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Il servizio sanitario militare in Francia nelle prime fasi della Grande Guerra: la Relazione Sanarelli
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Il servizio sanitario militare in Francia nelle prime fasi della Grande Guerra: la Relazione Sanarelli
Come citare questo articolo:
Stefano Orazi, Il servizio sanitario militare in Francia nelle prime fasi della Grande Guerra: la Relazione Sanarelli, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 4, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9804

Il contesto storico
Le dimensioni, la dilatazione dei tempi e i nuovi mezzi in uso nel primo conflitto mondiale (aerei da bombardamento, impiego di gas tossici), avevano creato una inattesa situazione, che richiedeva una organizzazione sanitaria civile e militare al passo con i tempi moderni1. Dato il “vasto campionario di nuove lesioni e tipologie di ferite, la sanità militare doveva cercare di rispondere con adeguate tecniche sanitarie”2, cosa che non avvenne subito, tanto è vero che ovunque, in Europa, l’opinione pubblica denunciò i ritardi dell’organizzazione sanitaria militare al fronte3. Alla prova del fuoco, persino la Germania si stava trovando in difficoltà, per quanto beneficiasse di un servizio di sanità militare che godeva di grande prestigio e autonomia4, ereditato dall’organizzazione prussiana – i cui vertici potevano riferire direttamente all’Imperatore – e perfezionato dalla scienza medica tedesca. Nel corso delle ostilità si aggiunsero anche le critiche rivolte dai medici francesi e inglesi ai colleghi tedeschi, considerati «criminali di guerra» per non aver programmato e garantito le minime condizioni igieniche nei campi di prigionia e favorendo così le epidemie, a cominciare dalla tubercolosi5.
Ancor più in Francia, dopo la prima battaglia della Marna, i servizi sanitari dell’esercito erano stati posti sotto accusa dalla stampa e messi in discussione nelle commissioni parlamentari del Senato (7 luglio 1915) e alla Camera dei Deputati (18 agosto 1915); in particolare si criticò l’opera, considerata fiacca e inconcludente, del ministro della guerra Alexandre Millerand (nel 1920 presidente della Repubblica), ritenuto non all’altezza del particolare, tragico momento6. Altrettanto forti sono stati i giudizi degli storici contemporanei francesi. Antoine Prost, appena per fare un nome, non ha esitato ad ammettere: “Les premiers mois de la guerre sont placés sous le insigne de l’improvisation”7.
Tuttavia a quell’epoca il dibattito, che nelle aule del Parlamento era divenuto rovente, non si spinse fino alle estreme conseguenze di una crisi politica, che si scongiurò grazie all’abilità oratoria del presidente del Consiglio dei Ministri, René Viviani, e per il fatto che a quelle manchevolezze, a distanza di un anno dalle prime dichiarazioni di guerra, si era posto sostanzialmente riparo8: uno sforzo notevole, che oltre a colmare gravi lacune sanitarie venne a destare la curiosità e l’interesse dell’Italia, dove le richieste del personale e del materiale sanitario risultavano sempre più elevate9 e la governabilità del frammentato sistema sanitario delle forze armate mobilitate si mostrava, almeno fino al 1916, alquanto problematica10. Le truppe dell’esercito italiano vennero inoltre pesantemente colpite dall’aumento delle malattie infettive, dalla tisi11 all’infezione malarica, che si andava sempre più diffondendo12.
Pur con il vantaggio temporale del periodo della neutralità, fin dai primi mesi dal suo ingresso in guerra l’Italia si era dunque imbattuta in molti dei problemi che avevano già afflitto mesi prima gli alleati francesi. Il 1° agosto 1915 ecco cosa scriveva al Comando Supremo, al punto 9 della sua Relazione, l’Intendente Generale dell’esercito Vittorio Alfieri: “Si è riconosciuta l’impossibilità, dato l’odierno sviluppo delle operazioni e le limitate capacità di ricovero degli ospedali di riserva della zona di guerra, di poter trattenere in osservazioni tutti i feriti provenienti dal fronte delle due armate, seconda e terza. […] Gli argomenti e i provvedimenti su esposti hanno tale gravità e urgenza che si rende necessario darne immediata loro esplicazione pratica”13. Nelle zone di prima linea solo “tra l’agosto e il settembre del 1917 il servizio di sgombero dei malati e feriti aveva raggiunto un regolare funzionamento”14. Come è stato recentemente osservato, “resta ancora molto da indagare sui motivi dei ritardi nell’organizzazione di un piano efficace di intervento”15.

La missione di studi sanitari
Le generali e immediate difficoltà createsi a seguito della partecipazione dell’Italia al conflitto indussero Alberto Lutrario, direttore generale della sanità pubblica, con il benestare del presidente del consiglio Antonio Salandra, ad affidare nel 1915 a Giuseppe Sanarelli (1864-1940)16 una missione di studi che il celebre medico e politico svolse in Francia nell’estate di quell’anno al fine precipuo di esaminare il sistema dei servizi sanitari e profilattici in ambito civile e militare, comprese “le varie provvidenze e istituzioni promosse e attuate in relazione alle necessità sorte dalla presente guerra”17. Per poter svolgere al meglio tale compito, Sanarelli farà sapere a Lutrario di essersi recato nelle città e nei centri transalpini più importanti, sedi di formazioni sanitarie, di depositi, di presidi profilattici, “di vettovagliamenti, di indumenti, di istituti fisio-terapici di varia indole, di laboratori, di scuole per la rieducazione professionale dei mutilati, dei ciechi ecc., nonché al Grande Quartiere Generale dell’Esercito, che ha sede in Chantilly, ove ho avuto la possibilità di prendere visione di tutto quanto riguarda le misure preventive adottate dalla Direzione di Sanità dell’Armata, dal principio della guerra ad oggi. Le città e le località da me visitate furono le seguenti: Parigi, Chantilly, Enghiem, Vanves, Saint Cyr, Senlis, Compiègne, Montdidier, Amiens, Doullens, Aubigny, Arras, Saint Pol, Breteuil, Saint Just, Clermont, Creil, Château-Thierry, Reims e Lione”18.
In Italia le collaborazioni scientifiche non costituivano una rilevante novità: prima della guerra medici e igienisti avevano già operato come consulenti nelle commissioni di studio sorte dopo l’istituzione della Direzione di Sanità (1887) alle dipendenze del ministero dell’Interno19. A ridosso del primo conflitto mondiale non solo Sanarelli ma numerosi altri accademici e politici si erano impegnati nel promuovere corsi di formazione del comparto sanitario militare al fine di tutelare la salute del soldato italiano in previsione di una prossima mobilitazione. Di più: nel 1915 era stata appositamente pubblicata una collezione di ventiquattro volumetti intitolati Problemi sanitari di guerra [Ravà editore], sotto la direzione di un Comitato presieduto dal celebre patologo Alessandro Lustig, arruolatosi volontario, “e composto dai professori Burci, senatore Carle, Galeazzi, Livi, Putti e dal generale medico di marina Rho”20. Se poi vogliamo allargare lo sguardo al contesto internazionale è opportuno ricordare che durante la prima guerra mondiale vi fu nei Paesi belligeranti una cooperazione di tanti medici e igienisti militari, di carriera e di complemento, italiani e stranieri, che si unirono nello sforzo primario di salvare vite umane e ricavare utili esperienze tecniche e pratiche sul fronte di battaglia21. Oltre a Sanarelli, si recarono in Francia il batteriologo Alexandre Fleming il biochimico Gerhard Domagk, il chirurgo Harvey Cushing, il neurologo Vincenzo Bianchi.
Nelle escursioni effettuate “nella zona del campo trincerato di Parigi, ma anche nella zona di guerra del nord e dell’est”22, ovvero nel cuore della prima guerra mondiale, il neo-direttore dell’Istituto di Igiene di Roma23 ebbe modo di raccogliere una serie di informazioni, sia in prima persona, sia avvalendosi di quelle fornite da suoi colleghi francesi e inglesi, che sarebbero potute risultare di sicuro interesse anche all’Italia, dal momento che, nell’estate 1915, il Paese si trovava di fronte agli stessi problemi “di indole sanitaria e sociale che in Francia, da oltre un anno, erano oggetto di provvidenze assidue da parte dei pubblici poteri”24. Del resto, in un discorso tenuto il 23 gennaio 1915 all’Università di Roma poi pubblicato nella rivista “Nuova Antologia”, Sanarelli aveva già posto in evidenza i rischi sanitari e le problematiche sociali generate dalla modernizzazione e dalla crescita tecnologica25. Non solo. Nel mese di aprile aveva tenuto anche una lezione sull’importanza dell’igiene individuale a seguito dell’evidenziarsi di casi di natura tifoide26, che nelle prime fasi del conflitto si sarebbero potuti facilmente intensificare tra i soldati, come infatti fu, data la scarsa pulizia nei ricoveri militari e nelle trincee.
La Relazione del prof. G. Sanarelli, direttore dell’Istituto di Igiene della R. Università di Roma, intorno alla sua missione sanitaria in Francia, redatta in 73 pagine dattiloscritte e suddivisa in dodici paragrafi, venne consegnata dall’autore stesso ad Alberto Lutrario i primi giorni di ottobre di quell’anno. Molto correttamente Sanarelli avvertì Lutrario che la Relazione presentava “dati, formule, provvedimenti, che sono stati affidati alla mia discrezione personale e dai quali, per ora almeno, non credo che si desidererebbe la divulgazione”27. Conosciuta all’Ambasciata d’Italia a Parigi e richiesta dal ministero dell’Interno28, venne subito positivamente valutata dal direttore generale della sanità pubblica29: essa conteneva notizie oggettive e particolareggiate raccolte nelle zone di guerra, negli istituti di riabilitazione e di cura, nei centri di salute pubblica, negli ospedali e nelle caserme francesi riguardo alle condizioni della sanità militare transalpina nella prima fase del conflitto. Ma poi la Relazione del direttore dell’Istituto di Igiene di Roma non andò oltre l’apprezzamento di Lutrario: di fatto essa è rimasta inedita fino ad oggi e nel silenzio della storiografia di settore. Considerato il tragico contesto bellico all’epoca in corso, Sanarelli stesso suggerì di non renderla pubblica, evitando al governo italiano di dover rispondere a questioni “scomode” che nei primi mesi di guerra avevano già messo in gravi difficoltà le autorità sanitarie francesi, impossibilitate a soccorrere adeguatamente ingenti quantità di feriti, come del resto impreparati erano tutti gli Stati coinvolti nel conflitto. A questo proposito, egli osserverà: “Nessuno aveva previsto la formidabile quantità di feriti che rimangono oggi sul terreno dopo le grandi battaglie, che hanno anche la durata di più giorni. La battaglia di Charleroi [22 agosto 1914] aveva gettato inopinatamente nelle ambulanze ben 26.000 feriti; la battaglia della Marna, sopravvenuta pochi giorni dopo, altri 200.000”30.
Dal 26 settembre al 20 novembre 1916, il direttore dell’Istituto di Igiene di Roma si recava nuovamente a ridosso della principale linea del fuoco, tra Parigi e il confine tedesco, al fine di acquisire ulteriori informazioni su eventuali sviluppi organizzativi dei servizi sanitari militari francesi (provvedimenti, progetti ecc.). Importanti si rivelarono ancora una volta i suoi antichi e consolidati rapporti con l’Istituto Pasteur, divenuto per lui un punto di riferimento indiscusso e al quale egli rimase profondamente legato31. Dal 1892 al 1894 Sanarelli aveva infatti assiduamente lavorato nella capitale francese, alle dipendenze di Louis Pasteur, che di lui dirà: “Noi abbiamo potuto apprezzare nel dr. Sanarelli tali qualità che gli assicurarono una posizione distinta fra i microbiologi. Il suo amore per la scienza, la sua esattezza e la perspicacia, di cui ha dato prova nei suoi lavori scientifici, gli hanno meritato l’appoggio che io sono felice di accordargli”32. Tra l’altro all’Istituto Pasteur aveva condotto a termine fondamentali lavori “sui vibrioni simil-colerici e sulla febbre tifoide sperimentale”33 che torneranno a lui utili nelle indagini condotte sui soldati francesi durante la Grande Guerra, al pari di altri studi avviati già nel 1913 e proseguiti durante e dopo il conflitto mondiale, sulla concezione dell’eredo-immunità della tubercolosi, in tempi in cui, all’opposto, si sosteneva la tesi della predisposizione alla malattia34. Nel 1915 la sua fama aveva ormai varcato

i confini della patria, ed aveva acquistato all’estero chiara rinomanza. Durante la guerra prestò servizio militare. Fu ufficiale medico superiore e seppe condurre a termine servizi importanti nell’ambito della sua specifica competenza35.

Il personale medico francese e il trasporto dei feriti
È storiograficamente noto che in Francia, fin dalle prime battaglie del 1914 e per tutto il primo semestre del 1915, non vi fu alcuna interazione tra i medici in prima linea e quelli rimasti in retrovia o ancor più all’interno: se a Parigi la “Società di chirurgia” si affermò come “principale centro decisionale durante la Grande Guerra, i suoi membri rimanevano ancorati a una guerra «immaginata», a differenza dei medici al fronte, che dovevano confrontarsi con la realtà del campo di battaglia e con la pratica della chirurgia sul luogo stesso del combattimento”36. Alle difficoltà nelle comunicazioni si aggiungeva la “censura” applicata dallo Stato. Ad esempio, al medico ausiliario di guerra Joseph Louis Pasteur Vallery-Radot, nipote e biografo del più celebre nonno Louis, per non spaventare la popolazione francese non fu consentito di pubblicare il racconto fedele dei soldati maciullati dalle ferite che nel giugno 1915 egli aveva visto raccolti in un’ambulanza ai piedi della collina di Notre-Dame-de-Lorette37. Evidente e stridente, a parere di Sanarelli, era l’insufficienza del comparto sanitario francese, in tempo di pace formato da 4.000 medici militari, che allo scoppio del conflitto giunsero a toccare i 14.00038. Oltre a ciò, nell’utilizzazione dei medici civili non si erano tenute in debita considerazione le loro competenze specifiche. Altro doloroso e costoso errore fu quello di far trovare nelle ambulanze, prive di chirurghi e con feriti gravi, giovani tirocinanti senza la minima esperienza. Ma Sanarelli volle comunque spezzare una lancia a difesa del governo francese, ritenendo eccessivi gli appunti addebitati da più parti ai servizi di sanità militare. Nella Relazione riconobbe infatti che, dopo i primi sanguinosi scontri di guerra, in Francia era stata predisposta al Senato una commissione speciale delle forze armate presieduta dall’ex Primo ministro Charles Louis de Saulces Freycinet allo scopo di studiare e completare i miglioramenti da apportare al servizio della sanità militare. Nel testo della commissione venivano segnalati i difetti e suggeriti i provvedimenti destinati soprattutto a riorganizzare i servizi chirurgici nelle prime linee, a utilizzare meglio le competenze professionali nell’interesse dei feriti e dell’igiene generale, a creare ospedali speciali per l’isolamento dei militari contagiosi (in particolare riguardo ai malati di tifo) e a semplificare l’ingranaggio burocratico, anche allo scopo di esonerare il corpo sanitario dalle incombenze dei servizi amministrativi, preferendo utilizzarlo in altre più importanti funzioni. Venuto a conoscenza delle proposte della commissione, Millerand aveva tempestivamente provveduto ad adottarle senza riserve:

La questione del denaro non esiste quando si tratta dei feriti, aveva detto la commissione, e il governo con grande rapidità e genialità di iniziativa è riuscito, in breve tempo, a disciplinare su tutto il fronte e negli ospedali di riserva un servizio di assistenza che non lascia assolutamente più nulla a desiderare39.

Nel 1916 i mezzi più pratici per ottenere una rapida evacuazione dei feriti dalle linee del fuoco e il loro sollecito trasporto nelle prime ambulanze chirurgiche erano ormai stati attuati. Lo ricordava anche il medico e ispettore generale Mignon, direttore del servizio sanitario della III Armata francese, il quale con soddisfazione sottolineava i progressi del chirurgo franco-americano Alexis Carrel nella suturazione delle ferite dei soldati: “Nel giugno 1916 ho avuto occasione di vedere l’applicazione integrale del metodo Carrel all’ambulanza di Rond-Royal, à Compiègne. […] La regolamentazione scientifica aveva rimpiazzato il caos empirico”40. Restava tuttavia impossibile utilizzare efficacemente i pochi treni della Croce Rossa e quelli dell’Ordine di Malta, per le carenze della rete ferroviaria, spesso lontana dalle zone di guerra. In alternativa si pensò di utilizzare “ambulanze automobili” in grado di spingersi fino a ridosso delle trincee. Questi mezzi avevano una completa autonomia (potevano viaggiare anche senza il rispetto dell’orario o le condizioni di “pieno carico”, come invece accadeva con il trasporto su rotaia) e si prestavano meglio a una prima cernita di feriti bisognosi di soccorso o d’operazioni d’urgenza. Per tale motivo in Francia ogni corpo d’Armata era già dotato di sessanta automobili e ciò, oltre a rendere più facile e sollecita l’evacuazione del fronte, semplificava il servizio ferroviario, consentendo ai treni di partire dalle stazioni regolatrici delle retrovie e facendo sentire meno la necessità del loro avvicinamento alle linee del fronte41. Il trasporto dei feriti, dalle trincee o dal campo di battaglia, all’ultima loro destinazione, si effettuava con una barella unica, che mediante sospensioni elastiche poteva essere adottata sia nelle automobili, sia nelle carrozze ferroviarie. Nella 5a ambulanza del 21° corpo d’armata, situata a circa quattro chilometri dalle linee del fuoco, le barelle erano state ingegnosamente modificate, tanto da renderle atte al trasporto dei feriti nei fossati stretti e tortuosi delle trincee. Esse si trasformavano in sedili a carriola, in poltrone e in lettighe a seconda delle necessità e delle condizioni del ferito42. Ma nel 1915 tali progressi tecnici sembrano sconosciuti alle autorità sanitarie italiane o forse esse, nella migliore delle ipotesi, non avevano avvertito significativi benefici: in ogni caso, il numero di barelle in dotazione (ventiquattro per ogni reggimento) risultava inadeguato sia a causa delle frequenti rotture alle cerniere di articolazione (la barella veniva ripiegata in tre parti), sia per la scarsa praticità in certi sentieri di montagna o nei camminamenti delle trincee43. Come accadeva in Francia, le ambulanze venivano invece utilizzate fino a pochi chilometri di distanza dal fronte principale: una volta riempite con i contusi, molte barelle erano spesso caricate su camion vuoti che avevano portato rifornimenti ai combattenti, riducendo così il numero di veicoli in circolazione, anche se i carri trasporto arrecavano grandi disagi ai feriti per la eccessiva lentezza del mezzo e per la rigidità del telaio, privo di elementi elastici. Nella Penisola la Croce Rossa italiana e la sanità militare integravano, dove possibile, il servizio di trasporto dei soldati bisognosi di cure con treni attrezzati, “in grado di arrivare al binario di servizio dell’ospedale, caricare in modo ordinato fino a 350 feriti e ripartire entro trenta minuti”44.

Formazioni chirurgiche
Fin dai primi mesi della Grande Guerra ci si accorse dell’inadeguatezza dei tendoni che accoglievano gli ospedaletti da campo. In Francia si preferì un genere di ambulanza adattabile alle installazioni di prima linea, di divisione d’armata e di riserva, meglio rispondenti ai bisogni, grandi e piccoli, della chirurgia di guerra45. Essa consisteva in baracche di legno smontabili e trasportabili con tutto l’armamentario annesso. Le nuove formazioni chirurgiche utilizzate dai transalpini erano composte da tre grossi furgoni-automobili46. Dopo che le vetture erano arrivate a destinazione, in poco più di un’ora si riusciva a smontare tutta la formazione e si poteva cominciare a operare. L’importanza dell’allestimento di tale struttura trova conferma nella Relazione:

Nella sala operatoria, che è fornita di ogni presidio ed è illuminata a luce elettrica, si può effettuare qualunque operazione chirurgica, potendosi riscaldare [l’ambiente] fino a 30°, ed essendo perfettamente sterilizzanti tanto le pareti come il pavimento che è in lamine di alluminio. Di solito, dette formazioni chirurgiche, anziché di tre camions automobili sono composte di undici o dodici perché le rimanenti servono al trasporto della farmacia, della lavanderia, dei letti ecc. Una volta formato l’ospedale, i camion vuoti sono opportunamente adattati e adibiti al trasporto dei feriti, dalle trincee o dai campi di battaglia, alla formazione chirurgica stabile. Queste ambulanze possono svilupparsi a volontà con l’andare del tempo e con l’accrescersi dei bisogni e si possono anche immobilizzare coi loro malati a misura che l’esercito si allontana. In tal caso l’esercito viene seguito da altre ambulanze simili che, dalla riserva, passano in prima linea47.

Non va dimenticato, in questo caso, il duplice ruolo di Sanarelli: in Italia egli faceva parte della commissione incaricata della costruzione e del funzionamento delle ambulanze chirurgiche che durante la Grande Guerra costituirono “il vanto, non altrove superato, del servizio medico militare”48. In Francia questo tipo di formazioni chirurgiche aveva dato ottimi risultati nel secondo semestre del 1915, in quanto aveva consentito di trasportare, in poche ore e con estrema facilità, da una zona all’altra, un ospedale completo, munito di tutto quanto poteva essere necessario agli interventi chirurgici più delicati e al ricovero di un numero rilevante di feriti. E proprio la prontezza e la sicurezza nell’agire “erano condizioni essenziali per la buona riuscita di un intervento in un’epoca in cui, ricordiamolo, gli antibiotici non esistevano ancora; la narcosi si utilizzava già, ma era ancora tutta da perfezionare”49, tanto più in tempo di guerra, quando si operava in condizioni di fortuna e spesso a ridosso delle linee di combattimento. In sostanza, nel maggio-luglio 1915, nelle prime linee italiane si era verificata la stessa situazione accaduta mesi prima nel fronte franco-tedesco: le immediate necessità di cure per l’elevato numero di feriti non consentirono un altrettanto veloce rafforzamento di quelle che oggi possiamo considerare le basilari attività ospedaliere. Dato il contesto emergenziale in cui si lavorava, rilevanti erano soprattutto le problematiche legate alle infezioni da ferite generate al fronte, la cui gravità il chirurgo Bartolo Nigrisoli non mancò all’epoca di segnalare: “Durante certi periodi si sono avute delle vere, per quanto localizzate, epidemie di flemmoni, di gangrene gassose, di tetano ed in proporzioni tali da sorpassare quasi quelle tristemente famose in Crimea. Forse l’asserzione che in guerra la chirurgia delle retrovie è chirurgia delle infezioni, non fu mai, ai tempi nostri, altrettanto vera come ora”50.

I servizi di radiologia sul fronte
Allo scoppio della guerra, in Francia i servizi radiologici presentavano, invece, deplorevoli carenze. È probabile che il comando militare supremo non si fosse reso conto della loro importanza, fatto sta che, come storiograficamente noto, nel 1914 non aveva preparato né materiale, né personale tecnico sufficiente51. Il metodo frettoloso e disordinato con cui era stato mobilitato anche il corpo sanitario peggiorò questo già triste stato di cose. Ma sul finire del 1915, dopo oltre un anno di guerra e di esperienza, si era riusciti a trovare idonee soluzioni sia nei riguardi del materiale, sia del personale. La radiologia, infatti, non era più, come in passato, un elemento sussidiario della chirurgia di guerra, ma una parte fondamentale ed essenziale di essa. In tutti gli interventi che, nel corso del conflitto mondiale, imponevano di estrarre proiettili, la mano del chirurgo doveva essere guidata da quella del radiologo, a cui perciò si poteva attribuire molta parte della responsabilità e del successo operatorio. L’esame radioscopico e radiografico, eseguito con apparecchi idonei e con metodo veramente scrupoloso, poteva infatti dare risultati eccellenti, mentre la radioscopia e la radiografia praticata con apparecchi insufficienti potevano essere, a volte, più dannose che utili. La pratica vissuta a ridosso dei campi di battaglia aveva inoltre dimostrato che ogni ambulanza chirurgica, nei casi in cui occorreva operare anche di urgenza, doveva essere fornita di un armamentario radiologico perfetto e di un personale tecnico idoneo. In Francia ogni centro ospedaliero chirurgico di qualche importanza era dotato di impianti fissi completi. Nelle formazioni chirurgiche al fronte si provvedeva con vetture automobili radiologiche, contenenti impianti perfettamente funzionanti, coi quali era possibile eseguire qualunque minuta ricerca. Al tempo della Relazione di Sanarelli l’esercito francese possedeva oltre un centinaio di vetture radiologiche52 che erano esclusivamente adibite al servizio delle ambulanze e degli ospedali del fronte, di prima e di seconda linea. Le ambulanze radiologiche vennero anche chiamate “Petites Curie” in onore di Marie Curie che le aveva progettate: giustamente la scienziata riteneva opportuno non muovere i feriti ma condurre nei luoghi a loro più vicini le apparecchiature radiologiche. A guerra conclusa il marito ricorderà con soddisfazione: “Cet effort a conduit directement à reconnaître l’utilité générale de la radiologie; il a contribué à établir en France une vaste organisation mettant les bienfaits de la radiologie à la portée de toute la population”53.
Fra i molteplici mezzi empirici e geometrici suggeriti per la localizzazione dei proiettili, i medici francesi avevano ormai largamente adottato il compasso di Hirtz, la cui esattezza si era dimostrata superiore a qualsiasi altro metodo e strumento. Esso obbligava però il radiologo ad un più complesso lavoro, anche se aveva il vantaggio di ridurre notevolmente l’opera che doveva compiere il chirurgo, risparmiando al ferito dolori e lacerazioni inutili. Adottato l’uso generale delle automobili radiologiche, in Francia si abolirono, come insufficienti e dannosi, tutti gli altri impianti trasportabili ed imperfetti cui, da principio, si era fatto ricorso. Per le radiografie si stava diffondendo l’uso di pellicole in sostituzione delle lastre in vetro. I vantaggi erano stati segnalati all’Accademia di Medicina di Parigi dal medico Louis Landouzy (1845-1917), che Sanarelli non mancò di evidenziare:

mentre le lastre di vetro sono pesanti, fragili e difficili a manipolarsi in campagna, le pellicole risultano leggere, elastiche, più facilmente trasportabili e infiammabili. Mentre una lastra di 50×40 pesa almeno 800 grammi, una pellicola della stessa grandezza pesa soltanto 28 grammi e il suo prezzo è inferiore. La pellicola ha inoltre il vantaggio di poter essere unita, come documento, al dossier del ferito, insieme ai diagrammi, ai grafici ecc.54.

Se è vero che, come sopra osservato, l’esercito francese beneficiava di oltre un centinaio di automobili radiologiche, Sanarelli fa notare che quello italiano ne possedeva appena due, di cui una regalata alla Croce Rossa dalla Colonia italiana di Parigi55, l’altra donata alla Croce Rossa milanese56.

L’utilità dei servizi di stomatologia
Fra le tante iniziative che, nel campo dei servizi sanitari francesi, vennero suggerite dal sopravvenire di bisogni imprevisti, Sanarelli nella sua accurata Relazione segnala quella riguardante i servizi di stomatologia nelle zone di guerra. Un regolare servizio specialistico organizzato sulle prime linee del fronte, rispondeva al duplice compito della confezione e riparazione delle dentiere (rese necessarie in un’Armata ove il numero dei soldati fra i 30 e i 45 anni era assai rilevante) e della cura dei denti (estrazioni, otturazioni, piccoli interventi chirurgici in soldati che, per mesi e mesi, erano costretti a vivere nelle trincee o negli accampamenti). L’eventualità che un soldato potesse smarrire la dentiera o che quest’ultima potesse, in qualche modo, danneggiarsi, fece sì che questo genere di servizi venisse installato in prossimità delle prime linee, dato che difficilmente il combattente avrebbe potuto ottenere l’autorizzazione ad allontanarsi per molti chilometri al fine di ricevere l’assistenza necessaria. Secondo il medico italiano si trattava di una speciale categoria di “sinistrati”, che erano pur meritevoli di ogni cura in quanto i soldati afflitti da malattia dell’apparato dentale erano assai numerosi e, se non adeguatamente curati in tempo, potevano diventare degli invalidi e degli “inutilizzabili” dal punto di vista militare. Evidente era dunque l’importanza del servizio di stomatologia. Allo scopo di renderlo più pratico e accessibile, senza notevole impiego di personale e di materiale, i comandi militari francesi avevano pensato di organizzare un servizio mobile, all’occorrenza trasportabile rapidamente nelle varie località per curare le truppe, anche delle prime linee, durante i periodi di riposo. In questi termini Sanarelli ne sosterrà la necessità, soffermandosi a descrivere tale vettura:

È la pratica antica, modernizzata, dell’automobilismo! Infatti mediante una semplice automobile di forza media, con una carrozzeria lunga m. 3,50 e larga m. 1,80, di un’altezza sufficiente, si può avere il necessario per l’impianto di un completo servizio mobile di stomatologia. La cassa della vettura è divisa in due parti: il gabinetto dentistico propriamente detto e il laboratorio. Nel primo è ingegnosamente adattato tutto quanto può occorrere all’opera del chirurgo dentista: poltrone operatorie, lavabo a pedale, apparecchio di riscaldamento per l’acqua, mobili e scaffali per gli strumenti ecc. Il laboratorio dove si confezionano e si riparano i pezzi contiene il vulcanizzatore alimentato da un apparecchio a benzina, il tornio e tutti gli utensili necessari. L’illuminazione vi si fa con lampade ad acetilene. Queste vetture automobili per la stomatologia girano per gli accantonamenti, visitando, a turno, le truppe in riposo, anche in prossimità delle linee del fuoco. Ottimamente installati, l’operatore e il meccanico compiono incessantemente un’opera utile e assidua. Mentre il primo calma i dolori, pratica le estrazioni, cura le carie non penetranti, apre gli ascessi ecc., il secondo fabbrica sul posto in poche ore, le operazioni correnti di protesi57.

La profilassi contro le malattie epidemiche
In Francia, tra i compiti che nella prima fase del conflitto avevano gravato sulla Direzione dei servizi di sanità militare, quello riguardante l’evacuazione e la cura dei feriti fu il più pesante. Ma non meno arduo fu quello di combattere e prevenire le malattie contagiose. La profilassi delle malattie epidemiche, che costituiva già una grande preoccupazione in tempo di pace, assumeva in tempo di guerra una rilevanza considerevole. La vita nelle trincee e negli accantonamenti rendeva tali precauzioni ancora più difficilmente realizzabili poiché, come noto, l’unione di persone a stretto contatto, la mancanza di riposo, l’irregolarità dell’alimentazione, l’insufficiente difesa contro le intemperie, creavano delle condizioni fortemente favorevoli alla trasmissione dei germi del tifo esantematico58. Sin dall’inizio della guerra queste preoccupazioni erano più che giustificate, in quanto l’esercito austriaco era flagellato dalla febbre tifoide, che si stava propagando anche fra i soldati tedeschi, per non dire del germe del colera che nell’estate 1915 si era insinuato tra le fila dei combattenti italiani e austro-ungarici. Fortunatamente, rileva Sanarelli, in Francia il problema dei contagi – almeno fino all’autunno 1915 – riuscì ad essere contenuto per una serie di motivi, che lui distingue prendendo in considerazione l’infezione del tifo:

La febbre tifoide è apparsa fino dal principio della guerra, assai meno frequente e meno grave che negli anni precedenti. Anch’oggi la sua mortalità è debole e supera appena quella che si lamenta nell’esercito, in tempo di pace, quantunque sia impossibile impiegare come si dovrebbe, dovunque, la cura sistematica e rigorosa mediante i bagni freddi. Si può dire, in complesso, che questa mortalità non oltrepassa la media del 10% mentre in tempo di pace scende all’8%59.

A suo avviso, se la guerra fosse scoppiata un anno più tardi, tutto l’esercito francese avrebbe goduto i benefici della vaccinazione antitifica, che era stata dichiarata obbligatoria solo alcune settimane prima della mobilitazione. In Francia la Direzione generale dei servizi di sanità aveva comunque preso tutte le precauzioni per allontanare dai luoghi di combattimento, ovunque fosse stato possibile, gli elementi capaci di propagare le malattie provocate dalla febbre enterica. Delle botti di acqua sterilizzata accompagnavano sempre le truppe sino alle trincee. Oltre a ciò, ogni caso di diarrea sospetta veniva immediatamente evacuato e avviato sulle retrovie, con un foglio di via speciale e una etichetta che lo segnalava alla sorveglianza del personale sanitario. Un certo numero di laboratori ambulanti consentivano ad altrettanti batteriologi provetti di potersi trasferire nei punti ove erano segnalati dei casi sospetti allo scopo di scovarli, di analizzare le acque di alimentazione e di indicare le precauzioni o le misure da prendersi60. In alcune località francesi erano stati organizzati degli ospedali di isolamento per i contagiati, specialmente per gli ammalati di febbre tifoide. Questi ospedali erano stati creati in punti scelti con particolare criterio, al di fuori della zona delle operazioni di guerra, ma non troppo lontane da essa61. In tali ospedali di isolamento, riservati esclusivamente ai malati di tifo, il personale assistente non aveva altri contatti con malati o feriti62.
Altra situazione, contraddistinta da uno stato di infezione intestinale, era la dissenteria, che notoriamente, nelle precedenti guerre coloniali, aveva sempre e fortemente colpito le truppe belligeranti. Dopo un anno di guerra, grazie a una oculata profilassi, simile a quella adottata contro la febbre tifoide – consistente cioè nella rapida eliminazione dei casi sospetti, con immediato avviso al servizio centrale che attivava le necessarie indagini sul luogo e applicava le misure di disinfezione – la dissenteria era diventata assai rara. In Francia si era largamente adottato un siero curativo che, dopo due o tre iniezioni, riusciva definitivamente ad arrestare la malattia: il dissenterico guarito non si trasformava più in un portatore di germi, come avveniva dopo la febbre tifoide. Per cui, non essendo pericoloso, dopo alcuni giorni di riposo era in grado di essere rinviato al fronte. Riguardo all’infezione colerica il servizio di sanità dell’Armata aveva adottato provvedimenti profilattici che si erano dimostrati di grande efficacia. Infatti, rispetto ai molti casi verificatisi nel luglio 1915 tra le truppe italiane e austro-ungariche, il colera non aveva fatto la sua comparsa nella zona di guerra franco-germanica.
Allo scopo di rendere più efficace la profilassi contro le malattie contagiose e considerando una possibile trasmissione idrica, la Direzione generale dei servizi sanitari dell’esercito francese aveva diramato precise istruzioni e aveva indicato metodi pratici e sicuri per la sorveglianza e la depurazione dell’acqua. Nelle località destinate agli accampamenti delle truppe, specialmente quando le medesime zone erano state precedentemente occupate dal nemico, si era disposta una minuziosa inchiesta sulla qualità delle acque da bere, tanto sorgive quanto dei pozzi, oltre che sullo stato e la manutenzione delle canalizzazioni e dei serbatoi63.

La difesa contro il freddo e il trattamento delle grandi ferite
Una delle maggiori preoccupazioni dell’intendenza militare francese era quella relativa al servizio per la difesa dei soldati contro il freddo invernale, che li esponeva al congelamento delle estremità inferiori. In realtà tali casi (detti, in Francia, “pieds gelés”), non erano da attribuire al freddo, ma alle calzature insufficientemente impermeabili e troppo strette, come lo era la fascia di lana che l’umidità tendeva a restringere sempre più attorno alla gamba. Sanarelli rileva che le truppe russe e tedesche, che usavano stivali impermeabili e che non conoscevano le mollettiere, avevano lamentato un numero assai esiguo di piedi gelati rispetto alle truppe francesi. I colleghi medici della missione di studio inglese ritenevano invece efficace contro il congelamento dei piedi una frequente e scrupolosa pulizia dei medesimi, con un trattamento specifico che egli riferisce in maniera dettagliata nella sua Relazione (frizioni, pomate, ecc.). Oltre a quanto somministrava il governo al soldato, a cura del Touring Club di Francia era stata organizzata una pubblica sottoscrizione che raccolse circa sei milioni di franchi da destinare alle necessità del combattente (la difesa contro il freddo occupava uno dei primi posti). Fondi assai graditi, osservava il medico italiano, considerando che per la protezione dalle insidie della stagione invernale l’amministrazione della guerra in Francia forniva al soldato solo indumenti di lana in abbondanza e una grande quantità di zoccoli di legno, muniti di un ampio gambale di tela resa impermeabile applicando esternamente olio di lino cotto, come aveva potuto constatare personalmente nei magazzini del Campo trincerato di Parigi64.
All’inizio della Grande Guerra i cultori più autorevoli della chirurgia militare avevano creduto di poter semplificare notevolmente la tecnica relativa alla cura delle ferite. A tale riguardo Sanarelli – non potendo fornire una minuta descrizione dei vari metodi curativi osservati nei tanti ospedali francesi da lui visitati – ritenne opportuno accennare solo alla cura di quelle ferite più gravi e molto infette, come erano quasi tutte quelle provocate da grosse schegge di granata. Si soffermò comunque a descrivere l’efficacia degli antisettici largamente usati negli ospedali di Amiens, riportando nella Relazione opportuni disegni per meglio spiegarne l’applicazione pratica. Mentre a Compiègne – nell’ospedale diretto dal celebre chirurgo Alexis Carrel – e in quello di Lione poté osservare gli straordinari effetti ottenuti nelle grandi ferite infette mediante irrigazioni permanenti di soluzioni di ipoclorito65.

Le malattie mentali e la guerra
In un esercito il buono stato sanitario delle truppe rappresentava e rappresenta una delle condizioni essenziali del loro benessere morale e intellettuale. Nella sua Relazione, infatti, Sanarelli ricorda che, tra le molte leggende che si erano divulgate intorno al tema della guerra, ve ne era una particolarmente triste, che riteneva che al verificarsi di un conflitto armato tra due popoli sarebbe aumentato in modo esponenziale il numero degli alienati: “Questa influenza era stata messa in dubbio, ma la guerra di Manciuria era sopravvenuta a darne una dolorosa conferma. Il numero dei casi di pazzia constatati soprattutto nell’esercito russo fu, infatti, assai elevato”66. Tant’è che all’inizio del primo conflitto mondiale la comunità scientifica aveva supposto che il numero delle psicopatie sarebbe stato rilevante anche nell’esercito francese e in previsione di tale evenienza la Direzione sanitaria militare aveva preso le opportune misure per il ricovero di un consistente numero di soldati alienati. Timori che, però, si erano fortunatamente rilevati eccessivi: in Francia i casi di pazzia provocati dalla guerra nella popolazione civile e tra i militari erano stati fino all’autunno 1915 assai rari e molto meno frequenti che nell’esercito tedesco. Nei primi mesi di guerra si era notata una certa frequenza di semplici deliri, dovuti all’alcoolismo, che avevano colpito soprattutto i richiamati67. Ma le conseguenze non erano state particolarmente dannose: in tutti i casi segnalati si verificarono rapide guarigioni. Vi furono peggioramenti nei paralitici e nei melanconici, ma senza conseguenze serie. Anche i casi di esaurimento nervoso, frequenti nella guerra russo-giapponese, erano invece, molto rari nella prima fase della Grande Guerra, per lo meno tra le truppe francesi, al momento della stesura della Relazione:

Questa grande scarsezza di psicopatia, che valeva la pena di segnalare perché costituisce una felice smentita alle fosche previsioni che si facevano molti, fino dall’inizio dell’attuale campagna, dimostra effettivamente che i soldati francesi presentano un ottimo terreno morale e che la loro alimentazione, come la loro igiene, sono molto superiori a quelle della guerra russo-giapponese68.

La constatazione del Sanarelli è confortante sotto vari punti di vista, non solo per l’esercito francese ma anche per tutti gli altri eserciti belligeranti. Solamente pochi vennero allontanati dalle prime linee in seguito a crisi deliranti, che insorgevano sempre sotto l’aspetto di confusioni mentali, allucinazioni ecc. Ciò non escludeva, in assoluto, possibili manifestazioni di squilibri mentali, caratterizzati da atti di indisciplina, di ribellione, di oltraggio, di violenza, di diserzione ecc.: essi si verificarono per lo più a carico di soggetti irresponsabili, le cui turbe mentali sfuggivano anche alle diagnosi del medico militare69. A causa di tale, comunque dolorosa, eventualità, in molti insistettero nei Consigli di guerra sulla necessità di aprire i controlli ospedalieri all’assistenza di medici alienisti in grado di effettuare, se non delle perizie psichiatriche vere e proprie, almeno degli esami mentali d’urgenza70, onde evitare possibili e deplorevoli confusioni tra malati, bisognosi di vero aiuto, e volgari simulatori, da indirizzare ai rigori della giustizia militare71. A Parigi i Consigli di guerra approvarono quindi tali misure con un apposito provvedimento che Sanarelli desiderava venisse adottato anche in altri Consigli e tribunali dei Paesi coinvolti nella prima guerra mondiale. In Italia, dopo i primi mesi di combattimenti i crescenti casi di malati mentali rilevati nell’esercito portarono alla costruzione di speciali padiglioni per soldati alienati nei manicomi di Alessandria, Ancona, Milano e Treviso72. Ma negli ospedali militari, dove essi venivano inviati per un primo accertamento delle condizioni di salute, la figura dell’alienista suggerita dal direttore dell’Istituto d’Igiene di Roma faticò a essere introdotta, anche per la carenza di specialisti del settore. Tuttavia, seguendo il valido esempio della Francia, i vertici militari italiani erano riusciti a realizzare un “servizio neuropsichiatrico di guerra, con la nomina di un consulente per ogni direzione di sanità d’armata”73.

La rieducazione professionale per i mutilati e per i ciechi
Dopo un anno e mezzo di guerra la Francia, come altri Paesi belligeranti, volle considerare anche il problema dei mutilati e dei ciechi, i cui numeri aumentavano ogni giorno di più. La guerra di trincea e l’uso delle bombe a mano aveva reso molto più frequenti rispetto alle passate esperienze belliche le lesioni della testa e i casi di cecità. Sanarelli registra 1.800 soldati francesi che avevano perduto la vista, ossia un cieco ogni 2.000 combattenti. Che cosa avrebbe potuto fare lo Stato per tali persone? La questione tenne in forte preoccupazione il Governo francese, il quale pensò a un piano di rieducazione professionale dei tanti infelici. Si trattava, in sostanza, di insegnare ai mutilati di guerra il modo di potersi servire utilmente dei mezzi fisici che la guerra aveva ad essi lasciato in vista della loro prossima lotta per l’esistenza, fornendo i mezzi per poter vivere dignitosamente, pur senza negare o limitare la pensione militare. Era dunque necessario, secondo il medico italiano, salvare questi infelici dall’abbandono e dalla miseria, assicurando, mediante una rieducazione professionale rispondente alle loro attitudini, i mezzi per rimanere socialmente attivi e partecipi. La pensione che lo Stato accordava ai soldati mutilati non doveva infatti diventare un incentivo all’ozio, come spesso avveniva quando una compagnia di assicurazione liquidava l’infortunato con un assegno vitalizio. La rieducazione e il riadattamento dei mutilati ad altro genere di lavoro, in Germania, in Belgio, in Russia e nei Paesi scandinavi avevano dato ottimi risultati, impedendo che costoro degenerassero nella definitiva impotenza. L’opera di rieducazione dei mutilati di guerra aveva un carattere temporaneo: appena erano in grado di sostenersi autonomamente potevano abbandonare l’istituzione appositamente creata per loro. Si rendeva così un servizio sia a tali sfortunati, sia alla collettività, come sosteneva Sanarelli:

Perciò bisogna ridare una nuova vita agli invalidi della guerra, una vita di lavoro, e di lavoro lucrativo, mercé il quale essi non abbiano più a lagnarsi eccessivamente della sventura subita. Quell’inquietudine morale che fa sì che, nei primi giorni della loro convalescenza, sentano di essere quasi dei residui umani, deve dileguarsi nella certezza di poter riconquistare, mediante una rieducazione professionale, dei nuovi mezzi di esistenza74.

Lodevole era stato lo sforzo del governo francese, che aveva avviato la fondazione di una Scuola nazionale per i soldati mutilati e ciechi. Il Ministero dell’Interno e quello della Guerra avevano inoltre coinvolto i consigli dipartimentali e i privati al fine di creare istituti di rieducazione a Parigi, Lione, Bordeaux, Montpellier, Bayonne, Pau, Tolosa, Saint-Étienne, Clermont-Ferrand, Bourges, Thiers, Limoges e Tours. Il direttore dell’Istituto di Igiene di Roma ritenne opportuno visitare e studiare alcune delle istituzioni riabilitative già funzionanti in Francia, avendo compreso che il medesimo problema, per quanto ipotizzabile in cifre più contenute, sarebbe facilmente potuto insorgere anche in Italia, come purtroppo accadde75. A tale scopo ricorda di aver visitato “a Parigi l’Istituto professionale degli invalidi della guerra, creato nel grande asilo di Saint-Maurice; l’«atelier des Mutilés» nella Rue Chapon, una casa di convalescenza per i soldati ciechi annessa all’ospizio nazionale «des Quinze-Vingts» nella Rue de Reuilly; il «Grand palais» trasformato in un immenso istituto governativo di cure fisioterapiche e di rieducazione. Oltre a ciò mi sono recato a Enghien [-les Bains] per studiare l’organizzazione del trattamento fisioterapico ivi istituito per gli invalidi e gli storpiati della guerra e, infine, a Lione, ove ho potuto studiare l’ordinamento delle due scuole professionali di rieducazione per i mutilati. Queste due scuole sono le prime sorte in Francia”76.

Le protezioni contro i gas asfissianti
Sanarelli concluse la sua Relazione restando nel campo puramente igienico e sociale delle varie questioni sanitarie-militari che si presentavano ai suoi occhi. Non ritenne necessario addentrarsi nel settore ortopedico, fisioterapico, amministrativo, o soffermarsi anche sulle organizzazioni di guerra dei vari servizi ospedalieri, francesi e stranieri, sulle stazioni di smistamento per i feriti ecc., che peraltro aveva già indagato nel periodo in cui aveva soggiornato a Parigi. Preferì dunque fornire informazioni sulla natura e sull’azione sistematica dei gas asfissianti utilizzati dalla Germania, il cui impiego aveva reso eccezionalmente micidiali alcune offensive contro le trincee francesi e inglesi:

Dai colleghi inglesi che ho avuto il piacere di incontrare nella zona di guerra del nord, sono stato assai esattamente informato intorno alle vicende di questi avvelenamenti, ma che, anche il racconto di coloro che ne furono vittime, l’esame degli infermi, le ricerche chimiche, le autopsie dei morti, gli apparecchi tolti ai tedeschi ecc. ci hanno dato ormai tutti gli elementi necessari per potere ricostruire il quadro morboso ed avere indicazioni precise intorno alla natura dei gas, alla loro azione tossica, alle lesioni prodotte e, infine, ai mezzi di difesa più acconci. […] Il colonnello Cummins, direttore del laboratorio d’igiene del Corpo di spedizione inglese, mi raccontava che in un combattimento nelle Argonne i tedeschi hanno tempestato per 24 ore di seguito le linee francesi con una pioggia quasi ininterrotta di questi obici asfissianti. Fu calcolato che il numero di questi proiettili esplosi non sia stato minore di 40 mila. E questo numero non sembri eccessivo! In questa guerra il consumo delle munizioni ha superato ogni previsione77.

Accertata la natura chimica dei gas asfissianti, occorreva provvedere a una efficace difesa per neutralizzarli. Fu sufficiente imitare i tedeschi, i quali munivano i soldati incaricati del servizio di asfissia di maschere respiratorie imbottite di cotone intriso in una soluzione di iposolfito di sodio78. Gli inglesi, aggiunge Sanarelli, avevano invece adottato una specie di cappuccio di stoffa nel quale introdurre la testa, anche con un berretto: l’apertura del cappuccio veniva infilata e fissata sotto il colletto della giubba. A livello degli occhi si trovava una lastrina trasparente. In ultimo il medico italiano descrive nella Relazione la maschera francese, costituita per lo più da un sacchetto rettangolare di garza fine, montata sopra un’armatura metallica semplice e leggera, che impediva al cotone umido di aderire troppo agli orifizi respiratori79. Anche la maschera adottata dall’esercito italiano era foggiata con le stesse caratteristiche e ad essa andavano naturalmente associati appositi occhiali. Il direttore dell’Istituto di Igiene di Roma segnalava infine una recente scoperta della comunità scientifica: in caso di indisponibilità di maschere protettive pronte a funzionare, si poteva sostituire il liquido neutralizzante con l’urina umana. Ovviamente,

tale succedaneo, di natura organica, non rappresenta l’ideale dei metodi protettivi contro i gas asfissianti, ma pare che nel corso di questa guerra atrocissima, e in più circostanze, dei fazzoletti intrisi di questo liquido fisiologico abbiano salvato più di una vita umana!80.

In conclusione
Al termine di questa analisi, necessariamente riassuntiva, della Relazione di Giuseppe Sanarelli, viene da chiedersi: fino a che punto le sue indicazioni trovarono reale accoglimento e applicazione nell’organizzazione sanitaria italiana? Sappiamo che durante il conflitto era riuscito a impiantare nuovi servizi specializzati per la cura delle ustioni e dei congelamenti di guerra all’ospedale militare Montebello81. Tuttavia, oltre alle positive valutazioni date alla Relazione da Alberto Lutrario, direttore generale della sanità pubblica, non abbiamo tracce di un livello di più ampia ricezione e apprezzamento dei tanti suggerimenti profilati da Sanarelli per favorire un avanzamento scientifico e un perfezionamento di nuovi strumenti legati all’organizzazione sanitaria militare italiana. Appena per dare un esempio: nessuna delle sue proposte emerge dallo spoglio completo dei verbali delle commissioni ispettive per la profilassi delle malattie infettive redatti periodicamente, pur nel loro linguaggio burocratico, durante la prima guerra mondiale. Di certo le sue indicazioni rimasero lettera morta sia nelle sedi istituzionali del comparto sanitario, sia negli ambienti militari, dove a prevalere erano i criteri economici, i timori per le novità e le paure nel consentire un utilizzo di tecniche finora poco conosciute o non spendibili su larga scala. Si consideri inoltre che, con l’avanzare di patologie a livello globale (malaria, tubercolosi, tifo, ecc.), medici e igienisti avevano dato il via a una serie di dispute accademiche e ospedaliere riguardanti la varietà dei meccanismi di contagio, che a loro volta avevano alimentato contrasti, divisioni e rivendicazioni al fine di affermare ognuno il proprio punto di vista e, almeno in parte, condizionare le scelte di politica sanitaria. A questi motivi, che non favorivano una comune soluzione del problema, possiamo aggiungerne altri che probabilmente ebbero il loro peso sullo scarso successo della Relazione e che qui di seguito sintetizziamo. Quello del Sanarelli era un resoconto relativo solo alla fase iniziale del conflitto e d’altra parte, come abbiamo già sottolineato, lui stesso ritenne opportuno non divulgarlo per non alimentare polemiche, dopo che nei primi mesi del 1915 erano emerse diverse criticità nell’operato del governo italiano e dei comandi militari in ambito sanitario (insufficienza di organico, di treni attrezzati, di ricoveri ospedalieri, ecc.). Basti ricordare un’altra impellente necessità: quella di contenere i gravi casi di colera sviluppatisi nel luglio di quell’anno sul fronte goriziano. Il direttore generale della sanità pubblica Alberto Lutrario, sollecitato dalle critiche del deputato interventista e nazionalista Romeo Gallenga, dovette riferire al suo ministro degli Interni di quanto verificatosi nel confine italiano. In questi termini, con rammarico, scriveva:

Tutti i desiderabili perfezionamenti del servizio suddetto sarebbero a questa ora già stati effettuati – e in gran parte lo furono già – se non si fossero sovrapposte gravi e urgenti ragioni profilattiche che hanno reclamato ogni maggiore attività e tutte le possibili risorse82.

La notizia della grave epidemia del luglio 1915 esplosa nelle zone di guerra italo-austriache aveva travalicato i confini nazionali. Riportiamo alcuni significativi passi scritti anni dopo da Léon Bernard, professore alla facoltà di Medicina di Parigi e presidente del Consiglio Superiore d’igiene pubblica della Francia in una sua pubblicazione dal titolo La défense de la santé publique pendant la guerre: “Dès 1915, l’armée italienne est éprouvée par le choléra. Au début de juillet, un mois et demi après l’entrée en guerre de l’Italie, des cas se produisent parmi les unités qui ont occupé sur le Carso des tranchées où avaient séjourné des troupes austro-hongroises venant de Galicie; à la fin de juillet on compte plus de 40 cas par jour dans les deux armées infectées”83. L’insigne accademico, per completezza d’informazione, faceva altresì sapere che nella Penisola le robuste misure che seguirono e, soprattutto, la vaccinazione sistematica contro il colera, riuscirono poi a proteggere l’esercito italiano dalle nuove epidemie del 1917 e del 1918. Ma, in merito al ruolo del direttore dell’Istituto di Igiene di Roma e al suo apporto scientifico sulla prevenzione anticolerica, è indicativo il silenzio di Bernard: egli non menziona mai il collega Sanarelli, che pure conosceva per le comuni frequentazioni a Parigi e per i suoi ben noti studi, molti dei quali editi in lingua francese84. Elogia invece, ampiamente, le indagini svolte all’Istituto Pasteur dall’immunologo Alessandro Salimbeni85, naturalizzato in Francia e già vincitore del premio Nobel per la medicina nel 1908. Persino il generale medico Lorenzo Bonomo, direttore di Sanità della III Armata86, nei suoi interventi istituzionali e congressuali non si esprime in alcun modo sui lavori del direttore dell’Istituto di Igiene di Roma, restando peraltro piuttosto vago anche sulle modalità di superamento della pandemia verificatasi al confine italo-austriaco nel luglio 191587. Un antefatto può farci meglio comprendere i motivi delle – seppur inespresse – riserve sul nome di Sanarelli88. È ragionevole ritenere che in certi ambienti, negli anni della prima guerra mondiale, non fosse stata ancora del tutto dimenticata la dura polemica scatenata contro di lui sul finire del secolo dal celebre patologo canadese William Osler, considerato il padre della medicina moderna. Quest’ultimo aveva accusato l’igienista italiano di aver cagionato la morte di tre soggetti sani che in Brasile si erano volontariamente prestati alle sue sperimentazioni sulla febbre gialla. In quella circostanza, forse, a trarre in inganno Sanarelli era stato essenzialmente il fatto che a fine Ottocento la comunità scientifica era portata a ritenere che la febbre gialla fosse causata da un batterio non identificato. Consapevole dell’errore, ma anche delle proprie grandi competenze in materia di agenti infettivi, egli era poi ripartito con i suoi studi, perfezionando e accrescendo negli anni, con successo, le sue ricerche89, in particolare sul colera e sulla tubercolosi, che insieme al tifo durante la Grande guerra avevano falcidiato il Vecchio Continente. Non furono vane, dunque, le indagini da lui condotte nelle missioni speciali del 1915 e del 1916 di cui, grazie all’emergere di questa sua Relazione, siamo ora a conoscenza. Possiamo anzi dire che ad esse andrebbe riconosciuto almeno questo non trascurabile merito: le osservazioni acquisite in Francia da Sanarelli ebbero certamente il loro peso per la formulazione, cui egli sarebbe approdato in successivi e fondamentali studi, della genesi «eredo-immunitaria» della tubercolosi90.

Note

  1. Ricca è la produzione storiografica nazionale e internazionale sul rapporto guerra-sanità. Per ragioni di spazio ci limiteremo a ricordare solo un paio di contributi italiani: Lucio Fabi, Gente di trincea, Mursia, Milano, 1995, in particolare le pp. 207-213, 279-292; Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo attuale, 3a ed. accr., Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 64-72. Sugli elementi di rottura tra la prima guerra mondiale e i precedenti tipi di conflitti si rinvia a John Horne, Vers la guerre totale. Le tournant de 1914-1915, Tallandier, Paris, 2010.
  2. Leonardo Raito, La sanità militare e la guerra chimica durante il primo conflitto mondiale, in La sanità militare nella storia d’Italia, atti del Congresso (Torino 17 settembre 2011), a cura di A.M. Giachino, F. Zampicinini, Associazione nazionale della sanità militare italiana – sezione provinciale di Torino “Alessandro Riberi”, Roma, 2014, p. 209.
  3. Per la Francia si vedano, soprattutto, gli articoli pubblicati nel giornale “L’Écho de Paris” (ad es., Maurice Barres, Les blessés sont faits pour être guéris, 23 Septembre 1914); per la Germania si vedano gli articoli critici apparsi nella prestigiosa rivista medica “Deutsche Medizinsche Wochenschrift” in merito all’evacuazione dei feriti e alla loro ripartizione negli ospedali tedeschi. In Italia un anonimo scrittore dubitava persino dell’esistenza di un Corpo di sanità militare, cfr. Esiste un Corpo sanitario militare?, in “Giornale di medicina militare”, fasc. I, 31 gennaio 1918, p. 58.
  4. Peraltro il sistema sanitario tedesco non era neppure frenato dagli ingranaggi della più meticolosa struttura burocratica francese, come anche – sebbene in minor misura – accadeva in Italia.
  5. Annette Becker, Oubliés de la Grande Guerre. Humanitaire et culture de guerre, Noêsis [«Pluriel», 2018], Paris, 1998, pp. 105-109.
  6. Alain Larcan, Jean Jacques Ferrandis, Le service de santé aux armées pendant la Première Guerre mondiale, Lbm, Paris, 2008, pp. 55-60.
  7. Antoine Prost, Compter les vivants et les morts: l’évalutation des pertes françaises de 1914-1918, in “Le Mouvement social”, n. 222, janvier-mars 2008, p. 43. Più recentemente altri hanno tentato di fornire una qualche giustificazione: “De multiples décisions sont prises dans l’urgence, parfois contradictoires”, Marc Dupont, L’Assistance publique, l’armée, la guerre, in La guerre, l’A.P. L’assistance publique dans la Grande guerre, Assistance Publique-Hôpitaux de Paris, Paris, 2014, p. 57.
  8. Jean-Jacques Ferrandis, Le Service de santé durant la Bataille de Verdun, in “Histoire des Sciences Médicales, t. XXXVI, n. 2, 2002, p. 149. Riguardo alle misure sanitarie adottate dai francesi in ambito militare, cfr. Léon Bernard, La défense de la santé publique pendant la guerre, Presses universitaires de France, Yale university press, Paris-New Haven, 1929; sui progressi della chirurgia transalpina durante la Grande Guerra, cfr. Alain Larcan, Jean Jacques Ferrandis, Le service de santé, cit., pp. 321-454.
  9. Relazione sommaria sull’organizzazione e sul funzionamento del servizio sanitario dall’inizio della guerra fino alla presa di Gorizia (6-9 agosto 1916), parte prima, in Archivio storico Ufficio Stato Maggiore dell’Esercito, B-1, 151 C, vol. 24g, pp. 1-18; Relazione del prof. [Alfonso] Di Vestea sulla vigilanza dei militari feriti e malati, Pisa 10 giugno 1915, in Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi = ACS), MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154.
  10. Come osservato da: Francesco Testi, I servizi sanitari nell’esercito italiano durante la guerra, “Nuova Antologia”, a. 52, fasc. 1080, 16 gennaio 1917, p. 221; Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia. Saggio storico sui servizi sanitari negli eserciti onorato del primo premio nel concorso 1927 per lavori su temi militari, in “Giornale di Medicina Militare”, Ministero della Guerra-Direzione Generale di sanità militare, Roma, 1929 (Firenze, Carpigiani e Zipoli), pp. 577-578; Id., Logistica vissuta. La sanità militare, “Esercito e nazione”, a. VII, fasc. 6, giugno 1932, p. 580; Ferruccio Botti, La logistica dell’esercito italiano (1831-1981), vol. II, I servizi dalla nascita dell’esercito italiano alla Prima guerra mondiale (1861-1918), Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio storico, Roma, 1991, pp. 760-761.
  11. L’esercito italiano di quegli anni è stato definito “fabbrica della tisi” da Tommaso Detti, Stato, guerra e tubercolosi (1915-1922), in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Einaudi, Torino, 1984, p. 891.
  12. Dal 1915 al 1918 vi fu un aumento dei casi di malaria in tutte le regioni italiane, specialmente in quelle centro-meridionali, cfr. Giorgio Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Laterza, Bari, 1925, pp. 249-251. Ciononostante, l’uso delle compresse di chinino somministrate ai soldati conservò la sua efficacia, cfr. Francesco Schiassi, Sull’organizzazione del servizio di profilassi contro la malaria nell’esercito mobilitato durante la campagna di guerra 1915-1918, in “Giornale di medicina militare”, fasc. I, 1° gennaio 1922, p. 34.
  13. Relazione dell’Intendente Generale dell’esercito Alfieri al Comando Supremo dell’esercito, zona di guerra 1° agosto 1915, in ACS, MI, DGSP, Atti Amministrativi (1910-1920), b. 179bis.
  14. Antonello Biagini, Alessandro Gionfrida, L’organizzazione della sanità militare italiana al fronte nella prima guerra mondiale, in Giovanna Motta, a cura di, “In bona salute de animo e de corpo”. Malati, medici e guaritori nel divenire della storia, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 217. Nell’esercito italiano la Grande Guerra segnò, per la prima volta, un’inversione di tendenza nel rapporto fra morti per ferite (48,59%) e morti per malattie (33,05%), la cui inferiore percentuale venne poi in gran parte considerata merito dell’organizzazione sanitaria realizzata a favore delle truppe, cfr. Ferruccio Ferrajoli, Il servizio sanitario militare nella guerra 1915-1918, in “Giornale di medicina militare”, fasc. 6, novembre-dicembre 1968, p. 502. In altri precedenti studi si presentano le seguenti cifre: morti per ferite 317.000, morti per malattie 169.000 (Arturo Casarini, La medicina militare, cit., p. 616).
  15. Giuseppe Armocida, Melania Borgo, La medicina e la Grande Guerra, in La città di Novara e il Novarese nella Prima guerra mondiale, vol. I, Istituzioni e personaggi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Novara VCO, Interlinea ed., Novara, 2017, p. 38.
  16. Si veda la voce curata da Daniele Cozzoli nel Dizionario Biografico degli italiani, vol. 90, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 2017, pp. 119-121.
  17. Lettera di Giuseppe Sanarelli a Alberto Lutrario, Roma 29 settembre 1915, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154.
  18. Ibidem.
  19. Paola Corti, Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, Storia d’Italia. Annali 7, cit., pp. 648-652.
  20. Gaetano Boschi, La guerra e le arti sanitarie, A. Mondadori, Milano, 1931, pp. 38-39. Si veda anche Alessandro Lustig, La preparazione e la difesa sanitaria dell’esercito, 2a ed., Ravà, Milano, 1915.
  21. Inoltre, in nome dell’igiene militare, “un ensemble de savoirs gagne le statut de «science» et ses praticiens, médecins d’armée, se voient assigner une tâche nouvelle, la prévention et la préservation de la santé des grandes masses d’hommes qui concourent à la défense nationale”, Anne Rasmussen, Expérimenter la santé des grands nombres: les hygiénistes militaires et l’armée française, 1850-1914, in “Le Mouvement social”, n. 257, octobre-décembre 2016, p. 71.
  22. Lettera di Giuseppe Sanarelli a Alberto Lutrario, Roma 29 settembre 1915, cit.
  23. Nel 1915 Sanarelli era divenuto direttore, per concorso, dell’Istituto di igiene all’Università di Roma in seguito alla scomparsa di Angelo Celli, cfr. Gaetano Maria Fara, Rosella Del Vecchio, Angelo Celli e l’igiene sperimentale a Roma, in Angelo Celli. Nascita di una scienza della politica sanitaria, a cura di Stefano Orazi, Sapienza Università Editrice, Roma, 2014, p. 49. Eletto Rettore nel biennio 1922-23, rimase direttore dell’Istituto di Igiene sperimentale di Roma fino al suo riposo, nel 1935.
  24. Lettera di Giuseppe Sanarelli a Alberto Lutrario, Roma 29 settembre 1915, cit.
  25. Giuseppe Sanarelli, L’igiene nei problemi della civiltà contemporanea. Prolusione al corso di igiene e polizia medica, tenuta nell’Istituto d’igiene della Regia Università di Roma il 23 gennaio 1915, in, “Nuova Antologia”, fasc. 1042, 16 giugno 1915, pp. 607-643.
  26. Giuseppe Sanarelli, Medicina castrense. Sul tifo esantematico, in “Il Policlinico”, a. XXII, fasc. 19, 9 maggio 1915, pp. 628-629.
  27. Lettera di Giuseppe Sanarelli a Alberto Lutrario, Roma 29 settembre 1915, cit.
  28. Lettera dell’ambasciatore d’Italia a Parigi al ministro dell’Interno, Parigi 26 agosto 1915, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154.
  29. Lettera di Alberto Lutrario – Appunto per il Gabinetto di S.E. il sottosegretario di Stato, Roma 10 ottobre 1915, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154. In alcune lettere contenute all’interno del fascicolo riguardante la Relazione Sanarelli viene menzionata anche all’Inghilterra quale meta della sua missione di studi, ma al riguardo la sopra citata documentazione non fornisce alcuna informazione, cfr. Lettera di Alberto Lutrario – Appunto per il Gabinetto di S. E. il ministro dell’Interno, Roma 6 dicembre 1916, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154.
  30. Relazione del professore G. Sanarelli intorno alla sua missione sanitaria in Francia sull’ordinamento dei servizi sanitari e profilattici, nonché le varie provvidenze e istituzioni (d’ora in poi = Relazione Sanarelli), p. 2, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154; il fascicolo contiene anche una seconda copia dattiloscritta della Relazione, ma priva di numerazione di pagine.
  31. Notices biographiques ou historiques, in Archives de l’Institut Pasteur – Paris, Fonds Documentation, cote: Bio.S1; lo attestano anche alcune lettere e cartoline postali di Sanarelli che abbiamo potuto consultare nel Fonds Nègre Léopold, cote: NGR3 e NGR4 e nel Fonds Ramon Gaston, cote: RAM.5.
  32. Lino Agrifoglio, Ricordando… Giuseppe Sanarelli (1864-1940), in “Igiene e sanità pubblica”, vol. IX, n. 3-4, marzo-aprile 1953, p. 270.
  33. Prof. G. Sanarelli, appunti dattiloscritti, s.n. e s.d., p. 1, in Archivio Istituto di storia della medicina – Università degli studi di Roma “La Sapienza”, fondo Sanarelli, fasc. 50.
  34. Cfr. L’evoluzione biologica della tubercolosi nella specie umana, in “Nuova Antologia”, fasc. 976, 16 agosto 1912, pp. 634-656; Id., Tubercolosi ed evoluzione sociale, Treves, Milano, 1913; Id., Il fattore ereditario nella tubercolosi, Romana medica, Roma, 1930; Id., Le rôle de l’hérédité dans la tuberculose, in “Revue de phtisiologie”, t., XI, n. 5 (1930), pp. 441-477. Nel 1914 aveva anche pubblicato un Manuale di igiene generale e coloniale assai utile per il personale civile e militare presente nelle colonie africane e per quello addetto all’assistenza degli emigranti nelle traversate oltreoceaniche.
  35. Lino Agrifoglio, Ricordando…, cit., p. 273.
  36. Sophie Delaporte, Medicina e guerra, in La Prima guerra mondiale, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau, Jean-Jacques Becker, ed. it. a cura di Antonio Gibelli, vol. I, Einaudi, Torino, 2007, pp. 302-303.
  37. Cfr. Gaetano Boschi, La guerra e le arti sanitarie, cit., p. 86. Solo dopo la fine del conflitto Pasteur Vallery-Radot potè dare alle stampe il saggio Pour la terre de France par la douleur et la mort – (La colline de Lorette 1914-1915), Plon-Nourritt, Paris, 1919.
  38. Relazione Sanarelli, cit., p. 2. Nessuna sua osservazione sull’ancora più carente quadro dell’organico sanitario italiano: dagli 800 medici del periodo di pace si arrivò ai 14.050, ma nel secondo anno di guerra! cfr. Umberto A. Maccani, Storia della medicina militare. Leggenda e realtà, Selecta Medica, Pavia, 2008, p. 104.
  39. Relazione Sanarelli, cit., p. 3.
  40. Giorgio Cosmacini, Giorgio Cosmacini, Guerra e medicina. Dall’antichità ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 168.
  41. Cfr. Relazione Sanarelli, cit., p. 4.
  42. La lettiga trasportabile poteva essere portata sul dorso come uno zaino, poiché pesava solo undici chilogrammi; evitava il pericolo delle lettighe ordinarie regolamentari che di solito nelle trincee attiravano il fuoco del nemico. Considerate queste utilità pratiche Sanarelli pensò di segnalarle nella Relazione.
  43. Umberto A. Maccani, Storia della medicina militare, cit., p. 104.
  44. Gianfranco Donelli, La sanità pubblica in Italia negli anni della Prima Guerra mondiale, in Memorie e attualità tra storia e salute. Riflessioni sulla sanità pubblica in Italia a cento anni dalla Grande Guerra a partire dall’esperienza dell’Asinara e di Vittoria, a cura di Paola De Castro, Daniela Marsili, Assunta Trova, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 2015, p. 22.
  45. Sulle esperienze nel trattamento e nelle pratiche curative dei traumi da guerra degli ultimi due secoli si rinvia a Maurice Manring, Alan Hawk, Jason H. Calhoun, Romney C. Andersen, Treatment of War Wounds: A Historical Review, in “Clinical Orthopedics and Related Research”, vol. 467, n. 8 (2009), pp. 2168-2191.
  46. Nel primo si trovava un impianto completo di sterilizzazione, con autocavi, apparecchio elettrogenico ecc.; nel secondo erano contenuti tutti gli strumenti chirurgici; nel terzo gli accessori e gli apparecchi radiografici.
  47. Relazione Sanarelli, cit., p. 6.
  48. Guido Ruata, Glorie e figure della medicina italiana. Giuseppe Sanarelli, in “La medicina italiana”, n. 10, ottobre 1921, p. 676.
  49. Miriam Focaccia, Bartolo Nigrisoli: tra clinica e chirurgia di guerra. Una biografia scientifica, Pendagron, Bologna, 2011, p. 75; Id., Tra politica e medicina: il no di Bartolo Nigrisoli, in “Rivista di Storia dell’Università di Torino”, vol. X, n. 2 (2021), p. 119.
  50. Cfr. Bartolo Nigrisoli, Osservazione e pratica di chirurgia di guerra. Campagna del Montenegro contro la Turchia (1912- 1913) e notizie ed impressioni sui primi feriti della guerra nostra contro l’Austria (maggio-luglio 1915), Zanichelli, Bologna, 1915, p. 48.
  51. Alain Larcan, Jean Jacques Ferrandis, Le service de santé, cit., p. 85.
  52. Esse erano provviste di un macchinario generatore della corrente elettrica e di un laboratorio fotografico completo, in quanto la pratica aveva dimostrato che in guerra la radioscopia poteva servire solamente da sussidio alla radiografia, non come fine a sé stessa.
  53. Pierre Curie, La radiologie et la guerre, Félix Alcan, Paris, 1921, p. 15. Da menzionare, tra le donne impegnate in guerra nella radiologia militare, sul fronte opposto, il nome dell’austriaca Lise Meitner.
  54. Relazione Sanarelli, cit., pp. 9-10.
  55. Fabbricata dalla casa Geiffe, unica fornitrice dei governi francese e belga.
  56. Fabbricata dalla casa Balzarini di Milano.
  57. Relazione Sanarelli, cit., pp. 11-12. La vettura stomatologica costruita dal servizio di sanità militare nella sua officina a Parigi costava 17.000 franchi, comprensivi di telaio, carriaggi, sistemazione interna, apparecchi e strumenti di gabinetto e di laboratorio. Nella Relazione non viene menzionato il trapano a pedale, in uso nelle ambulanze odontoiatriche italiane.
  58. Per tale motivo le autorità sanitarie francesi si erano affrettate a diffondere nell’esercito e nella popolazione civile delle norme pratiche ed efficaci di profilassi. Nell’esercito francese l’attiva sorveglianza sulla pulizia corporale, mediante ispezioni e visite periodiche, limitò notevolmente l’insorgere dei casi di pediculosi, di rogna e di tifo esantematico (Relazione Sanarelli, cit., p. 33).
  59. Relazione Sanarelli, cit., p. 13.
  60. Ivi, p. 14.
  61. Il contagiato non veniva portato verso gli ospedali di riserva, o verso le località della regione rimaste immuni, proprio per evitare di creare un focolaio epidemico tra le reclute e tra la popolazione civile.
  62. A volte l’isolamento si praticava nelle baracche. Anche i convalescenti di febbre tifoide venivano sottoposti a sorveglianza per un certo periodo, durante il quale rimanevano isolati in particolari depositi.
  63. Tralasciamo le specifiche indicazioni tecniche riportate nella Relazione di Sanarelli riguardo alla disinfezione dei pozzi e ai procedimenti per la depurazione delle acque di sorgente, di fiume e dei pozzi adottati dai medici militari francesi.
  64. Relazione Sanarelli, cit., p. 40.
  65. Ivi, p. 43. Carrel consegnò personalmente a Sanarelli la formula del liquido antisettico, le cui modalità di preparazione il medico italiano riportò, con estrema minuzia, nella Relazione.
  66. Relazione Sanarelli, cit., p. 45.
  67. Successivamente vennero prese misure restrittive da parte del governo francese contro la vendita di bevande alcooliche.
  68. Relazione Sanarelli, cit., p. 46.
  69. Annette Becker, Oubliés de la Grande Guerre, cit., p. 336.
  70. In centri specializzati, secondo l’auspicio di Giuseppe Antonini, La questione della epurazione dall’esercito dei criminali, anomali ed indisciplinati, in “Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale”, vol. XXXVIII, 1917, p. 22.
  71. Sulla figura del simulatore diffusa tra i soldati italiani si veda Fabio Milazzo, Smascherare il soldato simulatore. Difesa sociale e istanze disciplinari in ambito militare prima della Grande Guerra, in “Diacronie. Studi di storia contemporanea”, n. 1 (2018), pp. 1-19.
  72. Giuseppe Antonini, Notiziario-Ospedali e Comparti psichiatrici di guerra, in “Quaderni di psichiatria”, n. 7-8, 1915, vol. II, p. 340. Casi di pazzia sono stati rilevati, dal 1915 al 1919, anche negli uomini appartenenti alla Regia Marina, cfr. Stefano Orazi, Fonti per uno studio sui marinai internati nei manicomi italiani durante la Grande Guerra: prime ricerche, in “Archivi”, n. XVII/2 (2022), pp. 55-79. Sul rapporto guerra-follia si rinvia a Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Bulzoni, Roma, 2001.
  73. Silvia Manente, Andrea Scartabellati, Gli psichiatri alla guerra. Organizzazione militare e servizio bellico, 1911-1919, in Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, a cura di Andrea Scartebellati, Marcovalerio Cercenasco, 2018, pp. 103-104.
  74. Relazione Sanarelli, cit., p. 49.
  75. Cfr. Guerra e disabilità. Mutilati e invalidi italiani e primo conflitto mondiale, a cura di Nicola Labanca, Unicopli, Milano, 2016.
  76. Relazione Sanarelli, cit., p. 50. Nelle successive pagine Sanarelli riassume le impressioni ricavate dalla sua visita in questi ultimi due stabilimenti di rieducazione e di cura.
  77. Relazione Sanarelli, cit., pp. 61, 70. Sull’avversione di tutto il mondo verso i tedeschi a seguito dell’uso dei gas asfissianti si veda Giuseppe Oddo, La chimica nella guerra e nel dopoguerra. Discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico 1918-19 nell’Università di Palermo, ed. Sandron, Milano-Palermo-Napoli-Genova-Bologna-Torino, 1919[?], pp. 49-50. Sul tema della guerra chimica si veda anche Angelo Guerraggio, La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale, ed. Raffaello Cortina, Milano, 2015, pp. 152-164.
  78. Venendo in contatto con questo sale neutro, il cloro si neutralizzava formando del cloruro e del tetrationato di sodio, che erano innocui.
  79. Nel sacchetto erano collocati vari strati dello stesso tessuto, imbevuti di una miscela in data proporzione di liscivia di soda, di olio di ricino e di glicerina.
  80. Relazione Sanarelli, cit., p. 73.
  81. Guido Ruata, Glorie e figure della medicina italiana, cit., p. 676. Sanarelli stava già servendo i quadri militari con il grado di maggiore e poi di tenente colonnello e in tale veste dirigeva l’ospedale “Umberto I” di Roma.
  82. Minuta di Alberto Lutrario al Ministro dell’Interno, Roma 4 settembre 1915, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154. Tuttavia, anche al termine della guerra l’epidemiologo napoletano lamentava: “Molto resta ancora da fare e l’esperienza profilattica di guerra deve servire anche in questo campo di ammaestramento e di guida”, Alberto Lutrario, La tutela dell’igiene e della sanità pubblica durante la guerra e dopo la vittoria (1915-20). Relazione al Consiglio Superiore di Sanità, parte I, Ministero dell’Interno – Direzione Generale della Sanità Pubblica, tip. G. Artero, Roma, 1921, p. 61.
  83. Léon Bernard, La défense de la santé publique pendant la guerre, cit., p. 105.
  84. Cfr. l’accurata bibliografia riportata da Renato Giulietti, Andrea Ricci, Giuseppe Sanarelli, ricerca scientifica e coscienza politica, Comune di Monte San Savino, Arti Grafiche Francini, Monte San Savino, 2014, in particolare alle pp. 106-111.
  85. Léon Bernard, La défense de la santé publique pendant la guerre, cit., pp. 75, 78-79, 104.
  86. Dal 26 settembre 1915.
  87. Riflettendo a posteriori su quella fase emergenziale si limiterà a dichiarare, in qualità di presidente della commissione ispettiva dell’esercito: “Chi avvicina col pensiero i primi mesi della guerra, quando eravamo sotto la invasione della epidemia colerica che divampò dal Carso sull’Isonzo e minacciava la saldezza delle nostre forze, ai mesi che seguirono, quando si ristabilì un regolare assetto igienico e un regime profilattico che segna pure un progresso per la scienza, vede [dal 1917 in poi] tutta l’efficacia della nostra organizzazione sanitaria e i risultati di essa”, Commissione di ispezione per la profilassi delle malattie infettive, Verbale della seduta del 14 aprile 1917, Regio Esercito italiano-Intendenza generale, dattiloscritto, p. 3, in ACS, MI, DGPS, Atti amministrativi (1910-1920), b. 154.
  88. Non sono inoltre del tutto da escludere possibili screzi personali all’interno dell’istituzione massonica, di cui Sanarelli faceva parte, cfr. Vittorio Gnocchini, L’Italia dei liberi muratori. Piccole biografie di massoni famosi, Erasmo, Roma, 2005, p. 247.
  89. Nel 1922 gli venne anche conferito il titolo di dottore “honoris causa” dalle Università di Parigi e di Tolosa, nonché di membro corrispondente dell’Istituto di Francia per l’Accademia delle Scienze.
  90. Domenico Preti, La lotta antitubercolare nell’Italia fascista, in Storia d’Italia. Annali 7, cit., p. 968. Cfr. anche Giuseppe Sanarelli, Il fattore ereditario nella tubercolosi, cit.; Id., L’hérédité et la contagion dans la tubercolose, Payot, Paris, 1931; Id., I contrattempi dell’ultravirus tubercolare: (replica al prof. G. Petragnani), Industria tip. romana, Roma, 1932; con A. Alessandrini, Études sur l’ultravirus tuberculeux : deuxième mémoire : les protogènes du virus tuberculeux, Masson, Paris, 1933.

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