Bibliomanie

Verde felicità
di , numero 55, giugno 2023, Note e Riflessioni, DOI

Verde felicità
Come citare questo articolo:
Maria Rosa Pantè, Verde felicità, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 14, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10451

Premessa

«Quando ci mettiamo a parlare della foresta non possiamo dire: ‘Questa è la mia storia, questo è quello che ho scritto, queste sono le mie idee’, perché ai veri saggi che abitano la foresta, quelli che hanno le proprie radici nella terra, gli esseri selvatici signori degli alberi, a loro non piace quando parliamo a questo modo. Ci stanno ascoltando e non vogliono che pensiamo che i nostri pensieri umani provengano solo da noi stessi. Queste non sono le nostre idee. Sono le loro. Piuttosto dobbiamo lasciare che gli stessi pensieri di una foresta vivente ci attraversino affinché arrivino agli altri. Gli esseri selvatici ce li stanno offrendo per permetterci di vivere insieme.»

Così dice Manari Ushigua, leader politico e spirituale del popolo Sapara.1
Imperversa da un po’ di tempo la pratica di andare nei boschi, abbracciare alberi e fare esperienza di felicità, si chiama Terapia forestale, perché il verde fa bene alla salute in generale, a quella psichica, emotiva in particolare. Imperversa dunque la pratica di cercare nei boschi felicità.

«La letteratura è piena di fiori, alberi, erbe, per non parlare di frutta e ortaggi. E prati verdeggianti e boschi, il locus amoenus non potrebbe mai essere un castello o una signorile dimora, nemmeno un superattico a New York» 2

Infatti Paradiso è parola persiana poi greca e vuol dire giardino ed Eden è parola ebraica e vuol dire delizia, insomma il luogo delizioso e felice per eccellenza è verde.
Nessuno, o quasi nessuno, però si chiede se agli alberi faccia piacere essere abbracciati, se agli alberi e al bosco tutto (esistono anche gli arbusti e il prato e nel prato miriadi di erbe diverse, foglie, fiori, radici) se dunque a tutto questo variegato mondo faccia piacere, dia felicità vedere dei bipedi stressati in cerca di un perduto contatto con la natura.
È anche importante chiedersi di che tipo di boschi si tratti, di che tipo di giardini e di prati: quanto cioè altri esseri umani, con intenzioni meno pacifiche, siano entrati a “perturbare” il verde in questione.
Il tema è dunque questa domanda: gli alberi, la vegetazione possono essere felici? E sono felici quando gli esseri umani li percorrono?
Qualsiasi risposta, sarà umana e dunque molto parziale, mi affiderò alla scienza, a una parte di scienza al confine di diverse sensibilità (sciamaniche per esempio) e alla poesia, un mondo che sconfina sempre in altri mondi, anche non umani.
Però qualsiasi risposta potrebbe essere stata dettata dal verde stesso, dagli alberi. C’è anche questa possibilità.

«Da tempo scrivo sotto dettatura
della Madre Natura, di ogni vita
che incontro nel mondo, grande, dell’orto.
Sotto un cielo di foglie
del rovere, del faggio…
il bosco non mi ispira, ma mi detta
la sua antica saggezza. Sempre io parlo
al bosco e lui, per scrivere, mi aspetta.»
Maria Rosa Panté, “In ascolto”(inedito)


Capitolo I. Dammi il cinque
L’essere umano, aldilà dell’agricoltura intensiva che toglie dignità e reifica le piante come fa con gli animali, nei confronti della vegetazione in generale (benché con l’orto e il giardino ci sia un rapporto diverso), secondo me ha cinque posizioni fondamentali, cinque come le dita della mano, come il numero dei petali di moltissimi fiori, ma non tutti.

1.1 Indifferenza
Uno dei più importanti botanici ed esperti in neurobiologia vegetale è Stefano Mancuso che insegna all’università di Firenze. Mancuso racconta di un esperimento che fa coi suoi studenti: mostra un quadro e chiede cosa vedono, tutti vedono gli umani se ci sono e dopo gli altri animali, nessuno nomina le piante, il verde, la vegetazione anche se è preponderante.
È certo che molto spesso l’essere umano non vede le piante, non vede il verde, non li vede in quanto soggetti, individui viventi così li può tranquillamente considerare oggetti, merce inanimata. Uno sfondo.
Quando vado al supermercato e vedo tutte le piante messe in vendita soffro molto e accarezzo alcune di loro, perché sono esseri vivi, e sono venduti così, come un pacchetto di biscotti.
La poesia sa mettere in luce anche questa indifferenza: leggiamo poesia, siamo bravi a suonare, brave persone indaffarate e non vediamo cosa accade fuori, il mondo enorme degli alberi e del verde (Marc Haddon). Talvolta l’albero è nell’occhio (nel cervello) di chi guarda, non ha propria vita e dignità è un segno sul paesaggio (Luciano Erba). Infine accade che si vedano finalmente gli alberi, ma solo come metafora, come un’evocazione mediata comunque dalla figura umana, chiome umane e poi chiome di betulla (Ron Padgett).

Si ergono nei parchi e nei cimiteri e nei giardini.
Alcuni sono più alti dei grandi magazzini,
eppure non attirano attenzione su se stessi.
Starai installando un termosifone a sbarra un giorno
e vedrai, attraverso un lucernario,
un banco di pesci verde-oliva che cambia direzione
nell’aria che nuota sopra i piccoli giardini.
O ti sveglierai nel cottage di tua zia,
il sonno rotto da un treno a carbone sulla collina deserta
mentre le querce ruggiscono nel vento lontano nel canale.

«La tua gentilezza verso gli animali, la tua capacità al clarinetto,
queste sono cose accidentali.
Abbiamo perso quella partita molto tempo fa.
Guardati. Stai leggendo poesia.
Fuori l’aria primaverile è densa
dei semi dei loro bambini.»
Mark Haddon, “Alberi”3

«L’albero che saliva si piegava
tornava a salire verso il cielo
ma avesse preso questa o quella forma
avesse avuto questo o quel colore
sarebbe stato sempre solo un albero
soltanto un segno su quel dosso di monte
di un paesaggio creato dai miei occhi
per secondare i miei esaltati spirti
la mia fierezza di viandante alpestre
giunto infine poco sotto la vetta.»
Luciano Erba “Un paesaggio docile”

«Quando vedo delle betulle
non penso a niente
ma quando vedo una ragazza
buttare via capelli e testa
penso alle betulle e le vedo
si può fare di peggio che vedere betulle.»
Ron Padgett, ”Betulle”


1.2. Antropocentrismo
Ogni giorno nei discorsi compaiono le piante, però non in quanto individui ben precisi, piuttosto come bisogno (alimentare) e come conforto o riflesso dei sentimenti umani. Nelle piante si proietta se stessi: è un’idea del tutto antropocentrica, dunque pericolosa.
Uso l’albero per parlare di me stesso (Salvatore Quasimodo). Uso l’albero per parlare di un sentimento, una reazione solo umani (Ada Negri). Uso l’albero per parlare di una punizione, esprimere l’orrore di una condizione troppo diversa, inferiore a quella umana (Dante Alighieri). Infine cerco di addomesticare, catalogare, ordinare il mondo vegetale, senza riuscirci, per fortuna (Fernando Pessoa).

«Da te un’ombra si scioglie
che pare morta la mia
se pure al moto oscilla
o rompe fresca acqua azzurrina
in riva all’Anapo, a cui torno stasera
che mi spinse marzo lunare
già d’erbe ricco e d’ali.

Non solo d’ombra vivo,
ché terra e sole e dolce dono d’acqua
t’ha fatto nuova ogni fronda,
mentr’io mi piego e secco
e sul mio viso tocco la tua scorza.»
Salvatore Quasimodo, “Albero”

«Solaria,
il vento del sud scrolla e devasta il tuo pergolato di glicini.
Ne piombano a terra i corimbi, chicchi violetti di grandine,
pesanti d’un peso di morte.
Così a te traboccan dagli occhi,
nell’ora del torbido amore, le lacrime;
ma non si raccoglie il pianto d’amore,
non si raccolgono i fiori caduti del glicine.»
Ada Negri, “Il pergolato di glicini”

«Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”.

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.»
Inf, XIII, 31-45

«Un filare di alberi lontano, là su per il pendio.
Ma cos’è un filare di alberi? Ci son solo alberi.
Filare e il plurale alberi non sono cose, sono nomi.

Tristi anime umane, che pongono tutto in ordine,
che tracciano linee da cosa a cosa,
che pongono targhette coi nomi su alberi assolutamente reali,
e disegnano paralleli di latitudine e longitudine
sulla stessa terra innocente e più verde e fiorita di questo!»
Alberto Caeiro (Fernando Pessoa) “XLV Il pastore di greggi”


1.3 Contatti
Accade anche che qualcuno esca da sé, dalla sua visione solo umana, dal suo limitato confine e cerchi un contatto, che certamente è arduo, con l’alterità vegetale.
All’umano pare che la pianta risponda solo col silenzio e, in un ribaltamento della realtà, che sia la pianta a non avere interesse per l’umano (Wislawa Szymborska), oppure che sia accanto all’umano comunicando più uno stato dell’essere, che le emozioni di un individuo preciso (Giacomo Leopardi). Eppure recentemente la scienza ha dimostrato che le piante emettono suoni, anche di dolore e paura, solo che noi umani non li sentiamo. Probabilmente certi insetti li sentono invece molto bene. E comunque non esiste per comunicare la sola parola, esistono il profumo, il colore, la postura…

«La conoscenza unilaterale tra voi e me
si sviluppa abbastanza bene.

So cosa sono foglia, petalo, spiga, stelo, pigna,
e cosa vi accade in aprile, e in dicembre.

Benché la mia curiosità non sia reciproca,
su alcune di voi mi chino apposta,
e verso altre alzo il capo.

Ho dei nomi da darvi:
acero, bardana, epatica,
erica, ginepro, vischio, nontiscordardimé,
ma voi per me non ne avete nessuno.

Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa,
ci si scambiano osservazioni almeno sul tempo,
o sulle stazioni superate in velocità.
Non mancherebbero argomenti, molto ci unisce.
La stessa stella ci tiene nella sua portata.
Gettiamo ombre basate sulle stesse leggi.
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.

Io spiegherò come posso, ma voi chiedete:
che significa guardare con gli occhi,
perché mi batte il cuore
e perché il mio cuore non ha radici.

Ma come rispondere a domande non fatte,
se per giunta si è qualcuno
che per voi è a tal punto nessuno.

Epifite, boschetti, prati e giuncheti –
tutto ciò che vi dico è un monologo
e non siete voi che lo ascoltate.

Parlare con voi è necessario e impossibile.
Urgente in questa vita frettolosa
e rimandato a mai.«»

Wislawa Szymborska, “Il silenzio delle piante”4

« (…)
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.»
Giacomo Leopardi, “La ginestra”


1.4 Ci sei? Ci sono!
Accade poi in momenti particolari della vita che ci sia un varco (come direbbe Montale) e in quel varco si sente che qualcuno, anche in assenza di altra compagnia umana, c’è, ci osserva, ci ascolta. Il primo passo è certamente sentire una profonda comunione con un altro animale, ma avviene anche fra umani e piante.
La pianta ci comprende, ci consola, ci dona speranza nel momento del lutto (Moyra Caldecott). Alla pianta torniamo e sentiamo una corrente misteriosa di amicizia (Umberto Saba). La pianta vive con noi vicino a casa, diventa nostra parente e lo comprendiamo quando muore (Anna Achmatova).

«Questo albero mi ascoltò
quando morì mio marito.
Poggiai la mia testa,
contro il suo tronco
e piansi.
Non ci furono parole,
ma presi la sua forza
e seppi
ciò che la vita alla fine
trasforma in segreto
fino a quando il visibile
diviene invisibile
e quello che è stato
deve ancora essere.»
Moyra Caldecott, “Il faggio”

«La colomba che preda la festuca
e la porta nel nido invidio, e voi
alberi silenziosi, a cui le foglie,
ben disegnate, indora il sole; belli
come bei giovanetti, o vecchi ai quali
la vecchiezza è un aumento! Chi vi guarda
– verdi sotto una nera ascella frondi
spuntano; alcuni rami sono morti –
le vostre dure sotterranee lotte
non ignora; la vostra pace ammira,
anche più vasta.
E a voi ritorna, amico;
laghi d’ombra nel cuore dell’estate.»
Umberto Saba, “Alberi”

«Io crebbi in un silenzio arabescato,
in un’ariosa stanza del nuovo secolo.
Non mi era cara la voce dell’uomo,
ma comprendevo quella del vento.
Amavo la lappola e l’ortica,
e più di ogni altro un salice d’argento.
Riconoscente, lui visse con me
la vita intera, alitando di sogni
con i rami piangenti la mia insonnia.
Strana cosa, ora gli sopravvivo.
Lì sporge il ceppo, e con voci estranee
parlano di qualcosa gli altri salici
sotto quel cielo, sotto il nostro cielo.
Io taccio… come se fosse morto un fratello.»
Anna Achmatova, “Il salice”


1.5 Con-fusione
Infine l’estremo passo è voler essere e persino sentirsi di fatto una pianta, tornare cioè a essere quel che si è stati, perché le piante hanno creato (insieme coi funghi) la terra in cui noi viviamo. E ogni giorno ci donano l’ossigeno cioè la vita. Desiderare di essere pianta è dunque tornare alle nostre origini, alla madre, in una condizione che appare più felice di quella umana tanto travagliata.
E così ci ricordiamo di quando eravamo alberi e abbiamo nostalgia di quel tempo, di come da alberi vedevamo il mondo (Ana Blandiana). Vorremmo essere orizzontali per essere finalmente accettati dal verde, dai fiori (Sylvia Plath), dunque non essere nemmeno un albero, ma una forma ancora più piccola, umile e apparentemente lontana: essere erba del prato, essere fieno (Emily Dickinson).

«Un tempo gli alberi avevano occhi,
posso giurarlo,
so di certo
che vedevo quando ero albero,
ricordo che mi stupivano
le strane ali degli uccelli
che mi sfrecciavano davanti,
ma se gli uccelli sospettassero
i miei occhi,
questo non lo ricordo più.
Invano ora cerco gli occhi degli alberi.
Forse non li vedo
perché albero non sono più,
o forse sono scivolati lungo le radici
nella terra,
o forse,
chissà,
solo a me m’era parso
e gli alberi sono ciechi da sempre…
Ma allora perché
quando mi avvicino
sento che
mi seguono con gli sguardi,
in un modo che conosco,
perché, quando stormiscono e occhieggiano
con le loro mille palpebre,
ho voglia di gridare –
Cosa avete visto?…»
Ana Blandiana, “Un tempo gli alberi avevano gli occhi”

«Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.»
Sylvia Plath, “Io sono verticale”

«L’Erba ha così poco da fare –
Una Sfera di semplice Verde –
Con solo Farfalle da covare
E Api da intrattenere –

E agitarsi tutto il giorno alle amabili Melodie
Che le Brezze portano con sé –
E tenere la Luce del Sole in grembo
E inchinarsi ad ogni cosa –

E infilare Gocce di Rugiada, tutta le notte, come Perle –
E farsi così fine
Che una Duchessa sarebbe troppo comune
Per degnarla di uno sguardo –

E anche quando muore – trapassare
In Odori così divini –
Come Umili spezie, che giacciono nel sonno –
O Nardi indiani, morenti –

E poi, in Sovrani Fienili dimorare –
E sognare i Giorni lontani,
L’Erba ha così poco da fare
Che vorrei essere Fieno –»
Emily Dickinson, “L’erba ha così poco da fare”


Alberi che ci guardano, fiori che ci accolgono, donne che vogliono essere fieno, ma cosa sappiamo noi della flora? La flora che è di gran lunga la forma di vita più imponente e diffusa sulla Terra.

Capitolo II Notizie minime sul verde
Sappiamo che gli alberi sono intelligenti: apprendono, ricordano, scelgono, sfruttano strategie (soprattutto usando le parti apicali delle radici, dato che non hanno un cervello come gli animali). Sappiamo che hanno emozioni e sentimenti, la paura, per esempio. Sappiamo che dormono. Che si difendono dagli attacchi di insetti e funghi e batteri. Ma che sanno anche allearsi con insetti, funghi e batteri. Sappiamo che si muovono, le radici grazie all’alleanza coi funghi (un universo ulteriore di cui qui non posso parlare) si espandono nel terreno e gli alberi, ogni vegetale fa di tutto per spargere il più possibile il suo seme, usa ogni mezzo fra cui noi umani. Sappiamo che comunicano fra di loro, con la chimica, grazie al vento, agli insetti, agli uccelli, ma anche con i suoni. Sappiamo che si riconoscono fra familiari. Sappiamo persino che spesso una madre albero più anziana manda aiuto alle piante più giovani quando sono in difficoltà.
Sappiamo che si sanno adattare meglio di noi ai cambiamenti, che sono modulari, infatti staccare un ramo a una pianta non è come tagliare un braccio o una zampa a un animale, gli alberi in se stessi sono una rete di connessioni, hanno non solo i cinque sensi ma molto di più (sentono l’umidità, la gravità, i campi elettromagnetici, sono anche veri e propri laboratori chimici).
Infine sappiamo che noi senza di loro non potremmo sopravvivere, loro senza di noi sopravviverebbero forse meglio.
Perché gli animali hanno bisogno delle piante per vivere, le piante hanno bisogno del sole, dunque le piante “hanno funzione universale per la vita sul Pianeta. Gli animali no”.5
Questo rapido elenco è frutto delle ricerche di vari studiosi, per esempio Darwin, che fu anche botanico. Fra i primi a studiare le piante come esseri a sé stanti e intelligenti è stato addirittura Leonardo da Vincì che così scrisse: “Le virtù dell’erbe, pietre et piante non sieno in essere perché li omini non li abbino conosciute (…). Ma diremmo esse erbe restarsi in sé nobili senza lo aiuto delle lingue o lettere umane”.6
Gli fa eco Fernando Pessoa (Alberto Caeiro):

«Chi udì i miei versi mi disse: cosa hanno di nuovo ?
Tutti sanno che un fiore è un fiore e un albero è un albero.
Ma io risposi: non tutti, nessuno.
Perché tutti amano i fiori perché sono belli, e io sono differente.
E tutti amano gli alberi perché sono verdi e donano ombra, ma io no.
Io amo i fiori perché sono fiori, direttamente.
Io amo gli alberi perché sono alberi, senza il mio pensiero.»
Fernando Pessoa, “Chi udì?”


Capitolo III Una boccata di fitoncidi
Tutti gli umani probabilmente provano un senso di benessere, che ne siano consci o meno, quando stanno in un bosco o in mezzo al verde senza alcun motivo preciso e utilitaristico.
Quello che accade fra le piante, la loro comunicazione fitta che usa anche il vento, mandando nell’aria messaggi chimici ed elettrici positivi, è descritto in modo chiaro, con evidenza scientifica e insieme molto emozionante nel libro di Laurent Tillon7, l’ultimo capitolo che descrive la vita di una foresta in un istante è meraviglioso e commovente.

«Senza saperlo la fauna vertebrata che passa o vive sotto e tra gli alberi in pieno periodo di vegetazione è immersa in una foresta inondata da tutte queste molecole volatili. Alcune di esse possono influenzare i loro sensi, tanto sono potenti. È il caso di alcuni terpeni (…). Altre molecole invece offrono qualità straordinarie, tra cui i fitoncidi. Questi sono prodotti dagli alberi perché limitino lo sviluppo di batteri e funghi saprofiti, che danneggiano le foglie e il legno. (…) I fitoncidi sono prodotti in particolare a metà giornata e svolgono un ruolo inaspettato, stimolando la produzione di linfociti NK, le cellule killer dei mammiferi che proteggono noi umani da molte malattie.»

Ma non tutti gli umani attribuiscono questo benessere alle piante, in quanto singoli soggetti, individui con cui poter e dover interagire.
Chi, quando è in un bosco, si sente osservato, non si sente solo e riesce a vedere sui tronchi la quantità di messaggi (spesso cuori) che gli alberi lasciano, è sulla buona strada per comunicare direttamente con gli alberi, partecipare della loro sapienza ben più antica della nostra, imparare e forse arrivare a capire e sentire cosa è per loro essere felici.
Sempre Tillon descrivendo la vita del suo amico Quercia scrive:

«È possibile che Quercus sia capace di provare emozioni come la gioia, per il fatto che le cellule alla superficie delle sue foglie possono toccare questa energia vitale? Può provare una forma di esaltazione, di felicità per questa esplosione di vita che lo anima con una nuova forza? Nessuno può dirlo.»

Capitolo IV Nessuno può dire se le piante sono felici?
Forse ha ragione Tillon o forse esiste qualcuno che possa dire se un albero, una foresta, un prato, un fiore, una zucca è felice.
Forse una poetessa, o una botanica, allieva di sciamani e piante oppure una studiosa mistica saprebbero dare una risposta.
Andiamo per gradi.
La poetessa Emily Dickinson non dice se gli alberi sono felici, ma dice che sono, esistono, vivono e lo dice dal punto di vista degli alberi, per quanto possibile a un essere umano.
E poiché gli alberi sono esseri viventi come noi, la poesia è stata interpretata per lo più come metafora della vita di ognuno. Ma è della vita di quattro alberi che parla.

«Quattro Alberi – in un Campo solitario –
Senza Disegno
O Ordine, o Azione Apparente –
Stanno –

Il Sole – in un Mattino li incontra –
Il Vento –
Vicino più prossimo – non hanno –
Che Dio –

Il Campo dà loro – Spazio –
Essi – a Lui – l’Attenzione di un Passante –
Di un’Ombra, o di uno Scoiattolo, o talvolta –
Di un Ragazzo –

Quale Compito sia il Loro nell’Ordine Naturale –
Quale Piano
Essi individualmente – ritardino – o favoriscano –
Ignoto –»
Emily Dickinson, “F778”


La biologa italiana Monica Gagliano, che lavora in una Università in Australia, nel suo libro Così parlò la pianta8 descrive come i suoi esperimenti, le sue scoperte sul mondo vegetale in realtà siano nate dal fatto che alcune piante l’abbiano chiamata e abbiano parlato con lei, attraverso iniziazioni sciamaniche e antiche sapienze di un’umanità che non ha mai rotto il rapporto con la Natura.
Varie piante cercano un colloquio con lei e le insegnano molte cose su di loro e su di noi, ma la rivelazione finale è della pianta del tabacco, insospettabile pianta sacra e curativa, che le svela non tanto se le piante sono felici, ma piuttosto come noi umani, così tormentati e tormentanti, potremmo finalmente tornare all’armonia perduta con la natura e il bosco e ogni altra forma di vita:

«“Il perdono”, sussurrò Tabacco “basta il perdono a illuminare la via d’uscita dal labirinto che l’umanità ha creato con le sue convinzioni”.»

Ma che ci sia felicità o almeno che si debba cercare insieme la felicità è però evidente fin dalla prima pagina, che dice:

«Il Vuoto canta tutto in Essere.
Tu sei il vuoto cantante.
Allora Canta!»


Ildegarda di Bingen, scienziata, mistica, visionaria, medico, badessa, botanica, musicista, poetessa, descrive, anzi canta e fa cantare, questo stato universale di verde felicità e vita nell’inno Viriditas, che io traduco verdità, in modo arbitrario perché non esiste una tal parola nella lingua italiana ed è un vero peccato.

«O nobilissima verdità (viriditas)
O nobilissima verdità,
che radichi nel sole
e che in candida
serenità
riluci in una ruota
che nessuna terrena eccellenza
comprende:

Tu sei circondata
dagli abbracci
dei divini ministeri.

Tu ti fai rossa come l’aurora e ardi
come fiamma del sole.»
Ildegarda di Bingen, “Viriditas”9


E dunque la mia risposta, anche alla luce del mio quotidiano contatto con gli alberi e il verde con cui coabito, è sì: le piante sanno essere felici. Una pianta persino quando muore e marcisce rilascia vita e felicità.
Come scrive la poetessa Grace Paley:

«È stato allora che ho visto un vecchio acero
un paio delle sue spesse braccia spezzate
un braccio reclinato mezzo marcio
nel terreno nero della deliziosa
ospitalità del marciume verso
le più piccole creature
l’albero non stava davvero morendo viveva
meno ampiamente a testa alta e verde
sopra il folto fogliame degli altri
alberi un tremendo slancio verso il sole
solo per sopravvivere ma se ti è
piaciuta la vita lo fai.»
Grace Paley, “Camminando nel bosco”10


E infatti la felicità della pianta è essere vita.

Capitolo V Conclusione politica
Ipotizzare e persino riconoscere la felicità delle piante (e dunque che le piante provino delle emozioni come gli animali e come l’animale uomo) è un atto poetico, ma anche politico e salvifico. Purché non si perda ancora tempo.
E se ne è perso già parecchio, infatti così scriveva nel 1912 Jorn de Précy, giardiniere:11

«Non sarebbe forse più saggio pensare come il monaco zen o induista, o come l’indiano d’America, che l’uomo può dialogare alla pari con un filo d’erba come con una montagna, che fa parte di un tutto che lo oltrepassa ma al quale appartiene? Non è questa la vera umanità che l’uomo occidentale dovrà, prima o poi, ritornare ad apprendere? I saggi cinesi parlano sovente della via del ritorno. Ritornare bambini, ecco la loro più profonda aspirazione: ritrovare l’innocenza con cui un bambino scopre un mondo infinitamente più grande di lui, con il quale sa ancora parlare e giocare, in una parola, creare: e se non fosse che questo il modo di fare politica nei nostri giorni?»

Ritornare bambini, come dice anche il poeta Dylan Thomas:

«Non essendo che uomini, camminavamo fra gli alberi,
spauriti, pronunciando sillabe sommesse
per timore di svegliare le cornacchie,
per timore di entrare
senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
e, dopo l’agile ascesa,
cacciare la testa al di sopra dei rami
per ammirare stupiti le immancabili stelle.

Dalla confusione, come al solito,
e dallo stupore che l’uomo conosce,
dal caos verrebbe la beatitudine.

Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
bambini che osservano con stupore le stelle,
è lo scopo la conclusione.

Non essendo che uomini, camminavamo fra gli alberi.»
Dylan Thomas “Non essendo che uomini”


Il tema del riconoscimento degli alberi e del verde come esseri viventi, l’idea di sanare la frattura che l’uomo ha creato con la natura, l’uomo che ha costruito questo tipo di società capitalista e patriarcale, è un tema politico come dice Kohn:
“Questo libro, dunque, è un intervento politico, poiché intravede l’urgente necessità di mettere in moto un’altra forma di pensiero per il bene degli esseri, umani e non umani, che fanno parte di questa vasta rete vivente; una ragnatela ecologica meravigliosa, ma fragile e, in generale, invisibile.”
Ma ancora questo è un pensiero antropocentrico, non dobbiamo semplicemente rispettare gli alberi, ma chiederci se anche loro sono felici, e felici della nostra presenza. E soprattutto dobbiamo smetterla di dire – quel bosco va ripulito, mantenuto, gestito (che spesso vuol dire: tagliato) – come se avesse davvero bisogno di noi umani, ultimi arrivati, per sopravvivere.
Piuttosto dobbiamo noi imparare dagli alberi a come organizzare la società, imparare il fare politico, la rete di solidarietà, la diplomazia fra alberi e fra specie diverse. Alberi con funghi, con batteri, insetti… una rete descritta dalla biologa canadese Suzanne Simard12, che ha scoperto come gli alberi intessano attraverso radici e funghi profonde relazioni fra di loro e come ci sia un albero che lei definisce madre che sente e aiuta gli alberi più giovani in difficoltà.
Che passeggiata! Siamo partiti e partite da umani che non vedono le piante anche quando ci sono e terminiamo forse desiderando di essere o almeno di vivere come un albero:

«Pensa come un albero
assorbi il sole
dichiara la magia della vita
sii aggraziato nel vento
rimani dritto dopo una tempesta
sentiti rinnovato dopo la pioggia
cresci forte senza farti notare
sii pronto per ogni stagione
dai riparo agli estranei
resisti a un periodo freddo
rinasci al primo segnale di primavera
affonda le radici mentre tenti di raggiungere il cielo
rimani quieto a sufficienza da sentire le tue foglie frusciare.»
Karen Shragg, “Pensa come un albero”

Note

  1. E. Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, 2021.
  2. M.R. Panté, Letteratura e scienza: una storia d’amore, TraSguardo 2023.
  3. Tutte le poesie riportate, ove non espressamente indicato, sono tratte da M. Petazzini, La poesia degli alberi, Luca Sossella Editore, 2020.
  4. W. Szymborska, Attimo, Scheiwiller 2002.
  5. S. Mancuso, A. Viola, Verde brillante, Giunti, 2013.
  6. F. Capra Leonardo e la botanica, Aboca, 2018.
  7. L. Tillon, Essere una quercia, Ed. Contrasto 2021.
  8. M. Gagliano, Così parlò la pianta, Nottetempo, 2022.
  9. I. di Bingen, Canticles of Ecstasy, Deutsche Harmonia Mundi
  10. G. Paley, Volevo scrivere una poesia invece ho fatto una torta, SUR, 2022.
  11. J. de Précy, E il giardino creò l’uomo, Ponte alle Grazie, 2019.
  12. S. Simard, L’ albero madre. Alla scoperta del respiro e dell’intelligenza della foresta, Mondadori 2022.

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