I “buoni libri” come terapia? Ricercando una didattica nuova delle lettere e delle idee nel postmoderno avanzato
Davide Monda, I “buoni libri” come terapia? Ricercando una didattica nuova delle lettere e delle idee nel postmoderno avanzato, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 28, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10247
Il fatto deplorevole è che almeno il novantacinque per cento dell’umanità campa in modo più o meno soddisfacente o disastrato, secondo i casi, senza il minimo interesse per le fughe di Bach, per l’a priori sintetico di Immanuel Kant o per l’ultimo teorema di Fermat (la cui soluzione recente è un punto luminoso nel Kitsch dominante di questa fine secolo). Prigioniera della logorante routine della sopravvivenza materiale, dei figli da partorire e da crescere, l’umanità considera queste cose (quando ne ha la pur minima consapevolezza) come un gioco più o meno ozioso o un lusso evidente, irresponsabile o diabolico nelle sue conseguenze. Di qui le immagini negative dello scienziato pazzo, dell’artista matto o del metafisico che cade nel pozzo. È incontestabile che, per quasi tutta la specie homo sapiens sapiens, la fede mondiale attuale sia il calcio. Le melodie del liscio o del rock esaltano, commuovono e consolano centinaia di milioni di persone per le quali una sonata di Beethoven sarebbe sinonimo di noia. Se potessero votare liberamente, i miei fratelli umani sarebbero in mille contro uno a scegliere una telenovela o un quiz piuttosto che Eschilo, e a preferire il lotto agli scacchi.
G. Steiner, Errata. Una vita sotto esame (1997), Milano, Garzanti, 2000
Senza la massima libertà, verità e giustizia, una democrazia non sopravvive a lungo. La libertà politica, da sola, non è sufficiente: dovrà instaurarsi un altro clima spirituale e aprirsi l’era della letteratura. Il vero poeta insegna cosa sia l’autentica libertà. La vera formazione spirituale non è altro che l’educazione alla nobiltà dello spirito. […] La vita è un cammino alla ricerca della verità, della bellezza, della bontà e dell’amore. è l’arte di diventare esseri umani, di coltivare l’anima dell’uomo. Questo è quel che si esprime nelle parole “nobiltà dello spirito”: la dignità umana.
R. Riemen, La nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta (2008), Milano, Rizzoli, 2010
La vera ragione per cui lo studio è così totalmente sparito dalle nostre vite è che non ci piace più dedicare parte del tempo della nostra vita a pensare. È sparita l’interiorità. Il piacere di stare con se stessi, di intrattenere rapporti con la parte interna, più spirituale, di noi. Non abbiamo nessuna voglia di ripiegarci, guardarci dentro e riflettere, ricordare, almanaccare su concetti, astrazioni, sentimenti.
P. Mastrocola, La passione ribelle (2015), Roma-Bari, Laterza, 2017
Fino al tramonto degli anni Ottanta, la letteratura costituiva il fulcro della struttura educativa nella scuola, il mezzo par excellence per la trasmissione di valori essenziali, ed era concepita spesso come il momento più alto e pregnante nella paideia di ogni soggetto educativo almeno fino all’esame di maturità1. Nell’attuale realtà scolastica, per contro, essa è entrata profondamente in crisi: invero, si tratta di un’impasse travagliosa che presenta sfaccettature alquanto singolari, e che va al di là, forse, di quella complessiva che, da circa mezzo secolo, complica e talora funesta l’istruzione scolastica nella sua globalità.
Avvertita dagli studenti come non più adeguata ad assolvere la funzione tradizionalmente assegnatale, «svalutata nella sua funzione conoscitiva della realtà umana per l’affermarsi delle scienze sociali, dall’antropologia alla sociologia»2, nonché privata – dalle acquisizioni della linguistica moderna e, soprattutto, dall’egemonia imperiosa di un italiano d’uso comune sovente sciatto e mortificato – della sua tradizionale funzione di modello linguistico, la letteratura non occupa più, nella pratica didattica di gran lunga prevalente, l’antica posizione privilegiata. Tale considerazione scaturisce dalla consapevolezza ormai diffusa di una mutata concezione della scuola (e del suo ruolo nella società), che mette in discussione, fra l’altro, il profilo professionale dell’insegnante.
La convinzione consolidata secondo cui, per insegnare, fosse sufficiente conoscere i contenuti della disciplina, in verità, cede oramai all’idea che ciò non basti più, essendo necessario che il docente segua metodiche più adeguate alle complesse esigenze di una scuola in perpetua metamorfosi. Certamente, i pregiudizi son duri a morire, e manipoli di professori “vecchio stile” seguitano a sostenere che temporibus illis s’insegnava benissimo, anzi meglio di ora, senza ricorrere a tanti, troppi ragionamenti su obiettivi, percorsi didattici, metodologie, strategie interdisciplinari et similia. Forse non hanno tutti i torti, e nondimeno bisogna tener presente che il modus cogitandi et procedendi di ieri non è più proponibile nella scuola d’oggi.
L’opinione che allora si operasse meglio deriva probabilmente dal fatto che l’insegnamento rispondeva alle aspettative degli allievi, delle famiglie, dei colleghi, delle istituzioni scolastiche e, dunque, della società tout court. La richiesta mirava essenzialmente alla “trasmissione del sapere”, di un sapere in merito al quale sussisteva un sostanziale accordo, di un sapere pressoché codificato; così, il docente proponeva alle nuove generazioni le proprie conoscenze sul modello dell’insegnamento che aveva, a sua volta, ricevuto. Ci si manteneva, dunque, fedeli a una sorta d’imitatio, svolgendo «un’operazione didattica in re»3. Il procedimento, ha notato con sottile perspicacia sempre Ezio Raimondi, era perlopiù artigianale, ma comunque funzionale4.
Oggigiorno, al contrario, numerosi fra gli studi più recenti e avvertiti sulla didattica dei saperi umanistici tendono a trasferire l’attenzione dal docente che consegna, “trasmette il sapere”, al rapporto che, nel processo didattico, s’instaura fra l’insegnante e l’alunno, valorizzando in tal maniera la figura del soggetto che apprende; si parla, piuttosto che di trasmissione, di una “comunicazione” che investa sia l’emittente sia il ricevente – premessa la palese identificazione emittente/docente, ricevente/discente.
La comunicazione5 d’altro canto – come ci ha insegnato la Scuola di Palo Alto e, segnatamente, il geniale, poliedrico Paul Watzlawick6 – è in realtà ben di più che la mera trasmissione di dati in un messaggio codificato: «questo “di più” non riguarda la formazione del messaggio o la quantità d’informazioni, il codice o il canale, bensì inerisce al “come trasmetterlo”, o meglio al “come invogliare a riceverlo”»7; ciò rende l’atto dell’insegnare oltremodo complesso, specie considerato che le informazioni possedute costituiscono un sapere nella misura in cui sono organizzate. Compito precipuo del docente è, allora, quello di ordinare e rappresentare la materia anche creando un sistema di gerarchie virtuose, giacché «non è vera ricchezza quella che aggiunge, ma quella che gerarchizza»8.
A ogni buon conto, tante pur meritorie disquisizioni condotte, negli ultimi cinquant’anni, sul “come” insegnare ai ragazzi non sono però riuscite, nonostante le apparenze solide e rassicuranti, a rasserenare il corpo docente, come si evince, in primis et ante omnia, dalle numerose e (talvolta) aspre voci di scontento che si alzano da più parti nei diversi milieu scolastici.
Valga per tutte un’osservazione di Paola Mastrocola – egregia ex docente in licei piemontesi, ma soprattutto scrittrice di fama, apprezzata filologa e coraggiosa esperta in didattica della letteratura – la quale, sballottata nel terremoto che ha travolto la scuola, sente di svolgere un «mestiere che non c’è più»; sembra, aggiunge, che a tutti importi d’imparare a insegnare e d’insegnare a imparare, ma che a nessuno importi il “che cosa”: «Io insegnavo facendo letteratura. Tutto qui. Per me, il mio mestiere era semplicemente questo: insegnare letteratura. […] Vedere che oggi la letteratura è così trascurata, negata, fintamente elogiata, o ficcata dentro assurdi macchinari che la triturano fino a polverizzarla in nulla, mi provoca una grande rabbia e tristezza»9.
Si potrà esser d’accordo o meno con l’autrice, ma di certo quanto più la letteratura vede ridotto il proprio spazio e il proprio prestigio, quanto più il testo letterario perde la propria centralità formativa, tanto più tende ad illanguidirsi anche la funzione educativa del docente di materie umanistiche. A tal proposito – suggerisce acutamente Romano Luperini – a nulla giova rimpiangere il passato, atteggiandosi magari a livorosi o sdegnati laudatores temporis acti: occorre, viceversa, attrezzarsi a una nuova situazione storica, ove lo studio della letteratura così come è stato tradizionalmente concepito dalla scuola italiana non è più, non può più essere il fondamento privilegiato della formazione del cittadino europeo10.
Non per caso in uno dei suoi ultimi saggi Tzvetan Todorov, riflettendo in primo luogo sulla barcollante situazione effettiva delle Humanities francesi, ha dichiarato apertis verbis: «L’educazione letteraria può conservare, nel sistema scolastico del Paese, un’importanza decisiva, a condizione che sappia rinnovarsi davvero, e che riesca a rintracciare la propria funzione educativa anche seguendo piste assai diverse rispetto a quelle percorse in passato. Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano. Quale migliore introduzione alla comprensione dei comportamenti e dei sentimenti umani, che non immergersi nell’opera dei grandi scrittori, che si dedicano a questo compito da millenni? […] Avere come maestri Shakespeare e Sofocle, Dostoevskij e Proust non sarebbe come approfittare di un insegnamento eccezionale?»11.
Ma, tornando ora al contesto italiano, conviene presumibilmente rammemorare in breve che – per quasi due secoli, e dunque da Foscolo a De Sanctis sino al più pertinace e fortunato storicismo novecentesco – la didattica della letteratura si è fondata su ideali patriottici e civili in senso virtuosamente nazionale o nazionalistico – salvo tragiche eccezioni autocratiche sin troppo cognite –, i quali oggi d’altronde non sono più de facto proponibili.
In seguito, ovvero tra la fine degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta, si è tentato d’impiegare modelli d’impianto variamente scientista e, quasi di conseguenza, riduzionista: mi riferisco, beninteso, a parametri interpretativi di natura prevalentemente descrittiva, i quali hanno ridotto a mano a mano l’insegnamento delle civiltà letterarie d’Europa all’algida e pressoché sterile acquisizione di una sequela di competenze tecniche e formalistiche, contribuendo ad allontanare i soggetti educativi dall’esperienza esistenziale e psicopoietica della lettura, dal senso vivo e vivificante di ogni civiltà letteraria meritevole di questo nome.
Dagli anni Novanta ad oggi, infine, le posizioni scientiste, neopositiviste e strutturaliste sono state messe radicalmente in discussione – com’è risaputo – da molti autorevoli fautori della cosiddetta “crisi della ragione”, nonché da quegli studiosi de race che insistono sulla complessità e sulla problematicità delle conoscenze, entrambe caratteristiche precipue di quello che, da quasi mezzo secolo, viene da più parti definito il postmoderno12.
Ecco forse perché oggi, nella cultura occidentale, si sono andati via via affermando e solidificando non pochi indirizzi scientifici e orizzonti assiologici che pongono l’accento sull’importanza della lettura – lettura del testo e, parallelamente, lettura del mondo – come attività ermeneutica, del confronto produttivo e del conflitto virtuoso di interpretazioni che ne possono scaturire, della ricerca del senso e dell’attribuzione di significato.
Sulle orme fonde e memorabili di Gadamer, Ricoeur, Jauss, Hirsch, Raimondi e di altri maestri del ’900, l’ermeneutica attuale si prefigge, come risaputo, di sostituire alla centralità del testo quella del lettore, rendendo così l’interpretazione il momento determinante del lavoro critico. Tale orientamento complessivo, inoltre, s’indirizza sempre più verso l’elemento della responsabilità etica – individuale e collettiva – connaturata all’atto dell’interpretare, nonché verso la relatività, complessità e problematicità delle conoscenze, ponendo di frequente l’accento sul nesso fra democrazia e conflitto produttivo delle interpretazioni.
Indubbiamente, molte cose sono cambiate nel corso di questi “Hard Times”, e risulta innegabile, in molti casi, la forte differenza d’interessi esistente fra le precedenti generazioni di giovani e quelle contemporanee. Di fatto, non sembra davvero prevalere, in queste ultime, una spiccata quanto lucida e responsabile passione per le humanae litterae, né un interesse per temi e problemi genuinamente paideutici, bensì una pressante necessità d’essere al passo con i tempi, in quanto si debbono confrontare, secondo spietate logiche vieppiù imperanti, con un mondo intriso di cultura scientifica e tecnologica, nel quale la tradizione classica e umanistica pare spesse volte relegata in margini inutili od obliati, nei più polverosi bassifondi della memoria.
Così, a prescindere dallo sforzo diuturno e severo che qualsivoglia studio autentico impone, di gran lunga meglio impadronirsi il più presto possibile – parrebbero giudicare le nuove generazioni di studenti – dei fondamenti decisivi delle scienze esatte, delle scienze naturali, dell’economia quantitativa e di tutte le tecnologie oggi più promettenti.
Già all’alba del nuovo millennio, rispondeva claris verbis a costoro la voce saggia e sapiente di uno dei maître à penser più accattivanti nella cultura europea del secondo Novecento, il compianto Marc Fumaroli: «Questa, purtroppo, è una convinzione molto diffusa contro cui è necessario battersi. In realtà, i bambini oggi vivono immersi nel mondo dei computer, dei media, dei videogiochi e delle nuove tecnologie in genere, vi crescono dentro spontaneamente. Sarebbe un’inutile ridondanza collocare questo mondo al centro dell’insegnamento, giacché esso fa già parte dell’ambiente in cui viviamo e sa diffondere molto bene la propria pedagogia. Al contrario, la scuola dovrebbe far da contrappeso alla pressione di tale universo, insegnando tutto ciò che esso di solito non propone, e cioè tutto ciò che ci aiuta ad essere individui liberi e ironici, e quindi innanzitutto la capacità di parlare in ogni circostanza con padronanza “artistica”. Siffatta capacità è quella che ci rende liberi. Insomma, se noi europei vogliamo perseguire l’idea della libertà e dell’individuo compiuto, occorre che la scuola sia un’alternativa agli stereotipi dell’universo mercantile e tecnologico»13.
Muovendosi in questa feconda direzione, Guido Armellini ha dichiarato che la crisi ineludibile dell’insegnamento letterario, qualora venga considerata dal punto di vista dei fruitori, discende essenzialmente dal fatto che il sistema della comunicazione di massa si è via via accaparrato, negli ultimi decenni, sia quelle funzioni educative (trasmissione di modelli di comportamento, di valori etici, sociali, etc.), sia quelle funzioni ludico-estetiche (invenzione di mondi possibili, espressione di emozioni collettive, fascinazione del racconto etc.) che prima erano appannaggio pressoché esclusivo della letteratura, raggiungendo il suo pubblico immenso nella sfera del privato e del tempo libero, ovverosia in momenti di massima e, ahinoi, vulnerabilissima disponibilità, nonché aggregandolo con linguaggi di forte, immediata suggestione14.
Oggi la scuola, di conseguenza, non è più il principale soggetto formativo dei giovani: a dirla giusta, se negli anni passati il processo educativo avveniva quasi esclusivamente attraverso i classici e, più in generale, la lettura di testi significativi («Ci sono cose, ammoniva Italo Calvino, che solo la letteratura può dire coi suoi mezzi specifici»15), nel presente spicca, viceversa, una pluralità e una concorrenza – non di rado scatenata quanto sleale – fra diversi strumenti di formazione, spesso pericolosamente eterogenei.
E pure la fisionomia originaria della lingua italiana, continua Armellini, negli ultimi decenni si è radicalmente modificata, dovendosi confrontare con un “italiano popolare”, vale a dire anzitutto con un idioma televisivo inzeppato di colloquialismi, regionalismi, barbarismi, tecnicismi et similia. In tal senso, ho rimarcato altrove che, per quel che riguarda «l’azione della televisione sulle capacità espressive dei giovani, essa ha forse contribuito ad ampliare il lessico dei bambini in tenera età, ma non sembra affatto avere inciso positivamente sulla padronanza linguistica degli adolescenti, che utilizzano un numero sempre più esiguo, trito e inelegante di vocaboli e costrutti, senza avvertire – il che è ancor peggio – la benché minima necessità di ampliarlo, variarlo, ingentilirlo. Anche a livello di comunicazione di contenuti, la positività dell’influenza televisiva sui soggetti educativi con cui ci confrontiamo quotidianamente ci sembra assai discutibile»16.
La dimensione letteraria della lingua, esautorata com’è dall’azione strapotente dei mezzi di comunicazione di massa e dall’emergere di esigenze comunicative sempre rinnovate, ha circoscritto drasticamente, dunque, il proprio campo d’azione, configurandosi come uno fra i tanti, indefiniti usi possibili della lingua e perdendo, quindi, il proprio tradizionale carattere paranormativo. Del tutto consonante con questa appare la posizione di Luperini: «In Italia, l’insegnamento della letteratura ha costituito la base dell’educazione per secoli. Non c’è da stupirsi dunque se crisi dell’insegnamento della letteratura e crisi della scuola di fatto s’identifichino»17. Il grave e greve malessere che attraversa la scuola e, in particolare, la didattica della letteratura italiana è spia, secondo questo studioso de race, di una crisi ben più generale. Gli studia humanitatis e la cultura nel suo complesso attraversano, nella temperie presente, un momento particolarmente amaro e tempestoso, soprattutto a causa dello sviluppo delle tecniche (e delle tecnocrazie) massmediologiche e dei processi d’informatizzazione che, con ritmi pressoché surreali, stanno provocando d’improvviso un drastico cambiamento nell’àmbito della percezione, e rendendo, di pari passo, la “vecchia” letteratura sempre più lontana dai desiderata dei giovani.
A che serve, quindi, studiare letteratura oggi? E, soprattutto, a chi serve? Molti, troppi studenti sono persuasi che tale impegno sia per loro del tutto inutile, che i testi letterari che gli insegnanti si ostinano a far studiare loro siano irrimediabilmente obsoleti. Per di più, ardua intrapresa è convincere i giovani del nostro tempo entropico, frenetico e violento che la tradizione culturale d’Europa è ancora assolutamente, sorprendentemente, talora tragicamente attuale. Siffatta operazione didattica comporta, inter alia, la capacità di problematizzare passato e presente e, più che tutto, quella di porli in rapporto fra loro stimolando le risorse cognitive, emotive, immaginative e simboliche degli alunni. Invero, ci troviamo dinanzi a un mutamento epocale, che non dovrebbe comunque esser negletto né (tanto meno) stigmatizzato, bensì compreso frigido pacatoque animo, specie al fine di contribuire ad un mutamento deciso quanto costruttivo dello status quo ante.
Scrive ancora, con l’acutezza adamantina e il senso di concretezza familiari a chi ne frequenta il lavoro prettamente critico, Romano Luperini: «Sarebbe un errore tanto fare della scuola una sorta di “riserva indiana” volta a difendere i valori del passato e tagliata fuori dallo sviluppo della cultura contemporanea, quanto adeguarla passivamente a esigenze esclusivamente tecniche o, peggio, mercantili, che ridurrebbero drasticamente la possibilità di un insegnamento critico, formativo, problematico. Occorre, invece, cercare una terza via. Questa è la sfida che i tempi pongono e che bisogna accettare»18.
Ci si chiede, allora, quale possa mai essere questa “terza via” e come percorrerla, per quanto si potrebbe forse riformulare la domanda interrogandosi sulla possibilità dell’esistenza di un’idea di letteratura che risponda ancora alle esigenze di ordine culturale emergenti dalle masse giovanili, nonché sulla necessità, nella cultura italiana ed europea dell’ultimo quarto del Novecento, di una prospettiva cui ancorare un rinnovato studio della letteratura e una conseguente riforma della scuola, che di esso possa non solo giovarsi epidermicamente, bensì alimentarsi nell’intimo. Non è impossibile a mio sentire, infatti, conciliare armonicamente graduale acquisizione di un metodo scientifico e piena libertà d’interpretazione, potenziamento delle competenze e attitudine alla problematizzazione, visione nazionale e apertura cosmopolitica, tradizione e innovazione, interesse lucidamente appassionato per la storia della cultura e urgenza di attualizzazione, educazione alla lettura ed educazione alla cittadinanza europea.
A tale scopo – ha affermato a giusto titolo Sandro Onofri (1955-1999) poco prima della prematura scomparsa – l’officium precipuo dell’insegnante di letteratura consiste «non già nel far accettare, ma proprio nel non fare rifiutare la lingua dei testi che sottopone ai suoi studenti e che, per il semplice fatto di essere più ricca, teoricamente più varia, sintatticamente più articolata dell’eloquio quotidiano, è automaticamente avvertita come lontana e dunque antidemocratica. Ma la scuola deve impoverire i testi, o deve innalzare il bagaglio linguistico degli studenti? È una domanda retorica, è ovvio, ma anche un interrogativo presente in ogni giorno, anzi in ogni ora dell’attività didattica, semplicemente perché sempre più precario si fa il rapporto fra i testi che vi si dovrebbero trattare, e la disponibilità a conoscerli e a penetrarli degli studenti»19.
Non penso proprio d’ingannarmi dichiarando che la letteratura e la filosofia (ma, in primo luogo, la storia delle idee filosofiche e scientifiche) posseggono e manifestano, ancora nel tormentato, perplesso 2022, «uno straordinario, incomparabile valore educativo: se presentate in maniera non banale, né manualistica, né formalistica, possono offrire innumerevoli possibilità di riflessione, arricchimento, raffinamento, elevazione e, in una parola, di crescita etico-spirituale ed estetica ai soggetti educativi coi quali interagiamo»20. Come rinnegare, a esempio, questa notevole conclusione splendidamente sintetizzata da un “grande vecchio” della filologia europea, Michael von Albrecht: «La poesia è l’espressione, esatta come un sismografo, delle ansie e delle speranze della sua epoca»21?
Nella prassi didattica, poi, l’approccio alla letteratura non dovrebbe limitarsi – non sono beninteso il solo a crederlo fermamente, ma fra il dire e il fare… – allo studio di quella del nostro Paese, ma si dovrebbe viceversa estendere quanto meno a quella europea. Inoltre, pur non trascurando le tante storie e morfologie squisitamente letterarie, l’insegnamento dovrebbe focalizzarsi attorno a tematiche e motivi rilevanti e coinvolgenti dal punto di vista etico e civile (amore, amicizia, bellezza, libertà, giustizia, pace, felicità, dolore, miseria materiale, morale e psichica, morte, diritti umani, discriminazioni d’ogni sorta, violenze et similia): in tal maniera, ai discenti sarebbe dato scoprire, negli autori antichi e moderni, dei veri e propri amici (bonus liber amicus optimus…), capaci «da un lato, di mettere in discussione pregiudizi, pigrizie e pseudocertezze e, dall’altro, di formare sapientemente ragione, coscienza, sensibilità, capacità di amare»22. Sebbene la letteratura possa apparire – da un punto di vista meramente pragmatico – affatto inutile23, essa è ancora in grado di aprire e illuminare prospettive incomparabili quanto inedite di pensiero, di gusto e di crescita tout court, pure aiutando non di rado a superare felicemente diverse spinose problematiche morali e psicologiche, aiutando, cioè, specie in virtù delle sue ineffabili valenze terapeutiche, a vivere nel migliore dei modi possibili.
Come si sa, da anni si discute e si opera a livello internazionale – more solito ora più ora meno felicemente – per valorizzare l’efficacia terapeautica dei saperi prettamente filologici; limitandomi qui al contesto europeo, dalle “pratiche filosofiche” alle Medical Humanities, dalle biblioterapie all’arteterapia, molto ci si è comunque impegnati allo scopo di migliorare sensibilmente la qualità effettiva dell’esistenza delle persone – anzitutto, beninteso, di quelle più fragili, vulnerabili e provate per ragioni di varia natura.
Non certo soltanto a mio modesto avviso, gli straordinari approdi raggiunti da Pierre Hadot24 (1922-2010) in taluni libri e saggi ben tradotti e distribuiti – non per caso – dal Canada al Giappone, restano tuttora fra gli esiti più sodi, convincenti e affidabili per migliorare o, se necessario, guarire attraverso l’esercizio lento, diuturno ed attento della lettura: alludo, va da sé, a quelli che lui ha definito in più circostanze, alludendo soprattutto agli Stoici greci e latini, “esercizi spirituali”.
Le opere dei filosofi antichi – spiega in termini a un tempo essenziali e memorabili un Hadot oramai più che maturo nella breve quanto densa ed intensa prefazione a uno dei suoi capolavori, Esercizi spirituali e filosofia antica – di fatto sono assai spesso esercizi spirituali, che l’autore pratica […] e fa praticare al suo lettore. Sono destinate a formare le anime. Hanno un valore psicagogico. Allora ogni asserzione deve essere intesa nella prospettiva dell’effetto che si propone di produrre, non già come una proposizione che esprima adeguatamente il pensiero e i sentimenti di un individuo25.
Ma su quali temi e problemi ha compiuto (e compie) indefessamente i propri “esercizi spirituali” la migliore speculazione etico-civile e metafisica d’Occidente di ogni tempo e di ogni luogo? Per motivi facilmente intuibili, dinanzi a siffatti fondamenti del pensare, tanto abissali quanto imprescindibili, non mi sento di rispondere; desidero invece ascoltare, per l’ennesima volta, una figura del calibro di Giovanni Reale (1931-2014).
Nelle ultime pagine di uno dei suoi volumi più coesi, sentiti e coinvolgenti, steso sulla scia viva e vivificante di Hadot, egli ha dipinto con misuratissima trasparenza, ancorché in nuce, l’essenza di tali “massimi sistemi”. Dopo aver precisato che, secondo lui, la preghiera finale del Fedro compendia meravigliosamente «il messaggio di fondo del manifesto programmatico di Platone», afferma a chiare lettere:
La preghiera del filosofo è davvero la preghiera che colui che crede nei valori spirituali può recitare, in quanto chiede di poter avere la bellezza spirituale, di saper subordinare l’esteriore all’interiore, di saper riconoscere nella sapienza la vera ricchezza, di poter guadagnare il massimo di questa ricchezza (l’oro della sapienza), quel tanto che l’uomo può avere nella giusta misura. […] Tale è proprio la caratteristica di fondo della saggezza dei Greci: mentre l’uomo di oggi pensa e lavora per l’hic e per il nunc, l’uomo antico – artista o filosofo – cercava di pensare e di lavorare “per il sempre”, e per questo i suoi messaggi valgono anche per l’uomo d’oggi: perché valgono appunto “per il sempre”26.
L’uomo lato sensu creativo è dunque inteso non solo come filosofo, ma altresì come artista – ammesso e non concesso, va da sé, che i due Berufe si possano credibilmente separare. Circa questa intricata faccenda, che peraltro in questa sede è oggettivamente prioritaria, ci regala nuovamente un’ottima testimonianza Pierre Hadot che, nel suo ultimo, inobliabile libro dialogico (La philosophie comme manière de vivre), sostiene apertis verbis che un romanzo, una poesia, un quadro, una composizione musicale etc. possono costituire un “modo di vivere” e, parallelamente, possono causare una metamorfosi positiva nel nostro modo di vivere, specie in quanto preziose e, talvolta, cesellate occasioni di “esercizio spirituale”:
Direi che l’arte può essere un potente ausilio della filosofia […] Si può dire in generale che l’arte, poesia o letteratura, pittura o anche musica, può essere esercizio spirituale. Il migliore esempio è l’opera di Proust, perché la sua ricerca del tempo perduto è un itinerario della coscienza che, grazie a esercizi di memoria, ritrova il sentimento della sua permanenza spirituale. Il che è molto bergsoniano27.
Un’altra questione decisiva, specie di questi tempi, concerne la necessità di una visione davvero interdisciplinare del sapere umanistico: si tratta di un’esigenza fondamentale quanto urgente, che si sostanzia nella presentazione agli alunni di taluni elementi – sempre ben ponderati a priori – propri delle altre arti (dalla pittura all’architettura, dalla musica alla danza…), delle scienze naturali, delle scienze umane, delle scienze economiche e giuridiche, delle grandi tradizioni speculative e spirituali, nonché nell’invito (rivolto, certo, anche ai docenti con cui si collabora, ma innanzitutto a se stessi) ad operare confronti e collegamenti fra le varie discipline, fra àmbiti conoscitivi che tanto spesso risultano lontani, o addirittura privi di nessi, soltanto alla nostra imperdonabile ignoranza!
La “missione laica” dell’insegnante-educatore – e non solo del docente di area umanistica – dovrebbe essere, anzitutto, quella di arricchire, potenziare ed elevare il progetto esistenziale dei soggetti che accompagna ed orienta, comunicando valori di segno indubitabilmente positivo, vale a dire indirizzandoli allo studio e alla riflessione, al sacrificio e alla non violenza, alla compassione e alla comprensione (termine che impiego più serenamente di tolleranza, giacché molti, a torto o a ragione, stimano quest’ultima asimmetrica e comunque invecchiata), all’amicizia e all’amore, alla lucidità e all’attenzione autentiche, alla complessità e ad un conflitto gestito in modo critico e propositivo.
Ma su quali ideali risulta non solo opportuno, ma necessario, specie in questi tempi di miseria complessiva, fondare ogni lucido amore per le “belle lettere”, affinché sia espresso secundum legem e senza tema di critiche giuridicamente rilevanti nelle classi e nelle aule italiane? Ovviamente, stando a quanto caldeggia e prescrive a giusto titolo (specie negli ultimi cinque anni) il Ministero dell’Istruzione, occorre fondarlo e radicarlo sui valori decisivi della Costituzione della Repubblica, vale a dire – in sintesi estrema – sulla dignità della persona, sulla libertà (o, in forma meno ambigua e approssimativa, sulla libertà negativa e su quella positiva28), sull’uguaglianza (formale e sostanziale29, mirabilmente compendiata in quello che rappresenta il cuore più nobile – secondo molte voci autorevoli – della Carta, ovverosia nell’art. 3) e sulla solidarietà nazionale e internazionale. E qual è, allora, il destino costituzionalmente tutelato della bellezza che ci donano, da millenni, le opere d’arte, nonché le insigni tradizioni etiche ed estetiche ad esse correlate? Basterebbe, a mio gusto, rileggere adagio l’eloquente, elegantissimo art. 9, ma preferisco cedere la parola, su tale questione determinante, a due protagonisti della cultura italiana dei nostri giorni che, non casualmente, prendono entrambi le mosse da un passo (Parte terza, cap. V) – tanto noto quanto impervio da interpretare – de L’idiota (1869) di Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo».
In un agilissimo pamphlet, cercando di tirare le fila sulla sentenza insieme capitale ed enigmatica in discorso, Gianfranco Ravasi, che certo non necessita di presentazioni e che qui, comunque, ci interessa nella sua dimensione di filologo e comparatista di fama internazionale, conclude sottilmente: «Egli [Henry Miller], in un saggio, affermava che, come la religione, “l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita“. Infatti, l’arte appare inutile, da un punto di vista pratico, come lo è la poesia. Eppure non si può farne a meno, come dell’amore. L’amore ci fa apparire stupidi agli occhi degli altri, dissipatori di sentimenti e di denaro. Ma si può vivere senza amore? Può anche capitare, ma in tal caso è una vita infelice. Lo stesso accade senza la bellezza»30.
Non meno valida è la riflessione in tal senso di Salvatore Settis, che sceglie di muoversi proprio nell’alveo costituzionale testé citato. Dopo avere a giusto titolo ricordato che «abbiamo nella Costituzione gli alti princìpi da seguire e una potente arma da usare contro le troppe leggi e pratiche politiche che stanno, viceversa, devastando ambienti e paesaggi», argomenta un messaggio davvero degno di un “esercizio spirituale” (in senso, va da sé, hadotiano), che peraltro si avvale aristocraticamente anche di quel “principio responsabilità” (Das Prinzip Verantwortung) che riassume probabilmente, sin dal lontano 1979, il lascito più prezioso e duraturo della fonda e, per più versi, ineguagliata lectio etico-civile di Hans Jonas. Sia come sia, per i cittadini italiani di un Terzo millennio oramai discretamente delineato perlomeno nei suoi tratti distintivi, tali considerazioni appaiono fruttuose, proattive, cautamente progressive:
La Costituzione all’art. 9 dice: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione». La Costituzione non parlava di «ambiente», ma la Corte costituzionale, ragionando sulla convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute (art. 32), ha stabilito che anche la tutela dell’ambiente è un «valore primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini, che esige un identico livello di tutela in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione. Ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile, la cui estensione corrisponde al territorio nazionale; fanno tutt’uno con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca. Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia: perciò la loro funzione è costituzionalmente garantita31.
Così, non soltanto gli “umanisti”, ma la globalità dei docenti dovrebbe contribuire al conferimento di senso alla vita degli individui di cui – in armonia con l’Heidegger forse immarcescibile di Sein und Zeit (1927) – hanno positivamente cura (Sorge), mirando a espandere con tutti i mezzi possibili e immaginabili (ma quanta immaginazione abita ancora nella nostra “vita liquida”32?) il loro progetto esistenziale.
Per quanto riguarda gli insegnanti, poi, essendo consapevoli che il loro compito non si limita a una fredda informazione, all’asettica dazione di nozioni e competenze, ma si estende viceversa alla formazione “a tutto tondo” dei soggetti educativi con cui vengono a cooperare, essi dovrebbero aumentare, raffinare, migliorare continuamente tanto i propri strumenti culturali (pedagogici, storiografici, filosofici, psicologici, sociologici, antropologici etc., oltre beninteso a quelli specifici delle loro discipline) quanto la propria humanitas, in un aspirare senza fine, in una quête du perfectionnement che tenda asintoticamente alla perfezione, intendendo questa parola – che potrebbe apparire ambiziosa se non arrogante – quanto meno in senso etimologico.
Quando la letteratura entra in un’aula scolastica, s’incontra con i presupposti impliciti, l’immaginario, le domande di senso di un gruppo di persone che la guarda con occhi “alieni”. Se l’insegnante di letteratura vuole intessere un dialogo autentico con le ragazze e i ragazzi che ha di fronte, non neutralizzerà questa alterità, ma cercherà di valorizzarla, e la disciplina non potrà non uscirne ridefinita e modificata utilmente.
Da questo punto di vista, insegnare non significa trasmettere un sapere dato, bensì favorire la costruzione di un sapere nuovo, e imparare non significa scoprire concetti e teorie già formulati da altri, ma inventare una realtà elaborata in un clima di franca, generosa collaborazione dai soggetti conoscenti. Cominciare a concepire l’esperienza dell’insegnamento e dell’apprendimento secondo la logica della relazione significa in primis aver chiaro che l’insegnamento, allorquando è intenzionale, non modifica soltanto l’esperienza del soggetto educativo – anticipandola, controllandola, rendendola consapevole, etc. –, ma pure l’esperienza dell’insegnante (homines dum docent discunt…), inquantoché la relazione educativa in senso stretto comporta reciproci e complessi processi di identificazione fra adulti e ragazzi, i quali costituiscono, a loro volta, la più potente (anche se inconsapevole) motivazione all’insegnamento e all’apprendimento intenzionali. Un docente, pertanto, dovrebbe farsi sempre promotore dell’intelligenza umana – promotore, si noti, piuttosto che “confezionatore” di soluzioni scientifiche, etiche, politiche o di altra natura –, e il suo lavoro dovrebbe assumere una valenza realmente capace di liberare energie produttive e creatività vera nei propri allievi33.
Tali posizioni si coniugano perfettamente con l’idea di letteratura che ora parrebbe prevalere. In piena sintonia con queste prospettive, osservava con rara lungimiranza Giulio Ferroni al crepuscolo del secolo passato: «L’attenzione alla letteratura dovrebbe prender le mosse dalla densità dell’esperienza vitale che essa raccoglie in sé, dal suo essere “in situazione”, e dal fatto che esperienza e situazione si danno attraverso molteplici interferenze: interferenze tra codici diversi, tra diverse conoscenze, tra diverse sfere dell’esperienza stessa, tra diversi modi di stare nel mondo, tra diversi punti di vista»34. Ed anche Luperini reputa che la letteratura sia di per sé una disciplina aperta, la quale, pur fondandosi su una testualità data, che, dunque, presuppone una serie di competenze specifiche, si presenta poi, nell’instantia crucis dell’interpretazione, come momento d’incontro e d’interferenza virtuosi di una pluralità (sovente varia e vasta) di elementi diversi, che vanno dal microcosmo dell’esperienza esistenziale all’immaginario, dalla storia politico-economica a quella delle mentalità, delle idee e della cultura, dal passato al presente, da una prospettiva nazionale ad una affatto cosmopolitica35.
La letteratura, così, può abitare degnamente dappertutto, in quanto possiede una natura ad un tempo metadisciplinare e interdisciplinare, si svolge sempre nella contaminazione e nell’intreccio fra saperi e possibilità di ogni sorta, può acquisire dentro di sé tutti i contenuti e i linguaggi possibili. È un momento d’ingresso in altri mondi, non di chiusura, e può essere studiata come punto di snodo e di articolazione d’interessi e campi diversi, che vanno dall’universo simbolico a quello pratico, dal privato al pubblico.
Attraverso i testi letterari, i giovani possono confrontarsi con le grandi esperienze – esistenziali, morali e civili – racchiuse nel patrimonio umanistico, interpretarle e discuterle, ossia comprendere le diverse interpretazioni degli altri e difendere consapevolmente le proprie. Solo quando la classe s’interroga sui significati del testo e si pone essa stessa come centrale nei confronti del testo, solo quando impara a dare un senso al testo, cioè a confrontarsi e a dividersi sui significati ch’esso viene ad assumere, diventa una vera comunità ermeneutica.
Assevera ancora Luperini: «Leggendo il testo, ogni alunno impara che le interpretazioni possono essere infinite. Solo il testo letterario offre l’esperienza dello spessore e della pluralità dei significati, e insegna così che la verità è relativa, storica, processuale: un percorso interdialogico che avviene attraverso il contributo di tutti»36. Avvezzandosi all’interpretazione e all’attribuzione di significato a un testo – e soprattutto a un testo naturaliter polisemico come quello letterario –, lo studente si abitua a partecipare al conflitto virtuoso delle interpretazioni, e a vivere responsabilmente in una civiltà fondata sul dialogo, ove ciascuno è chiamato a fornire il proprio contributo interpretativo e, nello stesso tempo, a rispettare il punto di vista altrui. Secondo quest’ottica, la comunità ermeneutica della classe prefigura quella della comunità nazionale e internazionale: l’esercizio dell’interpretazione si pone, perciò, come esercizio e scuola di democrazia.
Nella classe intesa come comunità ermeneutica, il docente costituisce il momento precipuo della mediazione, che rappresenta e delimita il campo interpretativo e definisce, raccogliendo e “orchestrando”37 anche i diversi contributi degli studenti, il ventaglio dei significati possibili di un testo, il suo valore, la sua eventuale attualità. Dovrebbe essere dunque non già un tecnico neutrale ed impassibile né, tanto meno, una sorta di tuttologo, generico ed epidermico in ogni sua forma di magistero, bensì un individuo provvisto di solida cultura umanistica che sia davvero esperto di letteratura – o che, quanto meno, si sforzi sistematicamente in tale direzione.
In ultima analisi, dunque, il destino scolastico della letteratura è legato, con ogni probabilità, alla capacità di “invenzione” del singolo docente, al contatto sempre nuovo ch’egli sarà in grado d’istituire con i testi, alla convinzione che l’esperienza letteraria possa avere ancora un senso decisivo ed incisivo, che da essa si possa ricavare una conoscenza essenziale per il nostro modo d’essere nel presente, un prezioso, sensibilissimo, insostituibile strumento con cui guardare ad occhi aperti il mondo che ci è toccato in sorte, nonché un mezzo per sconfinare nei territori dell’inconoscibile: difatti, «non c’è dubbio che nel leggere io sono qui, ma in una forma di oltrepassamento dei confini: sono qui e altrove, perché da qui vedo al di là»38.
Rispetto a quanto affermato, non reputo esistano percorsi didattici precostituiti o curricula che possano insegnare ad insegnare. Sono persuaso, invece, che il docente debba “reinventarsi” questo “mestiere che non c’è più” secondo le proprie esperienze, le proprie passioni: i libri e gli spettacoli teatrali studiati, i musei e i film meditati, la musica ascoltata et alia. Ritengo ch’egli debba portare in classe tutto quello che ha – e, magari, tutto quello che è! – di meglio, aspettandosi di diventare qualcos’altro, specie mescolando se stesso con le esperienze, le passioni e gli interessi migliori (e/o migliorabili) dei suoi studenti.
Oltre a «coltivare costantemente una cultura rigorosa, aggiornata ed aperta all’interdisciplinarità e ad una visione interculturale del sapere, l’educatore deve perciò sapere (o imparare a) sognare, credere, sperare e amare; deve soprattutto autoeducarsi a donare all’altro […] quanto di meglio possiede nella propria interiorità, senza mai scollare questi generosi progetti, queste nobili aspirazioni da un impegno pragmatico, ordinato e preciso nella dimensione del quotidiano, grigia e squallida solo per chi non sappia (o non voglia) interpretarla ed abitarla in maniera razionale e creativa, nonché rinsanguarla con progetti colmi di significato esistenziale, con una volontà insieme lucida ed entusiasta di agire, spendersi, dare»39.
Già un trentennio fa, Armellini caldeggiava – a giusto titolo e con lungimiranza sorprendente – la necessità di aggiornare l’insegnamento letterario40: in effetti, se il modus docendi che imperava ancora in tempi non lontani era di tipo deduttivo, ossia andava dalla sistematica esposizione di princìpi teorici al successivo riscontro sui testi, oggi si dovrebbe invece partire dai testi per sviluppare induttivamente specifiche abilità di lettura, facendo appello sin dall’inizio alle abilità cognitive, affettive e, in una parola, critiche degli allievi41.
La radicale messa in discussione del metodo deduttivo appare una delle priorità assolute, una delle prime operazioni di rinnovamento che s’impongono al sistema scolastico nel Terzo millennio; ad essa andrebbero poi associati senza indugio il superamento dei confini nazionali e la conoscenza delle lingue europee (almeno un paio – auspicheremmo – oltre all’oramai imprescindibile inglese). Appare oltremodo importante aprirsi effettivamente alle letterature straniere: lo si può fare, ad esempio, attraverso un approccio ai generi letterari, che renda visibili non solo e non tanto le dipendenze reciproche, ma il rapporto esistente fra aspetti formali e tema all’interno di ogni genere.
Un’altra metodica che ha da essere valorizzata è, indubbiamente, quella tematica, che favorisce percorsi trasversali attraverso i secoli, avvicinando problematicamente autori distanti fra loro ed istituendo un dialogo continuo fra testi del passato e testi del presente. Conviene sottolineare, poi, come linguisti, filologi di varia impostazione, insegnanti e scrittori sembrino oggi tutti concordi nell’assegnare alla letteratura il ruolo di motore per una didattica interdisciplinare: nell’opera letteraria, difatti, convergono e s’intersecano differenti linguaggi, diverse forme espressive ed artistiche.
L’educazione letteraria trova, nella nostra epoca, un nuovo fondamento proprio nella sua natura – credo – più autentica, ovverosia in quei caratteri di dialogicità e interdisciplinarità che la qualificano, e che possono conferirle un nuovo valore formativo generale. La letteratura universale può pertanto esser concepita come porta d’ingresso in altri mondi42, da quello esistenziale e psicologico a quello dell’immaginario e delle idee, aprendo spazi critici e conoscitivi su generi e materie differenti, dalle arti figurative alla musica, al cinema, al teatro e alla stessa informatica – a patto che sia “ben temperata”…
Inoltre, proprio a cagione della sua natura interdisciplinare, l’educazione letteraria testimonia che, per meglio comprendere qualsivoglia fenomeno, occorre scoprire i suoi rapporti diacronici e sincronici con gli altri; siffatta consapevolezza porta come conseguenza immediata una maggiore flessibilità del pensiero, una curiosità che induce a guardare oltre e più a fondo, mirando alla ricerca del significato effettivo delle parole e delle cose.
Il docente, allora, dovrebbe rifarsi a un’epistème capace di spaziare in diverse e lontane – ma, spesse volte, solo a prima vista! – aree disciplinari: la storia delle letterature e la storia delle idee, la storia politica e la storia sociale, la storia delle arti e la storia delle religioni… Forse soltanto un indirizzo di ricerca così impostato potrebbe aiutarci a «far luce su peculiarità rilevanti e interessanti – ma non di rado inspiegabilmente neglette – degli oggetti prescelti, che d’altronde quasi sempre si prestano in modo particolare a un’indagine di questa natura»43.
Tentando di chiudere decorosamente questo tremulo arabesco in didattica delle humanae litterae, mi sta a cuore trascrivere una pagina eloquente di Lionello Sozzi, uno dei più raffinati, esigenti, originali francesisti (e comparatisti) che ci ha regalato il miglior Novecento europeo, stesa specie per rappresentare il senso autentico di uno dei suoi ultimi libri: «Il lettore potrà dire: troppi rinvii, troppe citazioni, troppi testi letterari. Ma l’intento del libro è proprio questo: la letteratura non è un patrimonio esterno a noi, puramente libresco: essa risolve in armonia e in bellezza le nostre voci più intime; poeti e scrittori sanno tradurre in poesia le immagini del mondo, perché sanno che corrispondono a realtà presenti in tutti, a valori che l’uomo abitualmente dimentica ma che poi, nei momenti privilegiati della lettura, dell’osservazione e dell’ascolto, grazie cioè al tramite della creazione poetica e artistica, gioiosamente riscopre. Le immagini letterarie e le dimensioni spaziali che le caratterizzano si rivelano convincenti e affascinanti proprio perché corrispondono a dati ineludibili, presenti in ogni anima»44.
Note
- Di là da qualsivoglia liturgia accademica, mi sta davvero a cuore ricordare Liano Petroni (1921-2006), Corrado Rosso (1925-2005), Roberto Roversi (1923-2012) e, forse più di ogni altro, Ezio Raimondi (1924-2014) per gli inestimabili, lungimiranti consigli e suggerimenti che, nel corso di densi ed intensi lustri di lavoro filologico condiviso, mi hanno liberalmente elargito su queste tematiche, complesse quanto ineludibili – non certo solo a mio sentire – per chiunque si proponga d’insegnare comme il faut un sapere umanistico tendenzialmente aggiornato alle reali esigenze del cittadino europeo del Terzo millennio. Desidero altresì esprimere la mia più profonda gratitudine a Stefano Scioli, che mi ha sostenuto fraternamente, fra il resto, nel tormentato, inesausto lavorìo didattico e scientifico su cui si fondano tali modeste riflessioni.
- G. Pirodda (a cura di), L’insegnamento della letteratura. Scrittori di didattica per la scuola d’oggi, Torino, Paravia, 1978, p. 3.
- A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Bologna, Pàtron, 2002, p. 14.
- Tale riflessione, rielaborata a più riprese dal critico, fu esposta con straordinaria dovizia di argomenti in occasione del convegno nazionale sulla didattica Universitas magistrorum et scholarium?, svoltosi presso l’Ateneo petroniano nel 1988.
- Scrisse già diversi anni or sono, non senza qualche ben comprensibile risentimento, un iberista e comparatista del calibro di Cesare Acutis: «La letteratura non è soltanto un luogo di comunicazione: è anche una forma di conoscenza. Ci si domanda se valga la pena occuparsene in sede scolastica. Credo che se ha un senso studiare altre forme di conoscenza, per esempio la matematica e la filosofia, abbia un senso anche studiare la letteratura. Un rifiuto della letteratura quale oggetto di studio può essere coerente soltanto all’interno di un rifiuto globale del sistema (la cultura) dove le esperienze si accumulano e si organizzano» (C. Acutis [a cura di], Insegnare la letteratura [1979], Parma, Pratiche, 1991, p. 6).
- Oltre al celebre, fortunatissimo Pragmatica della comunicazione umana (Roma, Astrolabio, 1971) che, dato alle stampe insieme con i colleghi J.H. Beavin e D.D. Jackson nel 1967, appare a tutt’oggi pressoché imprescindibile anche per ogni studioso del “fatto letterario”, mi preme in questa occasione consigliare, dello stesso autore, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica (1980), Milano, Feltrinelli, 2021, spec. pp. 9-33.
- A. M. Franza, Didaxis: comunicazione → persuasione → apprendimento, in P. Bertolini (a cura di), Sulla didattica, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 106.
- L’espressione è ancora di Ezio Raimondi, che l’impiegò più volte, inter alia, nell’occasione testé evocata.
- P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane (2004), Parma, Guanda, 2008, p. 8.
- Cfr. R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi [2000]. Quinta edizione ampliata, Lecce, Manni, 2013, pp. 86-103 e pp. 203-213.
- T. Todorov, La letteratura in pericolo (2007), Milano, Garzanti, 2018, p. 23.
- Onde avvicinare tale tematica in maniera insieme rapida e puntuale, si può utilmente consultare G. Chiurazzi, Il postmoderno, Milano, Bruno Mondadori, 2007, un volume che si segnala altresì perché trascende i limiti della semplice compilazione. Cfr. altresì l’oramai classico R. Cesarani, Raccontare il postmoderno (1990), Torino, Bollati Boringhieri, 2013.
- M. Fumaroli, La scuola: contrappeso della modernità, in I. Dionigi (a cura di), Di fronte ai classici. A colloquio con i greci e i latini, Milano, BUR, 2002, pp. 143-147. Corsivi miei.
- Cfr. G. Armellini, Come e perché insegnare letteratura. Strategie e tattiche per la scuola secondaria, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 55.
- Nel 1985, poco prima di passare ad altra vita, Calvino affidava, come si sa, alle fortunate quanto preziose Lezioni americane «la sua riflessione sulle sorti della letteratura alle soglie ormai prossime del terzo millennio, ed esprimeva la convinzione, senza presunzioni di superiorità, che essa avrebbe continuato a svolgere un ruolo insostituibile pur nella coesistenza imposta e minacciosa con i nuovi linguaggi di un’età tecnologica orgogliosa dei propri poteri sino all’arroganza» (E. Raimondi, Novecento e dopo. Considerazioni su un secolo di letteratura, a cura di V. Bagnoli, Roma, Carocci, 2003, pp. 17-18).
- D. Monda, La violenza televisiva e i bambini. Un esempio d’intersezione fra storia e scienze umane, in G. Greco, D. Monda, Il diritto e il rovescio della storia. Orientamenti di metodologia e didattica delle scienze umane, Napoli, Liguori, 2006, p. 545.
- R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, cit., p. 86.
- Ivi, p. 204.
- S. Onofri, Registro di classe (2000), Roma, Minimum Fax, 2019, p. 57.
- D. Monda, Alcune considerazioni interdisciplinari su Mignon è partita di Francesca Archibugi, in G. Greco, D. Monda, Il diritto e il rovescio della storia. Orientamenti di metodologia e didattica delle scienze umane, Napoli, Liguori, 2006, p. 617.
- M. von Albrecht, Virgilio. Un’introduzione (2007), Milano, Vita e Pensiero, 2012, p. VII.
- Ibidem.
- Il lettore informato non ignora che, nell’ultimo ventennio, si è ragionato a lungo e proficuamente su tali tematiche cardinali. Fra i parecchi saggi su cui gioverebbe pur brevemente discorrere, mi limito qui a menzionare due volumetti deliziosi – peraltro sapidamente convergenti per più aspetti – i quali, in breve tempo, sono diventati veri e propri best seller a livello planetario: M.C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2010), Bologna, il Mulino, 2014, e N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto (2013), Milano, Bompiani, 2020.
- Da Michel Foucault a Giovanni Reale, da Romano Màdera a Luigi Vero Tarca, da Arnold I. Davidson a Jannie Carlier, da Umberto Galimberti a Nuccio Ordine, numerosi pensatori di spicco hanno sottolineato, in vari modi e in più riprese, la rilevanza davvero imparagonabile di una riflessione hadotiana che si spinge ben al di là dei pur aurei limiti della storia della filosofia antica. Cfr., ex multis, R. Màdera, L. Vero Tarca, La filosofia come stile di vita, Milano, Bruno Mondadori, 2003 e A. I. Davidson e F. Worms (a cura di), Pierre Hadot: l’insegnamento degli antichi, l’insegnamento dei moderni, Pisa, ETS, 2012.
- P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica. Nuova edizione ampliata (2002), a cura e con una prefazione di A. I. Davidson, 2005, pp. IX-X.
- G. Reale, Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Milano, Raffaello Cortina, 1995, pp. 246-247.
- P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jennie Carlier e Arnold I. Davidson (2001), Torino, Einaudi, 2021, p. 188.
- Per tale rilevantissima distinzione, faccio riferimento in primo luogo a Two Concepts of Liberty, la famosa lezione inaugurale tenuta il 31 ottobre del 1958 da Isaiah Berlin presso l’Università di Oxford (tr. it. Due concetti di libertà, a cura M. Santambrogio, Milano, Feltrinelli, 2000).
- Si veda, ex plurimis, A. Maritati, Conoscere la Costituzione italiana. Un percorso guidato, Roma-Bari, Laterza, 2019, passim.
- G. Ravasi, La bellezza salverà il mondo, Venezia, Marcianum Press, 2014, p. 52. Corsivi miei.
- S. Settis, Il mondo salverà la bellezza? Responsabilità, anima, cittadinanza, Firenze, Ponte alle Grazie, 2015, pp. 51-52. Corsivi miei.
- Mi riferisco, ça va sans dire, alla lunga, variegata parabola speculativa e creativa di Zygmunt Bauman, che ha arricchito e potenziato inconfondibilmente non solo la cultura occidentale dagli anni Ottanta in poi, ma pure l’immaginario planetario contemporaneo.
- Il ruolo dell’insegnante sarà, dunque, quello di “facilitatore” del sapere. Cfr. sul punto, per tutti, V. Gherardi – M. Manini, Didattica generale, Bologna, CLUEB, 2001, passim, nonché F. Frabboni, Manuale di Didattica generale, Roma-Bari, Laterza, 2007, passim.
- G. Ferroni, La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Torino, Einaudi, 1997, p. 78.
- Cfr. R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, cit., p. 92.
- Ivi, p. 15. Circa le molte voci del testo e la sua natura essenzialmente dialogica, cfr. E. Raimondi, Novecento e dopo, cit., p. 83 e ss.
- Espressione eloquente che ricorre spesse volte nell’opera proteiforme di Jerome Bruner: si veda, in primis, J. Bruner, La cultura dell’educazione (1996), Milano, Feltrinelli, 2000, passim.
- E. Raimondi, Novecento e dopo, cit., p. 133.
- D. Monda, Alcune considerazioni interdisciplinari su Mignon è partita di Francesca Archibugi, in G. Greco, D. Monda, Il diritto e il rovescio della storia. Orientamenti di metodologia e didattica delle scienze umane, cit., pp. 619-20.
- Cfr. G. Armellini, Come e perché insegnare letteratura. Strategie e tattiche per la scuola secondaria, cit., p. 39. Dello stesso, sempre su questi argomenti, conviene segnalare il ben più recente e, non di rado, artigliante La letteratura in classe. L’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Milano, Unicopli, 2008, passim.
- «Da molti anni oramai e da più parti – è stato notato a chiare lettere da un classicista d’intelligenza e sensibilità non comuni – si è sostenuta l’imprescindibile esigenza di fondare lo studio di qualunque letteratura sulla lettura diretta dei testi, e di limitare i discorsi introduttivi e di cornice a quanto è strettamente indispensabile per accedere ad essi» (R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura greca e latina nel Ginnasio e nei Licei, «Aion», 2004, p. 251).
- Ha argomentato Ezio Raimondi in uno dei suoi ultimi interventi più incisivi e innovativi: «Nel momento in cui leggo, è vero, sono come sospeso in un altrove tessuto di ombre e di fantasmi. Leggendo, calati nella logosfera del testo, ci si può persino sentire, a occhi aperti, immersi in un sogno più vero e più vivo della realtà circostante. E tuttavia questo spazio sono io a costruirlo, per animarlo lo reinvento di continuo, partecipando del suo movimento nello specchio attivo dell’immaginazione» (E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna, il Mulino, 2007, p. 12. Corsivo mio).
- D. Monda, Amore e altri despoti. Figure, temi e problemi nella civiltà letteraria europea dal Rinascimento al Romanticismo, Napoli, Liguori, 2004, p. XI.
- L. Sozzi, Gli spazi dell’anima. Immagini d’interiorità nella cultura occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 28.
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