e precisamente a Göteborg, dove insegnò musica, diresse cori e cominciò a comporre nel grande formato orchestrale. Che un’esile radice delle celebrate scuole nazionali slave affondi in suolo scandinavo non pare senza significato per gli Europei di oggi.
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