La risposta della Corea del Sud al COVID-19: un modello di successo?
Antonio Fiori, La risposta della Corea del Sud al COVID-19: un modello di successo?, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 10, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9935
1. Introduzione
La risposta della Repubblica di Corea al COVID-19 è stata talmente significativa da essere unanimemente considerata tra le più efficaci al mondo.1 Basandosi sulla esperienza maturata nella gestione delle pandemie, in particolare della Sindrome respiratoria mediorientale (MERS CoV) – che ha condotto il paese a ripensare per tempo il suo impianto legislativo e organizzativo volto alla prevenzione e al controllo dei contagi – la Corea del Sud è stata in grado di “appiattire” rapidamente la curva epidemica – malgrado la densità abitativa della nazione e la sua prossimità all’epicentro cinese – senza ricorrere a lockdown generalizzati, limitare la libertà di movimento della popolazione o attuare molte delle misure più severe adottate da altri paesi fino alla fine del 2020. Quali sono stati i fattori esplicativi che hanno consentito alla Corea di “imparare la lezione” in modo da rispondere efficacemente alle sollecitazioni del COVID-19? Seoul è riuscita ad avere la meglio sulla pandemia sviluppando linee guida chiare di comportamento per il pubblico, conducendo sin dal momento della stessa comparsa del virus test completi e tracciamento dei contatti, e fornendo ampio sostegno alle persone in quarantena. Il paese ha gestito con successo i focolai che si sono manifestati sposando un approccio strategico fatto di tre componenti principali, e cioè rilevamento tempestivo – attraverso un processo di screening innovativo e la stretta collaborazione tra pubblico e privato atto a garantire il subitaneo approntamento di kit diagnostici – contenimento – basato su un capillare e avanguardistico sistema di tracciamento – e trattamento – in virtù dell’adeguamento del sistema sanitario e dell’intervento del governo nell’affrontare la carenza di dispositivi di protezione individuale.
Questo contributo cerca di dimostrare come la Corea del Sud abbia offerto un’alternativa credibile, efficace e, soprattutto, democratica alle forti restrizioni introdotte da altri paesi nella lotta alla pandemia. In particolare, si mira a illustrare le modalità attraverso le quali il governo ha risposto alle sfide poste dalla crisi attraverso il coinvolgimento degli scienziati, la reattività, e la continua condivisione delle informazioni con il pubblico.
2. La Corea del Sud e le pandemie prima del COVID-19
Nel novembre del 2002 il virus SARS-CoV-1 (Sindrome respiratoria acuta) fece la sua apparizione nella provincia cinese del Guangdong, e da lì cominciò a diffondersi rapidamente a molti altri paesi, anche se l’epicentro rimase concentrato alla Cina continentale e Hong Kong (oltre 7.000 casi e 648 morti su un totale di 8.096 episodi e 774 decessi).2 Nonostante la prossimità geografica, in Corea si registrarono solo 3 casi di SARS e nessun decesso: ciò grazie al fatto che l’amministrazione in carica – guidata dal neoeletto presidente No Muhyŏn – si rese immediatamente conto della serietà della situazione nei paesi vicini e procedette all’adozione di misure di prevenzione – tracciamento, isolamento, quarantena – e all’attivazione di un sistema organico di cooperazione tra il governo centrale e quelli periferici. Il 17 giugno 2003, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarò che la Corea aveva avuto la meglio nella sua battaglia contro la SARS, riuscendo a debellare il virus in meno di 100 giorni dall’allerta e, per questa ragione, quello coreano poteva essere considerato un “modello” nella prevenzione delle malattie infettive.3
All’inizio di maggio del 2009, la Corea del Sud fu investita da una nuova pandemia originatasi presumibilmente in Messico, l’influenza H1N1, la cui presenza fu testimoniata in più di 200 paesi nel mondo. Tra maggio e agosto di quell’anno, circa 750.000 casi furono confermati dai test di laboratorio condotti dalle autorità sanitarie coreane; il picco fu raggiunto nel mese di novembre, ma di lì in avanti l’incidenza della pandemia scemò rapidamente – grazie soprattutto all’attivazione del programma vaccinale – fino a svanire nei primi mesi del 2010.4 Secondo le stime ufficiali, 252 cittadini sudcoreani persero la vita a causa della H1N1.5 La risposta fornita dalle autorità sanitarie si dimostrò particolarmente efficace anche in questo caso: a seguito delle raccomandazioni giunte dall’OMS, infatti, il governo di Seoul aveva sviluppato, già nel 2006, un piano di attivazione e risposta a eventuali episodi pandemici.6
Alcuni anni dopo, nel 2015, l’esplosione della MERS CoV mise tuttavia drammaticamente in evidenza le fragilità del sistema sudcoreano di gestione delle crisi sanitarie, attribuibili non a fattori biomedici ma bensì all’imperizia delle istituzioni, all’assenza di protocolli adeguati, alla scarsa trasparenza nella veicolazione delle informazioni al pubblico e all’inadeguatezza della gestione ospedaliera del contagio. La MERS, trasmessa agli esseri umani dai dromedari, aveva avuto origine in Arabia Saudita nel 2012 e da quel momento aveva continuato a diffondersi all’intero Medio Oriente: alla metà del 2014 i casi confermati erano ormai saliti a 852, con 301 persone la cui morte era verosimilmente riconducibile a questo virus.7
Il 4 maggio 2015, un cittadino sudcoreano di 68 anni fece ritorno a Seoul dopo un viaggio d’affari che l’aveva condotto in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti, e in Bahrain. All’incirca una settimana più tardi, l’uomo, che aveva cominciato ad avvertire dolori diffusi e febbre, si recò in varie cliniche, prima di essere ammesso all’ospedale St. Mary di P’yŏngt’aek, con la diagnosi di polmonite. Dato che le sue condizioni non miglioravano, egli decise di rivolgersi, in due diverse occasioni, al Samsung Medical Center di Seoul – uno dei migliori ospedali della nazione – in cui, il 20 maggio, gli fu diagnosticata l’infezione da MERS. Era ormai troppo tardi per bloccare la diffusione del contagio, dato che il “paziente 1”, nel corso dei primi dieci giorni di peregrinazioni tra ospedali, era entrato in contatto con molte altre persone.8 Una settimana più tardi, un uomo di 35 anni fu trasferito anch’egli presso il Samsung Medical Center in preda a gravi difficoltà respiratorie. Solo nel corso della notte del 29 l’ospedale fu informato dalle autorità sanitarie che l’uomo era verosimilmente entrato in contatto con il “paziente 1” a P’yŏngt’aek; nonostante l’immediato trasferimento in isolamento, l’uomo era diventato un superspreader, visto che, a causa sua, il contagio si era già esteso a un’altra ottantina di persone.9 Il risultato fu che la Corea divenne il paese con il più alto numero di contagi da MERS al di fuori del Medio Oriente, con 186 casi confermati, 38 decessi e più di 16.000 persone poste in quarantena.10 La fine della pandemia fu ufficialmente dichiarata dal governo il 23 dicembre del 2015, circa sei mesi dopo la sua comparsa.11
Come si evince dall’analisi delle crisi sanitarie che hanno colpito la Corea del Sud prima del COVID-19, il paese è stato dapprima considerato come uno dei più preparati nel contenimento delle pandemie – come nel caso della SARS – salvo, poi, in occasione della MERS, vedere la propria reputazione incrinarsi a causa dell’inefficacia del governo nel controllare la diffusione del virus. Da un punto di vista ufficiale – quello della missione congiunta Repubblica di Corea-OMS, che ebbe il compito di investigare le cause della crisi sanitaria in Corea – i fattori che contribuirono alla rapida diffusione della MERS furono la scarsa familiarità col virus da parte della classe medica; l’inadeguatezza delle misure di prevenzione; il sovraffollamento dei pronto soccorso e delle corsie ospedaliere; la pratica dei sudcoreani di rivolgersi a molteplici istituzioni sanitarie (anche conosciuta come doctor shopping); e l’usanza in voga tra i pazienti di farsi accompagnare o visitare da molti amici o parenti (all’origine del cosidetto “contagio secondario”).12
Una delle ragioni più importanti per spiegare l’inefficacia della risposta fornita dalla Corea del Sud alla MERS fu senza dubbio l’assenza di una risposta iniziale alla pandemia; le autorità sanitarie sudcoreane non fecero alcuna menzione della MERS per ben diciassette giorni dal report somministrato dal primo ospedale, mentre il governo ammise la presenza del virus nel paese solo dopo che gli organi di stampa ebbero cominciato a nutrire dei sospetti. Di conseguenza, vista l’assenza di misure precauzionali ufficiali, gli operatori ospedalieri, così come gli utenti, furono esposti al virus senza alcuna protezione. Ciò, oltre a lasciare che il virus si diffondesse molto rapidamente nelle fasi iniziali, rese impossibile qualunque forma di tracciamento. Oltretutto, quando i mass media presero a incalzare il governo, questo si rifiutò di fornire qualunque informazione sulla diffusione della MERS, come, per esempio, il numero delle persone contagiate e, soprattutto, i nomi degli ospedali in cui tali pazienti erano stati ricoverati o in cui avevano ottenuto il responso di positività.13 Non solo l’assenza di trasparenza e di comunicazione col pubblico andava contro i precetti dell’OMS, ma le insensate rassicurazioni fornite dal governo apparivano in controtendenza rispetto alla risposta data dagli altri paesi investiti dal virus, che avevano invece disposto di trasmettere pubblicamente tutte le notizie necessarie a limitare la diffusione. Proprio la decisione di non divulgare alcuna informazione, minacciando addirittura di perseguire legalmente coloro che diffondevano notizie infondate, si rivelò un fattore decisivo per la propagazione del virus, considerato che la MERS era molto contagiosa e quindi recarsi presso gli ospedali in cui erano ricoverati pazienti che avevano contratto il virus poteva rivelarsi pericoloso. In aggiunta, tale presa di posizione sembrò dipendere dalla esplicita volontà del governo di proteggere alcuni ospedali privati; lo stesso Ministro della Sanità e del Welfare, Mun Hyŏng P’yo, ammise che l’assenza di trasparenza era in realtà votata a prevenire le potenziali ingenti perdite che gli ospedali toccati dalla pandemia avrebbero certamente subìto.14 È importante sottolineare, peraltro, come la trasparenza fosse fondamentale per tutti coloro che erano già affetti da un certo tipo di patologie, come il diabete, i quali avrebbero potuto – e dovuto – evitare tutti quei nosocomi a rischio. Solo dopo circa un mese dall’inizio della pandemia il governo decise di rivelare i nomi di 24 ospedali in cui si erano verificati focolai di MERS.15
3. Il COVID-19 si abbatte sulla Corea
Il primo caso di COVID-19 è stato confermato in Corea del Sud il 20 gennaio 2020, dopo che una trentacinquenne proveniente da Wuhan aveva cominciato ad avvertire i sintomi mentre si trovava in transito presso l’aeroporto internazionale di Inch’ŏn.16 Per il primo mese, tuttavia, sembrava che la situazione fosse stata messa efficacemente sotto controllo, visto che i casi confermati – una trentina di cittadini dell’area della capitale Seoul che si erano recati in Cina – erano aumentati di sole due unità al giorno. La gran parte della popolazione riprese a usare le metropolitane e a recarsi nei grandi centri commerciali. Il 17 febbraio, però, la situazione precipitò rapidamente con la scoperta – effettuata presso una clinica della città di Taegu, a circa 250 chilometri a sud di Seoul – della “paziente 31”.17 Il caso non destò particolari preoccupazioni fino a quando le autorità sanitarie non cominciarono a tracciare i movimenti effettuati dalla donna nei giorni anteriori al test. Ciò che emerse fu motivo di profondo turbamento, dato che si scoprì come nei dieci giorni precedenti la donna avesse preso parte a due incontri della setta religiosa segreta Sinch’ŏnji insieme a un migliaio di fedeli.18 Essa, peraltro, si era recata presso un ospedale già il 7 febbraio, lamentando delle forti emicranie, dovute, a suo avviso, a un incidente stradale occorsole il giorno precedente; stando a quanto dichiarato dalle autorità ospedaliere, la donna – che non mostrava alcuna difficoltà respiratoria – non aveva lasciato la Corea dal dicembre 2019 e non sembrava essere entrata in contatto con nessuno che avesse già sviluppato il COVID-19.19 Solo dopo tre giorni di ricovero ospedaliero la temperatura della paziente cominciò a salire, anche se il test antiinfluenzale risultò negativo. Il giorno successivo essa si allontanò dall’ospedale per un paio di ore – un’abitudine piuttosto radicata in Corea del Sud – per prendere parte alla funzione mattutina della Sinch’ŏnji. Tra il 15 e il 16 febbraio, la paziente lasciò nuovamente dall’ospedale, sia per consumare il pranzo con una conoscente sia per partecipare a un’altra funzione religiosa.20 Fu solo il 17, quando le condizioni cominciarono ad aggravarsi, a causa della comparsa dei primi segni della polmonite, che i medici decisero di somministrare il test per il COVID-19, che, ovviamente, risultò positivo. C’erano voluti quindi dieci giorni prima di accertare la positività della donna al nuovo virus. A quel punto, però, si trattava di stabilire rapidamente con chi la donna fosse entrata in contatto durante il periodo di degenza.21 La “caccia all’uomo” fu resa particolarmente complicata dal fatto che gli adepti della setta Sinch’ŏnji – che conta più di 300.000 membri in una trentina di nazioni – oltre a dover mantenere un riserbo assoluto sulla propria posizione religiosa sono adusi pregare posizionandosi a stretto contatto fisico gli uni con gli altri. Peraltro, nella visione delle cose dei fedeli della setta in questione il corpo non è degno di alcuna importanza e quindi è necessario recarsi presso il luogo di preghiera anche se si è malati, poiché solo la parola sacra è in grado di donare la salvezza. Spaventate dall’immediata impennata dei contagi, le autorità portarono l’allerta sanitaria al livello massimo. Ciononostante, la pronta collaborazione tra le autorità centrali e quelle periferiche permise l’individuazione di gran parte dei fedeli della Sinch’ŏnji, i quali, sottoposti a test, risultarono responsabili per oltre il 60% dei casi confermati agli inizi di marzo.22
L’enorme sforzo del governo, finalizzato a tracciare coloro che erano stati esposti al contagio e a porli in quarantena, ebbe successo: dopo il picco raggiunto ai primi di marzo, i casi confermati di COVID-19 rimasero sotto le 100 unità al giorno fino alla metà di agosto, quando si verificò una seconda ondata. Come nel caso di Taegu, anche questo nuovo focolaio ebbe origine all’interno di un gruppo religioso, la Sarang Jeil Church di Seoul.23 Ciò spinse le autorità a reimporre la chiusura delle chiese e dei locali pubblici (specialmente quelli notturni), oltre a vietare le manifestazioni pubbliche; tali misure si scontrarono con il parere degli epidemiologi, che chiedevano l’adozione di provvedimenti ancora più rigidi.
Sul finire del 2020, tra novembre e dicembre, i casi acclarati di COVID-19 ripresero ad aumentare, allarmando le autorità sanitarie, preoccupate del fatto che i cittadini stessero cominciando ad allentare le difese; gli annunci della stampa relativi all’introduzione sul mercato di vaccini contro la pandemia – nonostante questi non fossero ancora pronti – potrebbe aver contribuito a far sì che i cittadini prestassero meno attenzione alle norme più basilari come quella di rispettare la distanza precauzionale. Nel corso di quei mesi, peraltro, gli specialisti si resero conto del fatto che questa nuova ondata era caratterizzata dall’insorgenza di molteplici piccoli focolai – più difficili da rintracciare e isolare – piuttosto che un vero e proprio epicentro, com’era accaduto all’inizio della pandemia.
4. Il sistema di governance contro il COVID-19
La risposta al COVID-19 da parte della Corea del Sud è stata caratterizzata da una rapida quanto continua comunicazione tra i ministeri coinvolti nonché tra l’amministrazione centrale e quelle periferiche, dando così vita a un approccio che ha coinvolto l’intero spettro istituzionale. Combinato a un efficace sistema sanitario centralizzato, questo apparato ha saputo adottare delle contromisure alla pandemia nell’intero paese attraverso la mobilitazione delle risorse – finanziarie e umane – a tutti i livelli. In aggiunta, la collaborazione offerta dalla cittadinanza, principalmente attraverso la pronta adozione di misure di prevenzione di base, come le mascherine per la protezione delle vie respiratorie, e un solido impianto legislativo in ambito sanitario, ha aiutato il governo a identificare un equilibrio tra il rispetto dei diritti individuali e la difesa della salute pubblica.
Rispetto all’epoca della MERS, le autorità sudcoreane hanno compreso che una tempestiva impostazione del livello di allerta appropriato è fondamentale, dal momento che ogni livello stabilisce le misure di risposta corrispondenti, specifica i ruoli delle istituzioni pertinenti e attiva il personale per il controllo dell’epidemia, oltre a segnalare con precisione la gravità della situazione alle agenzie competenti e al pubblico. Per questo motivo, già in presenza del primo caso di COVID-19 confermato, il 20 gennaio, l’allerta è stata portata al livello “giallo” e, una settimana più tardi, il 27 gennaio, con quattro casi confermati, ad “arancione”. Raggiunto questo livello, si è immediatamente attivato il Central Disaster Management Headquarters (CDM) sotto il controllo del Ministero della Sanità e del Welfare. Il 23 febbraio, al fine di far fronte all’epidemia di massa verificatasi a Taegu, le autorità hanno optato per il passaggio al livello di allerta massimo, il “rosso”; contestualmente si è riunito il Central Disaster and Safety Countermeasure Headquarters (CDSC) – guidato dal Primo Ministro – cioè la “torre di controllo” per la prevenzione e il controllo della diffusione della pandemia.24 Questo organo è direttamente supportato dal CDM, dato che il Ministro della Sanità e del Welfare occupa la posizione di primo vicecapo del CDSC; il secondo vicecapo è invece il Ministro dell’Interno e della Sicurezza, il quale, al contempo, guida il Pan-government Countermeasures Support Headquarters (PCS), deputato a fornire l’assistenza necessaria per la gestione e il coordinamento delle situazioni di crisi tra i vari livelli di governo, inclusa la mobilitazione di risorse e l’allocazione dei pazienti tra i diversi ospedali pubblici. Anche altri ministeri e organizzazioni pertinenti sono stati coinvolti nell’assunzione di contromisure. Ad esempio, il Servizio di Assicurazione Sanitaria Nazionale è stato incaricato di finanziare il trattamento e i test dei pazienti che hanno contratto il COVID-19, mentre il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha assunto la responsabilità dell’erogazione di forme di sostegno e aiuti economici emergenziali alle fasce della cittadinanza e alle imprese maggiormente colpite dalla pandemia.
La spina dorsale dell’attuale sistema di controllo e gestione delle malattie infettive è tuttavia rappresentata dal Korea Disease Control and Prevention Agency (KCDA). Istituito nel dicembre del 2003, immediatamente dopo l’epidemia da SARS, con il nome di Korea Centers for Disease Control and Prevention (KCDC), esso era originariamente posizionato sotto l’ombrello del Ministero della Sanità e del Welfare e forniva supporto tecnico nella prevenzione e nel controllo delle epidemie, la sorveglianza, le procedure di quarantenato e la supervisione delle prove di laboratorio e della ricerca a livello nazionale e subnazionale. In occasione della MERS, tuttavia, il KCDC mancava di potere decisionale indipendente e di un canale per la collaborazione orizzontale con altri ministeri. Il suo direttore, ad esempio, non aveva l’autorità per autorizzare la chiusura delle strutture pubbliche o adottare altre misure di quarantena preventiva senza l’approvazione delle autorità superiori. Invece di dare maggiori poteri al KCDC, le autorità sudcoreane istituirono una pletora di organizzazioni ad hoc; nello spazio di poche settimane dopo la comparsa della MERS sorsero quindi varie catene di comando concorrenti e sovrapposte senza linee guida chiare per la collaborazione tra agenzie. Di conseguenza, il KCDC fu costretto a dedicare più tempo a dare supporto informativo ai burocrati che a utilizzare in modo produttivo le proprie competenze e risorse per contenere la pandemia.
La lezione impartita dalla MERS ha fatto sì che al KCDC venisse affidato l’importante ruolo di sorveglianza e risposta alle malattie infettive, attraverso un’ampia revisione della legislazione in materia. Successivamente, il 12 settembre 2020, l’organo, ribattezzato con l’attuale denominazione, è stato sottratto alla subordinazione al Ministero della Sanità e del Welfare e promosso ad agenzia di livello vice ministeriale dotata di piena autonomia organizzativa e finanziaria.25 All’interno del KDCA è stato istituito un Istituto Nazionale per le Malattie Infettive, al fine di promuovere lo sviluppo di vaccini e terapie, mentre la sua Divisione di Valutazione dei Rischi e Cooperazione Internazionale facilita il monitoraggio internazionale, la collaborazione e l’analisi informativa con organizzazioni internazionali come l’OMS e l’Agenda per la Sicurezza Sanitaria Globale. Il KDCA, quindi, attraverso l’ampliamento dei propri poteri ha assunto un ruolo chiave nella gestione delle epidemie e nella risposta a esse.
A livello locale, l’organo più rilevante è il Local Disaster and Safety Management Headquarters, a capo del quale normalmente si trova un governatore. Questa istituzione, che collabora con il governo centrale alla definizione delle contromisure alla crisi, è responsabile della gestione dei centri di salute pubblica e degli ospedali regionali. Essa, basandosi sulla propria pianificazione sanitaria, fornisce servizi sanitari pubblici, compreso il controllo delle malattie infettive e l’eventuale erogazione di vaccini. Grazie alla stretta comunicazione istituzionale, il governo centrale può fornire le risorse necessarie quando le contromisure richieste vanno al di là delle capacità dei governi locali.
Le pandemie precedenti il COVID-19 hanno costituito un punto di svolta anche in ambito legislativo. Già a seguito della SARS, l’OMS aveva proceduto a modificare le Regolamentazioni Sanitarie Internazionali – la cui nuove versione fu adottata nel maggio 2005 – con cui si raccomandava a ogni stato membro di acquisire, nei successivi cinque anni, le competenze necessarie alla sorveglianza e alla reazione nei confronti delle epidemie.26 La Corea del Sud aveva immediatamente proceduto a una riorganizzazione complessiva delle principali normative in ambito epidemiologico, giungendo all’introduzione, nel dicembre 2009, della Legge sulla Prevenzione e sul Controllo delle Malattie Infettive, finalizzata a fornire una risposta più efficace alle pandemie. Nel maggio del 2014, l’OMS aveva distribuito una nuova serie di raccomandazioni, suggerendo ai paesi membri non solo di alzare la guardia contro il virus, ma anche di incorporare misure di prevenzione e risposta all’interno dei quadri normativi dei singoli paesi.27 Quando la MERS raggiunse la Corea, tuttavia, il quadro relativo alle malattie infettive non era ancora stato aggiornato (e, quindi, la MERS non era contemplata) e, di conseguenza, il governo non aveva a sua disposizione un fondamento normativo che gli permettesse di reagire efficacemente e prontamente. Subito dopo la pandemia le autorità sudcoreane procedettero alla revisione della Legge, preoccupandosi principalmente di assicurare la massima trasparenza e rapidità nel trasferimento delle informazioni e una più efficiente allocazione di risorse umane e materiali. In aggiunta, la revisione creò le basi per una chiara cooperazione tra il centro e la periferia – precedentemente assente – conferendo anche ai governi locali la responsabilità di controllo e garantendo la presenza di almeno due epidemiologi in ciascuna municipalità. Nell’eventualità di una pandemia, i governi provinciali e municipali avrebbero quindi potuto immediatamente condurre investigazioni, assicurare scorte sanitarie, assumere le misure adeguate di risposta e informare le istituzioni gerarchicamente superiori.
Nel marzo del 2020 la legge sulla Prevenzione e sul Controllo delle Malattie Infettive è stata ulteriormente emendata, andando a rappresentare, nel corso della recente pandemia, la base giuridica per un ampio tracciamento dei contatti, per l’avvio delle procedure di isolamento e per la gestione dei contagiati.28 In virtù delle successive revisioni del 12 agosto e del 29 settembre 2020, i governi locali, le autorità di controllo delle epidemie e le forze di polizia sono state dotate dell’autorità per fornire una risposta congiunta a eventuali violazioni, come l’interruzione della quarantena o la diffusione di false informazioni sul COVID-19.
5. Da “superspreader” A “superstopper”: la risposta coreana al COVID-19
Che cosa ha permesso alla Corea del Sud di trasformarsi da superspreader, come era stata definita successivamente alla MERS, a superstopper del Covid-19?
La ragione più immediata risiede nell’approccio onnicomprensivo adottato da Seoul e composto da tre misure: la reazione tempestiva; l’adozione del cosidetto modello 3T (Testare in modo ampio; Tracciare i contatti; Trattare in maniera rigorosa); e la cooperazione tra pubblico e privato e la consapevolezza sociale. Questa strategia è definita anche TRUST, che, oltre a riprendere il termine inglese “fiducia”, è l’acronimo di “trasparenza, screening robusto e quarantena, test universalmente applicabili, controllo rigoroso e trattamento”.29 La sua adozione ha consentito al governo in carica di controllare la diffusione del virus senza imporre alcun lockdown generalizzato o, almeno inizialmente, limitare gli accessi al paese dall’esterno.
5.1 Testare
Una lezione fondamentale impartita dalla Corea del Sud è stata rappresentata dall’importanza di istituire un’intima collaborazione tra governo e società private per rispondere efficacemente alla crisi, condurre test precoci e approfonditi e fornire diagnosi accurate. Nel 2015, il sistema sanitario coreano sciupò l’opportunità di rilevare immediatamente l’epidemia – e quindi di opporvisi – perché un kit diagnostico MERS di nuova concezione non aveva ancora superato la sperimentazione clinica e non poteva quindi essere utilizzato pubblicamente.30 La mancanza di test specifici spinse le persone contagiate a recarsi in varie strutture di cura, trasformandole nei principali veicoli di trasmissione della malattia nel paese. Successivamente a questa incredibile vicenda, la Corea del Sud, nel giugno 2016, promulgò un emendamento alla Legge sulla Strumentazione Sanitaria che promuoveva le partnership mediche pubblico-privato e concedeva al governo la facoltà di autorizzare l’utilizzo di nuovi dispositivi diagnostici in vitro non ancora ufficialmente approvati in caso di emergenza, in modo da superare qualunque stallo burocratico.
Alla metà di gennaio, prima della comparsa di casi confermati di COVID-19, il KCDC ha iniziato a sviluppare un nuovo metodo di valutazione del coronavirus, basato sulle sequenze genetiche che la Repubblica Popolare Cinese e il Centro Nazionale per l’Informazione Biotecnologica avevano reso disponibili. Il 27 gennaio, a una settimana dal primo caso confermato di COVID-19, i rappresentanti del KCDC hanno incontrato la Società Coreana per la Medicina di Laboratorio, l’Associazione Coreana per il Servizio di Valutazione della Qualità Esterna, e le aziende biotecnologiche per sottolineare l’urgenza di sviluppare un kit gratuito per il test al COVID-19, imprimendo così un forte impulso alla collaborazione tra pubblico e privato. Il KCDC ha condiviso i dati in suo possesso con l’industria biotecnologica, dando così attuazione, il 31 di gennaio, a un metodo diagnostico nazionale.31 Una settimana più tardi, i kit diagnostici sviluppati da quattro aziende specializzate (Kogen Biotech, Seegene, SolGent e SD Biosensor, alle quale si è aggiunta alla metà di marzo anche BioSewoom) hanno ricevuto l’autorizzazione all’utilizzo emergenziale (che quindi minimizzava le procedure burocratiche)32: i test erano in grado di fornire il responso sull’eventuale positività in sole sei ore.
Una delle strategie del governo coreano contro il COVID-19 è stata quella di investire quante più risorse mediche possibili per lo screening e la diagnosi precoce. Ciò risulta di fondamentale importanza perché, nelle fasi iniziali, l’isolamento e il monitoraggio dei pazienti con COVID-19 conclamato possono impedire un’ulteriore trasmissione della malattia e consentire ai pazienti di essere trasferiti in ospedale subito dopo la comparsa di gravi sintomi respiratori, riducendo così mortalità e morbilità. Al 26 febbraio, la Corea del Sud aveva sottoposto 46.127 individui a un controllo specifico, mentre il Giappone era fermo a 1.846 e gli Stati Uniti addirittura a 426.33 Inoltre, al fine di prevenire un esagerato e inutile ricorso ai nosocomi, sono stati aperti tempestivamente più di 600 centri in cui era possibile sottoporsi al tampone, facendo in modo, al contempo, che gli operatori sanitari minimizzassero qualunque tipo di contatto con l’utenza.34 Il governo, in aggiunta, ha introdotto immediatamente la possibilità di sottoporsi al test con la modalità drive-through o walk-through, adottata in seguito da moltissimi altri paesi nel mondo; in questo modo, non solo i contatti tra lo staff sanitario e l’utenza erano ridotti al minimo, limitando di conseguenza la possibilità di contagio, ma i tempi necessari per produrre il risultato si abbattevano considerevolmente, passando da un’ora a circa dieci minuti. Le cliniche drive-through hanno consentito di gestire più di 15.000 tamponi al giorno. In alcuni centri, poi, i pazienti venivano fatti accomodare in una struttura trasparente che ricordava le vecchie cabine telefoniche; l’operatore sanitario entrava dal lato opposto e sottoponeva l’utente al tampone faringeo inserendo le braccia in due lunghi guanti che spuntavano dalla struttura stessa: in questo caso il rischio di contagio era praticamente nullo.
Sul finire di gennaio del 2020 la Corea del Sud ha adottato una serie di procedure speciali da sottoporre a chiunque provenisse da Wuhan. Tali procedure inizialmente contemplavano l’osservazione di percorsi prestabiliti all’interno degli aeroporti e la somministrazione di un questionario; successivamente le misure sono diventate più stringenti, dato che occorreva sottoporsi al controllo della temperatura corporea, a un tampone e a un periodo di quarantena obbligatoria della durata di quattordici giorni, durante il quale tutti i viaggiatori in entrata venivano costantemente monitorati e tenuti sotto osservazione mediante un’apposita applicazione da installare sul proprio telefono cellulare. Gli operatori si interfacciavano con coloro che si trovano in quarantena più volte al giorno, per fornire cibo e qualunque genere di supporto psicologico necessario. In caso di interruzione della quarantena era prevista l’applicazione di pesanti sanzioni pecuniarie. Chiunque non fosse in possesso di un certificato di residenza in Corea del Sud veniva condotto in strutture apposite per il periodo di quarantena, il cui costo veniva addebitato al singolo utente. Questa politica di tracciamento e isolamento era in linea con le raccomandazioni prodotte dall’OMS, che però scoraggiava il contingentamento degli ingressi. Tra l’estate e l’autunno del 2020, tuttavia, l’aumento vertiginoso dei casi di COVID-19 a livello globale ha convinto le autorità sudcoreane ad assumere una postura più rigida, passando alla richiesta obbligatoria di visto per tutti coloro che desideravano entrare nel paese e sospendendo praticamente tutti gli accordi di esenzione; in questo modo, tutti coloro che facevano richiesta di visto presso le autorità diplomatiche sudcoreane all’estero erano obbligati a produrre un’ampia documentazione comprovante le proprie condizioni sanitarie e un certificato medico. Questa misura ha contribuito a ridurre di più dell’80% il numero di coloro che, tra il 2019 e il 2020, si sono recati in Corea del Sud.35
5.2 Tracciare
L’idea di sviluppare il Sistema di Tracciamento dei Contatti (CCTS) per porre sotto controllo la diffusione del COVID-19 – che ha destato l’interesse globale – è nata quasi per caso. Proprio nei giorni in cui l’epidemia cominciò a mostrarsi duramente nella città di Taegu, infatti, stava per essere avviato lo studio pilota di un progetto pluriennale finanziato dal governo – lo Smart City Project – il cui obiettivo era dare vita a una città “intelligente” di nuova concezione.36 Lo studio dovette essere posticipato a causa della drammatica situazione che stava emergendo; nondimeno, il team di progetto si mise al lavoro per sviluppare un sistema che tracciasse i casi confermati di COVID-19 riproponendo le caratteristiche e le capacità tecnologiche del progetto originario.
La sollecitazione fu accolta con entusiasmo dai responsabili del KCDC, i quali, fino a quel momento, avevano fatto affidamento su un sistema di tracciamento manuale – dispendioso e inefficace – che prevedeva l’ottenimento preventivo di varie concessioni da parte degli organi di polizia, delle società che rilasciavano le carte di credito e dei gestori di telefonia mobile.37 Di conseguenza, l’intero processo di raccolta, analisi e presentazione dei dati di tracciamento era troppo lento per tenere il passo con i casi di COVID-19. Fu a quel punto che diverse organizzazioni del settore pubblico e privato decisero di unire le forze per dare attuazione al CCTS. Il KCDC assunse la proprietà del sistema, mettendo il Korea Electronics Technology Institute (KETI), un istituto di ricerca finanziato dal governo, alla guida del progetto; tre grandi operatori di telefonia mobile, tre aziende di software e un’università lavorarono alla realizzazione delle diverse componenti del sistema, supportate da una quindicina di aziende di varia estrazione. Tutti gli sviluppatori del CCTS condividevano un senso di urgenza e responsabilità sociale che ha portato ad assumere rapidamente importanti decisioni su finanziamenti, personale e tecnologia, nonché a un’accelerazione senza precedenti dell’audit e delle certificazioni di sicurezza. Il finanziamento fu stanziato rapidamente riallocando il budget del progetto Smart City.
Un potenziale ostacolo allo sviluppo di sistemi come il CCTS è rappresentato dalle possibili violazioni della privacy: ciononostante, dopo la MERS, la Corea del Sud ha modificato il suo impianto legislativo per consentire la raccolta e la divulgazione condizionata delle informazioni rilevanti sui pazienti colpiti da malattie infettive. Tali informazioni includevano l’ubicazione, i pagamenti effettuati con carta di credito, le visite alle strutture sanitarie, l’ingresso o la partenza dal paese e le riprese video della televisione a circuito chiuso (CCTV).38 Il team ha compiuto sforzi sostanziali per garantire la sicurezza dei dati e del sistema, comprendendo quali sarebbero state le implicazioni anche di una singola violazione dei dati personali sulla sostenibilità del CCTS.
Operativamente, al verificarsi di un caso confermato di COVID-19, il KCDC effettuava l’inserimento delle informazioni del contagiato nel CCTS; il sistema procedeva quindi alla richiesta dei dati sui movimenti – rintracciabili attraverso i telefoni cellulari – e sull’utilizzo delle carte di credito. I gestori di telefonia mobile e le società di carte di credito recuperavano quindi i dati richiesti dai database sui propri server e li caricavano sul CCTS. I dati venivano quindi convertiti, archiviati e mantenuti nel modulo della piattaforma. L’intero processo avveniva in un arco temporale non superiore a dieci minuti. Considerato che un cittadino sudcoreano possiede in media 1,9 carte di credito e tutti hanno almeno un telefono cellulare, il sistema ha avuto buon gioco nel rintracciare la maggior parte delle persone contagiate. È utile ricordare, peraltro, che la Corea del Sud vanta una delle infrastrutture di mobile computing più avanzate al mondo, un’ampia copertura delle reti 4G e ha introdotto i primi servizi 5G – molto più precisi – già nell’aprile 2019; qualche mese più tardi, circa il 90% della popolazione sudcoreana risultava coperta dal 5G.39
I movimenti di un paziente risultato positivo al COVID-19, tra il giorno prima della comparsa dei sintomi e il primo giorno di quarantena, venivano condivisi con il pubblico attraverso diverse applicazioni basate sull’intelligenza artificiale (ad es. Corona Doctor, Corona Map, KMA Corona Fact).40 Sia il governo centrale sia quelli locali inviavano avvisi in tempo reale tramite un sistema di messaggi di testo (SMS) di allerta. Inoltre, i governi locali hanno proceduto a effettuare un’indagine epidemiologica preliminare sul campo condividendo i risultati con Seoul.
Oltre alle informazioni relative al tracciamento di un caso confermato il CCTS forniva anche indicazioni sui “punti caldi” – vale a dire aree altamente vulnerabili alle infezioni di massa, identificate sovrapponendo i casi confermati in un dato spazio geografico in un certo periodo di tempo – utili per evitare qualunque attività sociale nelle aree ad alto rischio. In aggiunta, il sistema era in grado di fornire una presentazione visiva dei percorsi seguiti da coloro risultati positivi al COVID-19: l’infografica prodotta e resa fruibile in rete mostrava orientativamente dove era avvenuto il contagio e chi (in modo anonimo) ne era responsabile. Queste informazioni sono risultate fondamentali per avere indicazioni sulla diffusione del virus nel paese.
5.3 Trattare
Nel quadro di una migliore gestione delle epidemie, a seguito della crisi determinata dalla MERS, il governo coreano ha aumentato il budget destinato a fronteggiare situazioni di questo genere, passando da uno stanziamento pari a circa 62 milioni di dollari nel 2015 a 175 milioni di dollari nel 2020.41 In aggiunta, nell’aprile del 2020, il governo ha istituito un fondo di ricerca e sviluppo sulle malattie infettive pari a circa 36 milioni di dollari in cinque anni (2018-2022) che ha finanziato molteplici progetti di ricerca che hanno contribuito a fornire evidenze scientifiche risultate utili per dare una risposta efficace al COVID-19. Molti sforzi sono stati fatti anche al fine di accrescere il numero di epidemiologi, istituire strutture ospedaliere dedicate alla cura delle malattie infettive e aumentare la disponibilità di posti in isolamento.
Nella fase iniziale della pandemia da COVID-19, tutti coloro che risultavano positivi venivano ricoverati in ospedale; in concomitanza con l’esplosione del focolaio di Taegu, tuttavia, i posti in terapia intensiva si sono velocemente saturati, con un conseguente aumento della mortalità tra coloro che attendevano di essere ricoverati. Per liberare i nosocomi da questa forte pressione, le autorità hanno cominciato a classificare i pazienti affetti da COVID-19 in base alla gravità dei sintomi e a trattarli di conseguenza. Nel caso di pazienti con sintomi moderati o asintomatici – che non avevano problemi nel rifornirsi di beni di prima necessità – si è optato per l’autoisolamento. Quelli con sintomi lievi, così come quelli che vivevano con parenti appartenenti a gruppi di rischio (come, per esempio, persone di età superiore a 65 anni affette da patologie a rischio), sono stati alloggiati presso i Centri di Trattamento Residenziale gestiti dai governi locali, venendo costantemente tenuti sotto controllo dal personale sanitario e trasferiti in ospedale o dimessi al cambiamento dei sintomi.42 Anche i grandi conglomerati industriali, come la Samsung o la LG, hanno messo a disposizione i propri edifici residenziali che sono stati prontamente convertiti in Centri di Trattamento Residenziale. I 18 Centri (16 per cittadini coreani e 2 per stranieri), immediatamente approntati, hanno consentito al governo di effettuare un efficace monitoraggio, prevenire la trasmissione ed evitare che si verificasse una carenza di posti letto ospedalieri per i casi gravi.43
I pazienti in condizioni più serie sono stati invece immediatamente ricoverati in ospedale per ricevere un trattamento adeguato. A febbraio del 2020, il governo ha prontamente designato 43 ospedali come centri dedicati esclusivamente alla cura delle malattie infettive, aggiungendone poi altri 24 nel mese successivo; alla fine del 2020 un totale di 2.468 nosocomi in tutto il paese era stato dotato di strutture apposite per la cura di pazienti che avevano contratto il COVID-19.44 Oltre agli ospedali riservati alle malattie infettive, sono state approntate dal governo – che sovrintende alla loro organizzazione e fornisce sostegno finanziario – alcune Unità di Isolamento, vale a dire dei reparti ospedalieri pronti a provvedere immediatamente ai pazienti che contraggono un virus.
Al fine di assicurare l’efficienza del sistema sanitario nel corso della pandemia la Corea aveva necessità di infoltire il personale medico, in particolare nelle aree duramente colpite dalla crisi. Successivamente all’aumento vertiginoso e improvviso dei casi di COVID-19 a Taegu, il personale sanitario è stato letteralmente travolto, al punto che, il 15 marzo 2020, la città venne dichiarata “zona disastrata”.45 Molti sono stati gli operatori sanitari che in quel momento si sono offerti volontari e sono stati reclutati per fare fronte alla situazione; per garantire la sicurezza di questi professionisti, il governo ha pubblicato le “linee guida operative per il supporto degli operatori sanitari COVID-19”, in cui si fornivano le informazioni necessarie sulla remunerazione, la durata del servizio, l’alloggio e le procedure di monitoraggio. Una volta tornata la normalità a Taegu, il governo centrale ha concentrato i suoi sforzi sul mantenimento dell’adeguatezza dei posti letto presso gli ospedali e delle risorse umane, rafforzando il triage e applicando una riallocazione flessibile di risorse, a seconda della gravità della situazione.46
Il governo ha deciso di procedere, almeno nelle fasi iniziali della pandemia, al razionamento delle mascherine – per far fronte alla eventuale carenza di questi dispositivi – e al controllo dei prezzi, in modo che il loro costo rimanesse accessibile a tutti i cittadini. In aggiunta, i dati del servizio farmaceutico nazionale sono stati utilizzati per monitorare la distribuzione dei dispositivi di protezione, al fine di non creare disparità nelle forniture e lasciare che i cittadini, attraverso delle apposite applicazioni digitali, fossero sempre a conoscenza del quantitativo di mascherine che ogni farmacia aveva a disposizione. Infine, l’intera catena di approvvigionamento dei dispositivi di protezione è stata costantemente monitorata dalle autorità al fine di prevenire il contrabbando di mascherine all’estero.
5.4 Comunicazione trasparente e partecipazione della cittadinanza
La risposta della Corea del Sud al COVID-19 ha dimostrato quanto rilevante sia una efficace comunicazione in caso di crisi. Il flusso circolare delle informazioni, tra le varie istituzioni e soprattutto verso il pubblico, in modo trasparente, è importantissimo al fine di costruire un senso di condivisione degli obiettivi. Peraltro, una comunicazione chiara non solo contribuisce allo sviluppo della fiducia ma tende a far aumentare l’autorevolezza del governo: nel caso in cui il governo non fornisca informazioni adeguate, il pubblico cercherà di approvvigionarsi autonomamente, finendo spesso per produrre disinformazione che può portare all’esacerbazione del panico.
Come già ricordato, durante l’epidemia di MERS le autorità coreane nascosero le informazioni chiave sugli ospedali in cui si erano verificati i contagi a causa della preoccupazione per cui il pubblico, terrorizzato, potesse chiedere la chiusura di tali nosocomi. Tale mancanza di trasparenza finì per minare la credibilità del governo e rese vani gli sforzi volti a prevenire la diffusione della MERS. Il pubblico, infatti, iniziò a cercare e condividere informazioni sulla pandemia attraverso canali di comunicazione alternativi, facendo sì che anche le fake news si diffondessero a macchia d’olio. Questo cortocircuito nella comunicazione dette origine a una crescente inquietudine nel pubblico, compromettendo al contempo le direttive sulla salute pubblica. L’assenza di indicazioni da parte delle autorità nazionali causò anche l’insorgenza di conflitti con i governi locali, alcuni dei quali, contravvenendo alle linee guida del KCDC, rilasciarono informazioni sui casi confermati di MERS all’interno del proprio territorio sulla base del “diritto all’informazione” da parte del pubblico.
Nel 2017, tuttavia, la Corea del Sud diede attuazione a una procedura operativa standard nei casi di emergenza sanitaria incorporando il protocollo di comunicazione del rischio dell’OMS e del KCDC.47 Sulla base di questa procedura, che ruotava attorno ad alcuni princìpi cardine – essere i primi a dare le notizie, essere accurati, essere credibili, esprimere empatia, promuovere l’azione dei cittadini, mostrare rispetto)48 – il KCDC ha tenuto due conferenze stampa al giorno sulla gestione dell’emergenza COVID-19 a partire dal 30 gennaio 2020, quando la Corea del Sud aveva solo quattro casi confermati di coronavirus. I leader politici coreani hanno lasciato immediatamente il proscenio agli esperti del KCDC, i quali hanno proceduto a emettere quotidianamente un chiaro aggiornamento della situazione; ciò ha contribuito a conquistare la fiducia del pubblico anche in riferimento alle varie misure, non sempre ben accette, di distanziamento sociale e quarantena, tanto che l’indice di approvazione delle attività del KCDC è risultato essere superiore all’80%.49
Il governo, in aggiunta, oltre a gestire i social media che fornivano infografiche e scoraggiavano gli utenti a prendere in considerazione indicazioni imprecise, ha messo a disposizione una hotline attiva 24 ore al giorno in cui si davano informazioni sul coronavirus e un sito internet (http://ncov.mohw.go.kr/en/). Queste misure di comunicazione rapida e trasparente hanno quindi incoraggiato l’adesione volontaria e pubblica alle misure attuate dalle autorità, rafforzando la legittimità politica dell’amministrazione Mun Chaein.
Oltre alla partecipazione volontaria, alcuni cittadini hanno intrapreso azioni più proattive, sviluppando applicazioni digitali di facile utilizzo per migliorare l’accessibilità alle informazioni ufficiali rilasciate dalle autorità governative. Ad esempio, “Corona Map” mostrava i casi confermati per regione, mentre “Corona 100m” avvisava gli utenti quando entravano nel raggio di 100 metri di un paziente confermato.50 Le modalità attraverso cui rintracciare un equilibrio tra le libertà civili e la difesa della salute pubblica sono state oggetto di inesauribili discussioni: ciononostante, in base a un sondaggio condotto a febbraio del 2020, quasi la metà dei cittadini sudcoreani ha richiesto una più ampia divulgazione di informazioni mentre solo il 6% riteneva che ciò violasse la loro privacy.51 La maggior parte dei sudcoreani ha valorizzato la propria libertà di movimento (a cui dovrebbe rinunciare nel caso di un lockdown completo) più della difesa della privacy. In quanto tale, il relativo successo della Corea del Sud nella lotta al virus senza l’applicazione di un lockdown generalizzato è il risultato della collaborazione governo-cittadini, che ha favorito l’instaurazione di un circolo virtuoso.
Conclusioni
Come si è cercato di dimostrare in questo contributo, la Repubblica di Corea ha mostrato adattabilità e resilienza quando ha dovuto confrontarsi con la pandemia da COVID-19, al punto da diventare un modello di riferimento globale. I fattori principali che hanno fatto della Corea un esempio virtuoso sono stati una comunicazione chiara ed efficace con il pubblico sulle pratiche di prevenzione, l’approntamento immediato di test diagnostici, il tracciamento dei contatti e una rigorosa politica di quarantena. Queste misure sono state accompagnate da un ampio supporto da parte della popolazione, che ha reso più semplice per tutti i cittadini uniformarsi alle misure introdotte dalle autorità. Tale ventaglio di strumenti ha mantenuto sotto controllo il contagio e ha consentito al governo di gestire alcuni focolai senza che ciò si ripercuotesse sull’economia, che ha continuato a far registrare performance migliori rispetto a quelle della maggior parte dei paesi affini.
Non era tuttavia scontato, nonostante il suo successo, che la strategia attuata da Seoul potesse essere adottata efficacemente da altri paesi. A causa della divisione della penisola, infatti, i confini della Corea del Sud sono, di fatto, “impermeabilizzati”, e il paese è raggiungibile solo in aereo: ciò contribuisce a un maggiore controllo sugli ingressi e, di conseguenza, sulla possibilità che i virus si diffondano con rapidità. In aggiunta, dal punto di vista culturale, la Corea del Sud si è rivelata più tollerante nei confronti della condivisione dei dati personali e la sua affermazione è dipesa in maniera decisiva dal grado di avanzamento tecnologico raggiunto. I paesi meno sviluppati tecnologicamente, o i cui cittadini sono meno propensi a condividere i propri dati personali potrebbero incontrare difficoltà nell’adottare tali strategie.
Malgrado queste differenze, molti aspetti della risposta della Corea del Sud meritano di essere studiati, compresi i suoi investimenti nella prevenzione, la chiarezza strategica (spasmodica attenzione nei confronti dei test diagnostici e tracciamento dei contatti), e la volontà di essere innovativi. Ciononostante, non appena la variante Omicron è diventata preponderante e i contagi hanno fatto registrare dei picchi vertiginosi, le autorità hanno deciso di rilassare le misure di contenimento, lasciando che la pandemia diventasse endemica e si trasformasse in una sorta di influenza stagionale. Dopotutto, il 90% della popolazione sudcoreana risulta vaccinata e Omicron ha una sintomatologia e una pericolosità molto minori rispetto alle varianti inziali del COVID-19. Tale scelta ha significato un’impennata nei contagi, ma il numero dei decessi è rimasto estremamente basso, anche in virtù della strategia adottata all’inizio.
Note
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