Bibliomanie

La rappresentazione della felicità. Dalla commedia del New Deal ai nuovi media
di , numero 55, giugno 2023, Note e Riflessioni, DOI

La rappresentazione della felicità. Dalla commedia del <em>New Deal</em> ai nuovi media
Come citare questo articolo:
Emanuela Liverani, La rappresentazione della felicità. Dalla commedia del New Deal ai nuovi media, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 9, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10508


Hollywood è un posto che non puoi definire geograficamente.
Non sappiamo veramente dove sia.
John Ford


1. La Grande Depressione e il New Deal
Stati Uniti, 1929. Il crollo della Borsa di Wall Street è un brutto risveglio per milioni di persone, in particolare per chi non ha gli strumenti per comprendere gli andamenti finanziari che la anticipano. È la Grande Depressione, una devastante crisi economico-sociale aggravata nel 1931 dal Dust Bowl, delle incessanti tempeste di polvere che flagellano i territori del Midwest1 provocate da una errata politica agricola e da una lunga siccità: da tempo la terra è costretta a rispondere alle richieste di mercato, ciò comporta una mancata rotazione delle colture e un sistema di aratura che non rispetta l’equilibrio della superficie del terreno.
I “ruggenti” anni Venti, succeduti alla Prima Guerra Mondiale, sono caratterizzati dall’accumulo di grandi fortune per una piccola percentuale di ricchi uomini d’affari rispetto alla maggioranza della popolazione per cui il minimo problema economico comporta povertà e caduta verso la base della piramide sociale, compreso il ceto medio e i piccoli investitori il cui destino cambia nel volgere di giorni se non di ore.
Nell’immaginario collettivo è il Dust Bowl a narrare la situazione con maggiore efficacia. Lunghe file di mezzi di trasporto spesso di fortuna disegnano l’esodo di migliaia di uomini, donne e bambini alla ricerca di cibo, lavoro e di una casa dove potersi fermare. Muoiono in molti, soprattutto anziani, segnati dalla stanchezza ma anche dal dolore di dover lasciare i luoghi della loro nascita, le fattorie costruite con enormi sacrifici dai loro antenati, un sentimento ben espresso da Walt Whitman, il maggior poeta statunitense.

«Ozioso m’attardo e invito l’anima mia, / Ozioso m’attardo a mio agio e mi curvo a osservare un filo d’erba estiva. / La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, prodotto da questa terra, da quest’aria, / qui nato, da genitori nati qui, i loro padri e i padri dei padri nati qui parimenti.»2

Whitman è il cantore degli ideali americani i cui maggiori rappresentanti sono Ralph Waldo Emerson (esponente del Trascendentalismo americano e il cui pensiero è basato sull’individualismo e fiducia in sé stessi) e Henry David Thoreau (per cui l’uomo trova la sua soluzione esistenziale solo nell’intimo rapporto con la natura). Il superamento degli ostacoli che si frappongono tra i membri di una comunità e la fondazione di una società armoniosa, in cui tutti possono raggiungere benessere spirituale e materiale, è reso possibile da azioni individuali il cui limite è determinato da un destino collettivo superiore, per cui ognuno contribuisce al miglioramento dei suoi simili per ottenere la felicità.
In tal senso la felicità rappresenta la ricerca di un equilibrio perfetto, un diritto sancito dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776, dove si legge: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Tredici anni dopo la felicità appare anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (Versailles, 26 agosto 1789): «affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre alla conservazione della Costituzione e alla felicità di tutti».
Il tema della felicità ha origini antiche, ma per una necessaria sintesi si può affermare che dal concetto greco antico di eudaimonia, conoscenza o tendenza al raggiungimento di una dimensione trascendentale, nel Diciottesimo Secolo con l’Illuminismo assume un significato collettivo, un diritto di tutti.
Nei primi anni Trenta del Novecento tali ideali sembrano perduti, fino a quando il 4 marzo 1933 diviene Presidente degli Stati Uniti il Democratico Franklin Delano Roosevelt. L’Amministrazione Roosevelt è consapevole di dover compiere scelte coraggiose, anticipate nel programma elettorale, accolte con fiducia a livello popolare ma, come prevedibile, contrastate da parte del Congresso e soprattutto dalle lobby economico-finanziarie che le considera una minaccia per il capitalismo e una intollerabile forma di socialismo. In realtà a influenzare il nuovo governo sono le teorie keynesiane3 e la convinzione che il sistema capitalistico così come adottato fino allora sia inadeguato ad affrontare le sfide del momento. È questa la base su cui si sviluppa il New Deal che si può dividere in due fasi, la seconda delle quali si origina grosso modo nel 1936.
Nel suo complesso il New Deal comporta delle modifiche sostanziali, seppure momentanee, che vedono, dopo il salvataggio di alcune banche considerate idonee previo controllo del Governo, l’istituzione di: agenzie governative divise per programmi specifici considerati tutti di estrema urgenza e ognuna con una sezione dedicata all’informazione; l’entrata dello Stato nella realizzazione di progetti che affrontino le necessità infrastrutturali (strade, ponti, dighe, ecc.) e al contempo provvedano all’impiego di milioni di disoccupati; degli interventi sulle politiche agricole; la pianificazione della costruzione di case popolari; l’inaugurazione di un sistema di welfare; la scelta del Governo di spendere a deficit4 poiché uno Stato ha l’obiettivo di sanare le disparità sociali per provvedere al benessere della collettività e non il profitto, prerogativa dei privati. In questo vasto quadro di interventi è ritenuto essenziale proteggere e coinvolgere la cultura, sia con lo scopo di mantenere in vita l’identità culturale nazionale offrendo ogni supporto possibile agli artisti privi di sostegno economico, che per impiegarli in incarichi interni alle agenzie, come nel caso dei fotografi chiamati dalla FSA.5
Nel frattempo quei contadini del Midwest segnati dalla fame hanno come principale obiettivo la California, il cui oro non è più quello dei filoni di metà Ottocento ma grandi distese di frutteti e vigneti. I nuovi pionieri privi dell’alone mistico dei loro predecessori, credendo di dover raggiungere l’Eden, sono in realtà rifiutati e persino odiati da molti californiani, perché considerati la causa prima del drammatico ribasso dei salari che i nuovi arrivati accettano per disperazione, in particolare nel lavoro bracciantile a giornata o, nei casi più fortunati, a stagione. Questo e altre motivazioni che si possono ritrovare immutate nel tempo, provocano atti di razzismo, come racconta uno dei romanzi più importanti del Novecento, Furore (1939) del Premio Nobel John Steinbeck, adattato nel 1940 per il cinema nell’omonimo film di John Ford. Il successo è insperato – il film vince due Academy Award – e a determinarlo è la sceneggiatura di Nunnally Johnson, la celebre asciuttezza del racconto filmico di Ford, la convincente interpretazione dei suoi attori, principalmente di Henry Fonda, e Darryl F. Zanuck, produttore a capo della 20th Century Fox, tra le principali Mayor del cinema statunitense, un’industria che non ha uguali al mondo.
Ed è proprio nello Stato della California che questa industria si sviluppa sin dai primi del Novecento in un sobborgo di Los Angeles, il cui significato originale è bosco di agrifogli ma che con la “fabbrica dei sogni” diventa sinonimo di cinema.

2. Hollywood
In principio c’è la costa est degli Stati Uniti dove Thomas Alva Edison, inventore e imprenditore, ha un laboratorio a Menlo Park (NJ) dove lavora con il suo assistente William K. L. Dickson al Kinetoscopio, il primo proiettore di immagini in movimento a visione singola, e che fonda l’Edison Studios, la prima compagnia di produzione cinematografica che si conosca, talmente prolifica da concludere la sua esperienza nel 1918 con un attivo di oltre mille film.
L’esodo in massa del cinema in California ha almeno tre motivi.
Il primo e il secondo è il più conosciuto. La California offre un vasto territorio circondato da una varietà di spazi naturali da sfruttare come locations, lunghe ore di luce naturale nella maggior parte dell’anno necessarie per girare in esterni ma soprattutto in interni, motivo per cui si edificano teatri di posa in vetro mobili o fissi. È così sino a quando, tra la metà degli anni Dieci e i primi Venti, grazie a un rapido sviluppo dell’illuminazione artificiale, inizia la costruzione di stabilimenti in muratura.
Il terzo è meno conosciuto. All’epoca in California non esiste una rete sindacale organizzata e quindi le produzioni possono redigere contratti pluriennali e in esclusiva per obbligare registi, attori, sceneggiatori e tecnici a vivere difficili condizioni lavorative: nessun limite di orario, nessun giorno di riposo e malattia, totale assenza di controllo sulla propria professione che non consente, ad esempio, di scegliere a quali film lavorare.
Su tali presupposti si forma lo Studio System basato sulle Big Five, cioè M.G.M., Paramount Pictures, 20th Century Fox, Warner Bros. e R.K.O., raggiunte poi da produzioni con minore capacità economiche ma importanti come la Columbia Pictures di Harry Cohn, il cui regista di punta è Frank Capra, uno tra i più importanti per il tema della felicità a Hollywood.
Come afferma Giuliana Muscio «carattere portante dello Studio System è l’integrazione verticale, con la possibilità quindi di produrre un film, distribuirlo in America e all’estero, e proiettandolo in catene di sale di proprietà»6; le Major acquisiscono anche stazioni radio, etichette musicali e in alcuni casi aziende dedicate al progresso tecnologico, alcune differenziano le proprie case di produzione in due sedi, una amministrativa/finanziaria a New York e una produttivo/creativa a Hollywood. Il legame con la finanza è forte, così come lo sono l’imprenditorialità e il marketing, «per interpretare i desideri Hollywood si trasforma nella prima grande industria di massa universale.»7
Si comprende così il motivo per cui negli anni Venti il cinema hollywoodiano acquista un grande potere a scapito delle cinematografie europee piegate da un disastroso Primo Dopoguerra, inaugurando una stagione di sviluppo tecnico, industriale e narrativo impossibile da replicare altrove.
Il sistema di verticalizzazione dello Studio System subisce un’indagine da parte della Antitrust Division del Dipartimento di giustizia fin dai primi anni Trenta con inaugurazione delle udienze parlamentari nel 1936: tra i motivi dell’indagine ci sono i block booking (un pacchetto di film, documentari e news imposto agli esercenti dalle produzioni), un sistema di monopolio volto a penalizzare le sale e le produzioni indipendenti; nel 1938 la causa, che coinvolge le cinque Major più tre minori, fa riferimento anche agli accordi interni tra produzioni nello scambio delle star. Infatti gli Studios, che pure sono in competizione tra loro, hanno bisogno di unire le proprie forze per non permettere ad altre produzioni di entrare nel gotha hollywoodiano, ma anche per superare la crisi economica e il conseguente aumento delle rivendicazioni sindacali di categoria. Nel 1940 il processo è sospeso con un primo accordo che proibisce il block booking per un anno, poi il processo riprende nel 1945 e nel 1948 la Corte Suprema decide di vietare l’integrazione verticale comportando di fatto la fine dello Studio System.
Intanto, però, per più di dieci anni gli Studios funzionano a pieno ritmo adattandosi, come sua natura, a qualsiasi cambiamento imposto dalle circostanze, compresa la Depressione. Anche gli esercenti fanno di tutto per resistere: organizzano lotterie agganciate al biglietto d’ingresso in cui si vincono anche generi alimentari, adottano il doppio programma con due film al prezzo di uno, ed è in questo contesto che cambia la struttura e l’organizzazione della sala: si passa dalla forma teatrale con platea e palchi a una grande unica platea, una democratizzazione dello spazio in cui le classi sociali siedono una accanto all’altra.
È questa l’aria che si respira alla metà dei Trenta e Hollywood segue la linea del New Deal «non tanto nei suoi specifici programmi politici quanto nello spirito ottimista e di comunità»8 che è esattamente ciò che un popolo stremato desidera e il popolo è anche pubblico.
In tale contesto di cambiamenti si aggiunge una ulteriore novità che è nell’aria da tempo. Nel 1930 la Motion Picture Producers and Distributions of America (MPPDA), associazione dei produttori nata per curare gli interessi di categoria, adotta il Production Code che entra effettivamente in vigore solo nel 1934.
L’autoregolamentazione comporta un sistema censorio ben più stringente rispetto al passato, infatti da tempo i produttori tentano di anticipare proteste e denunce, come ad esempio quelle della Legion of Decency, per impedire il sequestro dei film e le conseguenti perdite economiche. Ma nei primi anni Trenta ancora si lavora con un ampio margine di libertà e, forse perché consapevoli della fine di un’epoca, il cinema Pre-Code (1930 – 34) realizza film tra i migliori dell’intera era dello Studio System sia per i temi – sesso, razzismo, criminalità, ecc. – che per la forza evocativa dell’uso della fotografia, e anche per la nascita di una nuova figura femminile con forti caratteristiche di emancipazione. Per quattro anni, quelli che li separano dal fatidico 1934, sceneggiatori, registi e produttori lavorano per creare espedienti narrativi che aggirino gli ostacoli imposti dal Code. Nonostante ufficialmente la golden era si arresti nel 1947 con la prima delle udienze della HUAC (House Un-American Activities Committee)9 e nel 1948 con la chiusura del processo anti trust, l’eredità dell’era classica hollywoodiana, così come è definita dagli storici, si mantiene salda influenzando i cineasti a venire, compresi quelli della New Hollywood o Hollywood Reinassance, i cosiddetti movie brats, cioè

«“Ragazzacci” che non erano cresciuti nell’establishment ma si erano formati nelle scuole di cinema (UCLA, USC, NYU, Columbia) e guardando la TV. Citazionisti, appassionati di cinema europeo, arrabbiati, pienamente inseriti nella controcultura americana dell’epoca, ma soprattutto decisi a cambiare le regole di Hollywood acquisendo il controllo creativo dei loro film.»10

Frattanto l’era inaugurata dalla HUAC consegna il cinema americano alla Guerra Fredda, anni di terrore su cui aleggia lo spettro del conflitto nucleare, segnati dalla spasmodica ricerca di un nemico interno e l’angoscia per uno esterno sino a qualche mese prima alleato nella lotta contro il nazifascismo. Hollywood ha difficoltà a produrre film che sollevino lo spettatore dalle miserie quotidiane trasmettendo fiducia nel futuro, l’ottimismo già congelato in una introspezione psicologica ben mostrata nei noir, si riduce a una prima derubricazione a ricerca individuale del Sogno Americano, si attendono gli alieni con un misto di paura e curiosità, la gioventù brucia i suoi anni scontando le ipocrisie di una società senza più ideali. Si consegna in tal modo un fermento di cui il cinema si accorge da subito continuando il sano lavorio del sottotesto in contrasto con i colori sgargianti con cui Hollywood continua a celebrare sé stessa e il nuovo corso degli eventi.

3. Strutture e schemi del cinema classico
La Hollywood dello Studio System ha la capacità di offrire la più salda delle strutture narrative della storia del cinema.
Le sue origini sono da rintracciare nell’epoca del muto dove l’immagine, dovendo fare a meno della parola, copre ogni esigenza narrativa, tranne per la presenza di pochi cartelli su nero che riassumono i passaggi della storia e i dialoghi più importanti, senza dimenticare la presenza costante della musica dal vivo che accompagna le proiezioni. Il muto non è un handicap per il cinema, tutt’altro, la fotografia, i movimenti e le inquadrature della macchina da presa, il montaggio, sono negli anni immediatamente precedenti l’avvento del sonoro al massimo del loro sviluppo. Al di là di una casistica minima rispetto all’andamento generale, il passaggio dal muto al sonoro nel 192711 non comporta una rivoluzione ma un adattamento alla novità su cui, tra l’altro, c’è ancora molto da lavorare, il che non è certamente poco ma non quel disastro che si teme.
Facendo tesoro dell’esperienza maturata in anni di sperimentazioni ed entusiastica accoglienza del pubblico, superati i primi problemi tecnici per la registrazione del sonoro che costringono a delle semplificazioni dei movimenti degli attori e della macchina da presa, il sistema si equilibra e la scrittura ante 1927 amplia i suoi orizzonti. Il silenzio man mano inizia a non far più paura, anzi diviene utile per creare il climax drammatico, è pausa nei dialoghi importanti, lascia spazio a una recitazione più contenuta e credibile.
Non sono solo le nuove tecnologie ad apportare cambiamenti, molto dipende dall’evoluzione dei costumi e dal periodo storico in cui i film sono realizzati, e negli anni Trenta, in concomitanza con il nuovo processo politico e identitario, si impone la regia invisibile, il cui maggiore esponente è il Capra degli anni post Code, in cui sono banditi i virtuosismi dei movimenti della macchina, si lavora di sottrazione, la storia deve dare una illusione di realtà e le sceneggiature si presentano con un arco narrativo che rispetti i tre atti aristotelici di unità di tempo, spazio e azione in ogni singola scena.
Il montaggio, ultimo atto della scrittura di un film dopo la sceneggiatura e il girato sul set, permette di ricostruire la continuità, ovvero la messa in ordine delle inquadrature e delle scene secondo le esigenze di questo tipo di regia – in contrasto con la possibilità di rinunciare alla consequenzialità e sperimentare altre forme di narrazione. Una regia che vuole dare l’illusione di realtà ha particolarmente bisogno della continuità il cui compito è fondamentale per raggiungere l’obiettivo della sospensione dell’incredulità, ossia aggirare la questione della verosimiglianza che impedisce il fluire della narrazione e la cattura dell’attenzione del pubblico. In questo contesto la scelta delle inquadrature ne determina la riuscita, per cui si fa un prevalente uso di: piani sequenza; totali in cui si svolge più di un’azione contemporaneamente suddividendo idealmente l’inquadratura, ripresa con obiettivi a focale corta, in sezioni di interesse; tagli “invisibili” che possano far dimenticare l’esistenza di una mano selettiva.
Ma l’invisibilità della regia non può nulla se la storia non ha una struttura e dei personaggi corrispondenti alle necessità.

«Decifrabilità dell’universo della storia, personaggi motivati nelle loro azioni, rapporto causa-effetto degli eventi e forte coerenza dell’impianto narrativo. “Motivazione, chiarezza e drammatizzazione,” per dirla ancora più sinteticamente con Bazin»12, il protagonista è «un personaggio, come lo definisce Bordwell, goal-oriented. Agisce per ottenere un obiettivo: l’azione, come d’altronde per Aristotele, è il motore principale della narrazione. È l’azione che determina il personaggio, non viceversa.»13

La sceneggiatura si muove su uno schema ben preciso, dunque, e il percorso del protagonista rispetta la regola del superamento di vari gradi di difficoltà per raggiungere l’obiettivo di partenza che eventi e incontri con altri personaggi riorientano producendo l’emergere di motivazioni inconsapevoli, come nel caso di Peter e Ellis in Accadde una notte (1934, Capra), i quali partono con un obiettivo dichiarato – lei sposare l’uomo il cui matrimonio è impedito dal padre, lui ottenere lo scoop giornalistico che ribalti la sua situazione economica e professionale – per poi comprendere di avere un’altra priorità, in questo caso l’amore, emersa in modo inatteso durante il corso della vicenda.
Il sistema che si prefigura alla metà degli anni Trenta è quindi una summa di esperienze pregresse compresa l’adozione di una regolamentazione dei modi narrativi millenari e universali, segno che il cinema hollywoodiano è interessato ad assorbire tutto quello che è utile per raggiungere il proprio obiettivo, persino sfruttare i limiti imposti dal Production Code trasformandoli in opportunità, come afferma John Fawell «la Hollywood classica era esperta nell’arte dell’omissione, un’arte che, allo stesso tempo, intensifica l’attenzione del pubblico e trasmette l’azione con un’ossessiva suggestione»14 e in epoca Code si tratta di potenziarla.
L’ossessiva suggestione di cui scrive Fawell ben rappresenta il livello di lavoro realizzato dagli sceneggiatori all’interno degli schemi narrativi che le produzioni ritengono vincenti per coniugare il successo di pubblico con la continua sperimentazione del grado di armonia ed equilibrio narrativo raggiunto; abituare e formare il pubblico è lo scopo primario considerando la sua eterogeneità culturale e morale, per questo anziché esplicitare parole e azioni che possano turbare lo spettatore, la scelta cade su un linguaggio alternativo, quel “non detto” che obbliga gli sceneggiatori a pensare ai limiti come a una risorsa creativa.
Per tutti l’obiettivo è l’intrattenimento e intrattenere a Hollywood è legge. That’s entertainment titola una celebre canzone del duo Scharwatz/Dietz.
Se il termine secondo una accezione inibitoria tutta europea è messo in contrapposizione con il cinema d’autore, per gli americani intrattenere non ha una connotazione negativa, tutt’altro, intrattenere significa trattenere, catturare la totale attenzione del pubblico coinvolgendolo in un altrove in cui la realtà intesa come verità è di impedimento per la necessaria immersione in territori altrimenti sconosciuti, un viaggio fuori dalla quotidianità e a volte nel e dal tempo.
In questa ottica la partecipazione del pubblico allo svolgersi della storia, pur nella finitezza di quanto si svolge sullo schermo la cui conclusione è decisa nella fase di scrittura, comporta una serie di emozioni e riflessioni dirette su una previsione degli eventi e di quanto siano state appagate o meno, in questo caso il disaccordo circa il destino della vicenda e il disagio conseguente raramente comporta l’esigenza di abbandonare la sala, perché l’importante, a quel punto, è conoscere il destino dei protagonisti.
Il coinvolgimento emotivo, la sospensione della verosimiglianza, l’affrancamento dalle preoccupazioni quotidiane, possono aiutare lo spettatore a riconoscere nel personaggio le proprie ansie, in tal caso si attua un sollievo psicologico determinato dalla consapevolezza di non essere unici, ma l’immedesimazione non ha bisogno di riconoscere nell’altro qualcosa di personale, il personaggio estraneo alle proprie esperienze accoglie desideri spesso inconfessati, un perdersi nell’andamento sognante dell’impossibile tramutato in possibile. Ogni tema di grande emozione, quale l’amore o la paura, offre al pubblico l’opportunità di riflettere su sé stessi e la natura umana, in breve si attua una conoscenza in cui il pubblico non subisce un racconto ma lo vive e completa; il telo bianco (lo schermo) non è più percepito come supporto su cui si dipana la storia filmica e scompare letteralmente dalla memoria di chi ormai è dentro la vicenda: Woody Allen ne La rosa purpurea del Cairo (1985) va oltre: Cecilia suscita l’interesse del protagonista di un film alla cui proiezione la donna assiste decine di volte spingendo il personaggio a decidere di superare il confine ed entrare nel mondo reale.
Per giungere al risultato sperato pur essendo la struttura della storia essenziale lo sono parimenti la fotografia, la recitazione, le location, la scenografia, i costumi e la musica che in alcuni casi si sostituisce ai dialoghi sostenendo il percorso emozionale dei personaggi.
Hollywood investe molto denaro per aumentare di volta in volta le attese del pubblico diffuse da un robusto apparato pubblicitario, come i trailer proiettati tra un film e l’altro durante la programmazione nelle sale, le riviste specializzate sulle cui pagine appaiono i protagonisti dello Star System su cui spesso è costruito l’intero film (i cosiddetti star vehicle), un’attenzione circa le preferenze del potenziale pubblico per tentare di anticiparle riproponendole nei film e l’introduzione delle preview destinate a spettatori selezionati che hanno il privilegio di assistere in esclusiva a una proiezione privata ed esprimere, tramite dei questionari, pareri utili a sistemare o tagliare inquadrature o addirittura intere scene.
Quando negli anni Cinquanta i critici dei Cahiers du Cinéma, celebre rivista guidata dal critico André Bazin, si esprimono in favore della Hollywood classica considerandola una forma d’arte ancora tutta da studiare, i grandi cineasti hollywoodiani dichiarano di non aver mai pensato di essere degli artisti ma di aver perseguito la miglior forma di intrattenimento possibile. Il dispiego di tante risorse permette a Hollywood di ottenere una fascinazione planetaria e il rovescio della medaglia è la capacità di penetrare nell’immaginario collettivo quando, oltre il cinema in sé, su questa linea si impone un’egemonia culturale.
Ma intanto e prima di affrontare questo tema è necessario andare agli anni Trenta del New Deal per capire come l’ideale della felicità divenga centrale nel pieno della Grande Depressione.

4. L’idealismo e il sogno americano
L’amministrazione Roosevelt chiede unità. Nei messaggi radio a cadenza settimanale, nei discorsi ufficiali e nei cinegiornali realizzati dal Governo, il Presidente chiama il popolo statunitense a superare le divisioni rilanciando l’importanza degli ideali fondativi della Nazione. Roosevelt si rivolge direttamente ai nuovi protagonisti, quegli uomini e quelle donne comuni vittime principali della Depressione economico-sociale.
È un appello a cui rispondono le produzioni hollywoodiane facendone il centro dei loro film e tra i registi più entusiasti c’è Capra, un italo-americano per cui gli Stati Uniti rappresentano la realizzazione di un sogno.
Per comprendere le scelte di Capra è utile dare breve spazio a un suo collega il cui tema dei temi è da sempre l’idealismo delle origini.
John Ford inizia la sua carriera da adolescente nell’allora pioneristico cinema muto, svolge varie mansioni fino a dedicarsi alla regia e nel 1924 realizza il film con cui conquista fama e rispetto, Il cavallo d’acciaio, dove è narrata con stile epico la costruzione e il compimento della ferrovia Transcontinentale di metà Ottocento. È la vicenda di un uomo seguito dall’infanzia – lascia il suo villaggio in cerca di fortuna insieme al padre, con il quale instaura uno stretto rapporto con una famiglia benestante e tramite cui conosce un ancor giovane Abraham Lincoln – sino alla vita adulta quando, dopo aver attraversato molte avversità compreso il trauma di assistere ancora bambino all’uccisione del padre, giunge sulla costa Ovest con il completamento della ferrovia che ha contribuito a costruire, una risoluzione che si svolge su un doppio ricongiungimento: l’unione degli Stati, la cui distanza sino ad allora è colmata da carovane costrette a lunghi viaggi in zone impervie, e quello del protagonista con la donna che ama sin dalla loro infanzia.
Il tema è successivamente sviluppato al meglio nel genere in cui Ford si sente più a suo agio, il western, perfetto per narrare l’epopea americana e al contempo tenere desta la testimonianza del sacrificio dei pionieri raccontandone le virtù. Un esempio sono i protagonisti di Ombre Rosse (1939), Dallas e Ringo. Entrambi emarginati dai viaggiatori della diligenza – Dallas perché ex prostituta, Ringo ricercato per aver ucciso una famiglia che a sua volta ha sterminato la sua – si emancipano dalla loro condizione dopo aver dimostrato di agire in momenti difficili con generosità nei confronti dei viaggiatori, rappresentanti di diverse classi sociali. Solo a questo punto la coppia di innamorati può giungere al matrimonio e contribuire, attraverso la famiglia che si accingono a formare, a rafforzare il difficile compito di dar vita a una nuova comunità. L’happy ending che conclude la storia di Dallas e Ringo apre però un altro capitolo, quello più difficile e che il film non racconta: impossibile prevedere se il loro rapporto è abbastanza forte da sconfiggere il passato che, visti i precedenti, può riaffacciarsi in qualunque momento. È il pessimismo fordiano prodotto dal suo forte idealismo che gli consente «il riconoscimento dei conflitti interni del suo Paese; come scrisse Geoffrey O’Brien, “Dietro ogni affermazione di Dio, maternità e patria, una blasfemia nascosta fa capolino a tratti; il sospetto che possa essere tutto un inganno”.»15, lo fa senza timore di mostrare forme di razzismo (in Furore, il trattamento riservato agli Okies e in Fort Apache, gli amerindi) come nel coraggioso Sentieri Selvaggi (1956) in cui il protagonista, interpretato dal più americano degli attori, John Wayne, è Ethan Edward, l’incarnazione della wilderness americana in cui il confine tra l’altro (il selvaggio) e l’uomo bianco civilizzato è così precario da non poterne distinguere i confini. Alla fine della sua carriera, con una società profondamente mutata, il pessimismo fordiano deflagra in una critica nei confronti di un’America ormai dimentica dei propri principi in uno dei suoi capolavori, L’uomo che uccise Liberty Valance (1962).
Ecco il motivo per cui la materia che infirma lo stile di Ford ha una complessità che non può risolversi in un rassicurante lieto fine. Nei film di Ford c’è la fatica e la sconfitta, la lotta contro gli elementi naturali e la continua presenza dello spettro della morte fisica o morale, la rinuncia e la solitudine. L’archetipo del cavaliere solitario racconta l’autonomia del singolo nell’affrontare l’esposizione a rischi di varia natura e un valore aggiunto quando decide di inserirsi nella società, egli è l’uomo le cui lunghe cavalcate e le notti attorno al fuoco tra i suoni di possibili mille pericoli lo inducono a riflessioni circa l’esistenza e, infine, colui il cui rapporto con la natura è privilegiato in linea con il pensiero di Thourau. Quando si pensa a Ford è impossibile non tenere a mente il finale di Sentieri Selvaggi, uno dei più belli dell’intera storia del cinema, quando Ethan lasciata la nipote Debbie a una famiglia di amici sa di non meritare il ritorno a un nucleo sociale e, dopo una sosta malinconica per osservare quel mondo a lui ormai precluso, si volta allontanandosene.
Ma per Ford il racconto di una comunità ideale è incompleto senza scene conviviali; ironia, musica, danza, persino risse per futili motivi concorrono a mostrare un gruppo in via di formazione in cui alcuni personaggi secondari hanno l’occasione di emergere mostrando lati che una semplice caratterizzazione non permette.
L’importanza dello sviluppo dei personaggi secondari è anche una delle principali caratteristiche del cinema di Capra. Nei suoi film, in particolare in quelli dalla metà degli anni Trenta, l’obiettivo è dare luce alle qualità di uomini, donne e bambini che compongono il gruppo da cui proviene il protagonista, quell’uomo comune divenuto eroe. La differenza più profonda tra Ford e Capra si origina però nel loro passato.
Capra è figlio di immigrati italiani giunto negli Stati Uniti da Bisaquino, Sicilia, all’età di sei anni – che compie sulla nave durante la traversata oceanica – da una famiglia povera di braccianti il cui destino non cambia da generazioni. Frank è il primo a studiare in famiglia e per contribuire alle necessità di tutti lavora come venditore di giornali in strada, ciò gli offre l’opportunità di rafforzare il suo carattere a cui si unisce un’attenta osservazione della società americana e l’obiettivo di emergere dall’anonimato come promette la terra delle opportunità.
A Capra non interessa narrare l’epopea di una Nazione come a Ford, con cui lo lega un rapporto di stima e rispetto, ma gli Stati Uniti così come sono nel presente o, per meglio dire, come dovrebbero essere, spinti a dare il meglio per giungere al compimento dell’American Dream nel quale, e la differenza non è così sottile come appare, il sostantivo sogno permette di trasferire un ideale all’interno di una visione ottimistica in forma onirica, diversamente dalla American Way of Life che, pure nelle sue varie accezioni secondo i tempi, ha un più forte nesso con l’idealismo originale.
Ma Capra non si accontenta del sogno e lo chiarisce nei film successivi al turning point rappresentato da Accadde una notte, al cui successo reagisce con un inaspettato disappunto dichiarando di volersi dedicare a film something to say (che dicano qualcosa): È arrivata la felicità (1936), Mr. Smith va a Washington (1939), Arriva Joe Doe (1941), storie che hanno per protagonista l’uomo comune in perfetta sintesi con la visione dell’americano del New Deal. I suoi protagonisti sono uomini della strada ingenui e di buon cuore, ma solidi nella loro capacità di difesa dei più deboli contro uomini d’affari e politici senza scrupoli che sconfiggono con la forza dei loro valori e il sostegno della comunità, appunto eroi di ogni giorno, giovani, incorruttibili, perfetti. Quindi anche Capra, nonostante le accuse rivoltegli di realizzare film in cui i nodi della trama si sciolgono in una visione disneyana della realtà, è dotato di quel pessimismo senza il quale il suo cinema non esisterebbe, né i suoi personaggi, né il contesto in cui si trovano a combattere per coloro che rappresentano. Esemplare è in Accadde una notte l’urlo di un bambino a spezzare il clima gioioso di una scena corale in cui i viaggiatori cantano diverse strofe di una stessa canzone: lo svenimento per fame di una donna costretta a decidere se mangiare oppure comprare i biglietti del pullman notturno e nutrire il figlio, impone a tutti di tornare alla realtà.
A Hollywood, in qualsiasi frangente temporale si trovi, interessa la riuscita dei film, è il suo lavoro e il motivo per cui investe denaro, per cui tutto deve rientrare in un sistema ben collaudato: «quello che sembra essere stato meno compreso è che ci sono trucchi per trasmettere in modo efficace l’innocenza e l’idealismo»16 per cui «i migliori registi di Hollywood pensavano all’idealismo come al sesso e alla violenza, tutti potenti ingredienti che dovevano essere dosati con cura. E avevano la sensazione che l’idealismo, per essere efficace, dovesse dare spazio a un certo grado di pessimismo»17 e, come afferma uno dei maggiori sceneggiatori dell’epoca, Samson Raphelson, «il cosiddetto happy ending di una commedia di alto livello dovrebbe avere una sfumatura sardonica…perché non esiste un lieto fine per uno scrittore intelligente.»18

5. Le Screwball Comedy Il termine screwball comedy è coniato nel 1936 da un giornalista della rivista Variety riguardo all’interpretazione di Carole Lombard in L’impareggiabile Godfrey di Gregory La Cava, quindi due anni dopo l’uscita del film che storicamente ne indica l’inizio, cioè Accadde una notte: l’origine è da ricercare in un’espressione gergale coniata dal baseball per cui screwball sta a significare un lancio ad effetto che sorprende il ricevitore della palla.
Nasce ufficialmente la commedia americana, o più precisamente una commedia che trova la quadra perfetta da tramandare, in cui le numerose influenze compongono una matassa difficile, se non impossibile, da sbrogliare.
In questa sede è impossibile seguire i complessi sviluppi della commedia nell’arco di secoli, per cui è necessario limitare il raggio d’interesse a un punto di partenza essenziale per comprendere le screwball comedy. In origine c’è la commedia di Tito Maccio Plauto. L’espediente narrativo è rappresentato dalla confusione generata da un equivoco, di cui l’esempio più conosciuto e riuscito è uno scambio d’identità, che a sua volta produce altri equivoci sino allo scioglimento nel finale e la morale che ne consegue. La commedia degli equivoci percorre i secoli fino a giungere nelle sapienti mani di William Shakespeare e dal teatro al cinema. Ma non è tutto, esistono altre tracce da seguire per completare il veloce viaggio dentro la commedia hollywoodiana.
Le mute slapstick comedy, prodotto di punta della Keystone Pictures di Mack Sennett, caratterizzate da acrobazie, gag, torte in faccia, cadute rovinose, in un crescendo che coinvolge ignari passanti di ogni età con una violenza la cui forza dirompente provoca risate catartiche; il musical, in particolare quelli coreografati da Busby Berkeley e le golddiggers19, giovani, indipendenti e frizzanti ballerine/attrici dal linguaggio diretto e veloce, mentre i musical con Fred Astaire e Ginger Rogers si muovono nell’area romantic e sophisticated comedy, pure presenti senza smancerie nelle screwball; le commedie pre-Code.
È impossibile dimenticare gli immigrati europei che scelgono Hollywood per portare a compimento progetti irrealizzabili nella terra d’origine oppure da cui fuggono per motivi politici e religiosi. Uno di questi è un regista berlinese già affermato nella Germania di Weimar, Ernst Lubitsch, il quale importa nel cinema americano la propria cultura mitteleuropea, una grande tecnica e una predilezione per storie con una certa ingenua immoralità, soprattutto ha il senso del ritmo e un’idea precisa sulla corretta iconografia e sulla prossemica da far adottare agli interpreti. Il linguaggio e le azioni sono caratterizzate da arguzia e prontezza di reazione dei personaggi, i dialoghi si possono risolvere in una sorta di competizione a chi riesce ad enunciare la battuta conclusiva che zittisca l’altro, che il suo erede riconosciuto, Billy Wilder (austriaco giunto nei primi anni Trenta a Hollywood dopo un’esperienza nel cinema a Berlino), riconosce quale vero significato del celebre Lubitsch Touch, divenuto ben presto leggenda. Quale che sia il vero significato del tocco di Lubitsch, in definitiva costituito da un insieme di elementi che ben s’incastrano tra loro dandogli unicità, su una cosa ha ragione Wilder quando parla del superjoke (che si può tradurre in “super battuta”) lubitschiano, una salda sceneggiatura e un corretto ritmo dei dialoghi sono l’unica base possibile di un film riuscito, figuriamoci per una commedia.
Alla metà degli anni Trenta il genere è all’apice del suo sviluppo e a contribuire alla sua riuscita vi è la ricerca da parte delle Major di film che possano garantirgli una continuità di introiti, perché la Depressione colpisce anche il comparto dell’intrattenimento. La radio entra in crisi a causa delle ridotte sponsorizzazioni, il teatro ha problema a trovare finanziamenti, mentre il cinema ha il vantaggio di poter attirare il pubblico grazie a un prezzo del biglietto accessibile e l’abilità di rispondere celermente alle esigenze dello spettatore.
Il cinema può contare su altri generi ma l’avvento del Production Code20 frena la libertà creativa di quelli di punta dei primi del decennio: i gangster movie, per esempio, dopo il successo di film quali Scarface (1932, Howard Hawks) e Nemico Pubblico (1931, William A. Wellman) non possono essere presi in considerazione a causa della loro violenza; le commedie anticipatrici delle screwball, le cui protagoniste sono senza dubbio le donne interpretate da attrici come Jean Harlow, la prima blonde del cinema americano, non fanno mistero della loro intraprendenza sessuale. Se la Nazione vuole ritrovare pacificazione e unità allora bisogna toccare argomenti che includano le classi più popolari.
Il caso di L’impareggiabile Godfrey è particolarmente interessante poiché, seppure non sia l’unica commedia a coinvolgere nella narrazione la miseria della Depressione, sin dall’inizio è dichiarato il luogo da cui prende forma l’intera storia, uno slum in riva al fiume circondato dai grattacieli della città ricca e dove sopravvivono in baracche degli uomini tra cui il protagonista, il forgotten man che le ricchissime sorelle Bullock vogliono portare come premio per una caccia al tesoro tra milionari.
Generalmente le screwball sono commedie dove la nuova generazione della high society incontra, per casualità o per equivoco, una controparte del ceto opposto; i giovani, per nulla abituati alle difficoltà trascorrono il tempo spendendo soldi per futili motivi e mostrando disinteresse per quanto accade nella realtà, si esprimono con un gergo franco e moderno in contrapposizione con la serietà dei loro padri. Nell’incontro con il loro opposto tali personaggi intrecciano una relazione basata su una vera e propria ginnastica linguistica determinata da un senso del ritmo musicale e, cosa più importante, si confrontano per la prima volta con quella realtà di cui ignorano l’esistenza.
Di studi sulle screwball comedy ce ne sono molti ma quello più interessante compete al filosofo Stanley Cavell che nel 1981 pubblica Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio. Cavell prende in esame sette film21 in cui i protagonisti sono divorziati o in procinto di divorziare sennonché il rapporto alla fine si ricompone, o, come nel caso di Accadde una notte, di una coppia che si forma durante la storia ma che finge di essere sposata, rischia di separarsi per un equivoco e infine si sposa davvero. Nell’introduzione Cavell mette da subito in chiaro cosa intende per rimatrimonio.

«Quella che io chiamo commedia del rimatrimonio è, per il rilievo dato all’eroina, più strettamente connesso alla Old Comedy che alla New Comedy, ma differisce in modo significativo da tutte e due. Trasgredisce infatti un’importante caratteristica di entrambe, prendendo come propria eroina una donna sposata; e lo scopo principale dell’intreccio non è tanto unire la coppia principale, quanto ri–unirla, mettendola di nuovo insieme. Dunque la realtà del matrimonio vi è subordinata alla realtà o alla minaccia di divorzio.»22

In queste commedie le difficoltà che le coppie attraversano dipendono, più che per una differenza sociale come di primo acchito sembra nel caso del film di Capra, da cause interne alla dinamica istaurata tra i due e, soprattutto, psicologiche e culturali, per cui la ricerca della felicità consisterebbe nella emancipazione dalle proprie paure. Accadde una notte secondo l’analisi di Cavell avrebbe per oggetto il tema della fame: «sull’aver fame, dove l’essere affamati è una metafora dell’immagine o meglio dell’immaginare un modo di vivere migliore, più soddisfacente.»23
Grazie a Cavell si posso argomentare simbolismi già raccolti ma non abbastanza approfonditi e che Capra, insieme al prezioso sceneggiatore Robert Riskin, sparge sapientemente – dalla coperta/muro di Gerico alla scena messa in atto da Ellis (Claudette Colbert) e Peter (Clark Gable) in cui fingono di essere una consolidata coppia litigiosa per salvarsi dagli investigatori del padre di lei – e comprendere il ruolo pedagogico di Peter nei confronti della ricca e viziata Ellis, la quale senza di lui non saprebbe decodificare una realtà al di fuori della sua portata esperienziale. Per contro Ellis è tutt’altro che una “figlia” dipendente dai “padri”: fugge dallo yacht paterno per ricongiungersi con il suo fidanzato aviatore, affronta un lungo viaggio in un autobus notturno, è lei a ottenere il passaggio in auto grazie alla sua “teoria” vincente dell’autostop, è ancora lei a lasciare Peter quando pensa di non essere riamata, insomma Ellis non è passiva come sembra. E non potrebbe esserlo, visto che il suo è un personaggio femminile connesso con quel cinema pre-Code ricco di donne indipendenti.
Ed ecco il punto essenziale. Ellis e Peter per raggiungere la felicità devono attraversare degli ostacoli ben più difficili della differenza di ceto, ossia aprirsi l’uno a l’altra e rinunciare a lottare contro il loro desiderio inespresso. La felicità è liberazione dal limite che ci imponiamo, la paura della morte e della rinascita.
Le screwball comedy si inseriscono bene nel contesto storico del New Deal. Il forgotten man di La Cava non è altro che l’uomo comune dimenticato di cui parla Roosevelt, ma è senz’altro Capra in Accadde una notte a tradurre in commedia il desiderio della popolazione di lasciarsi indietro le divisioni, la miseria, di rileggere i propri luoghi con una visione diversa riposizionandosi sui valori tradizionali di unione per superare le avversità.
Con i primi successi del New Deal le screwball comedy, già diversamente affrontate da registi che privilegiano gli aspetti più strettamente connessi con i rapporti di coppia, perdono il contesto in cui si originano per divenire celebri quali commedie su l’ottenimento della felicità attraverso le relazioni sentimentali, ed è in questa forma che influenzano l’immaginario collettivo con alterne fortune e diversi livelli di complessità.

6. La perdita della felicità come condivisione

«Il dispositivo della felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. Ognuno deve badare alla propria felicità, che diventa quindi una questione privata.»24
Byung-Chul Han


L’Hollywood dello Studio System crea un immaginario la cui fascinazione perdura anche dopo la sua fine, quando dal Secondo Dopoguerra il sistema finanziario già presente nelle varie Mayor prende gradualmente il sopravvento sino ad occupare con le sue regole di mercato lo spazio creativo. In una società dove tutto è consumabile anche i temi di interesse collettivo divengono brand in un sistema dove gli ideali costituiscono un ostacolo.
Gli equilibri internazionali decisi durante la Guerra Fredda determinano una insicurezza diffusa, un eterno conflitto a bassa intensità logorante ma poco percepito grazie al crescente sfarzo di un consumo senza freni. Si profila la società della dimenticanza e del disincanto, mentre lo squilibrio sociale, la difficile gestione del tempo libero privo di continue sollecitazioni esterne, la poca conoscenza di un mondo complesso al di fuori di un Occidente chiuso nei suoi egoismi dentro e fuori di esso, provoca la mancanza di empatia verso i bisogni reali e un abbandono della ricerca di sé stessi volta a migliorare il bene collettivo.
A fronte di questa polarizzazione e divisione in aree geografiche di influenza, l’Europa dagli anni Cinquanta è invasa da una colonizzazione culturale utile a determinare il passaggio di consegne a una società totalmente dedita alla mercificazione anche dell’immateriale, in questo senso l’esportazione del Sogno Americano si trasforma in puro raggiungimento del successo ed è questa la nuova felicità.
In tale contesto il potere del cinema statunitense nel determinare gusti e aspettative del pubblico, sin dagli anni Venti già capace di arrivare alla distribuzione internazionale, potenzia il suo raggio d’azione e al contempo si sgancia dalla sua costante necessità di relazionarsi con una pluralità di esperienze, e nel Ventunesimo secolo deve competere con ben altri strumenti di intrattenimento che lo influenzano e modificano nel profondo ponendolo in una posizione di arretramento.
Senza entrare nel merito della funzione dei nuovi mezzi di comunicazione, non basterebbe un paragrafo, i social network o social media, il cui futuro già in essere è nel metaverso, sin dalla loro comparsa divengono centrali nella formazione di una nuova visione del mondo. La pubblicità non si limita al lancio di un marchio indirizzando i gusti del potenziale acquirente, ma promuove tramite esso un orientamento di opinioni imponendo una scelta di campo: fondamentale è il ruolo degli influencer, i più importanti dei quali sono legati da contratti ferrei con multinazionali i cui interessi sono sempre più diversificati.
Il cinema appare piccola cosa confrontato alla massa di sollecitazioni contemporanee e la stessa immagine non ha spesso più alcun mistero da svelare, il raccontarsi ha maggior peso del raccontare, ognuno desidera anzi pretende di essere protagonista o di aver sollecitato distrattamente l’attenzione di una Star, qualunque sia il motivo per cui è famosa.
In questo contesto in continuo e veloce mutamento che ne è della felicità?
Quelle che seguono sono tre citazioni di cui due lunghe ma necessarie per mappare ciò che sta accadendo, poiché il rischio è perdere di vista le soste del viaggio a cui tutti siamo chiamati a partecipare.
La prima è di Byung-Chul Han.

«La nuova formula di dominio recita: Sii felice. La positività della contentezza scaccia la negatività del dolore. In forma di capitale emotivo positivo, la felicità deve garantire un’interrotta capacità di prestazione. L’auto-motivazione e l’auto-ottimizzazione rendono molto efficiente il dispositivo neoliberista della felicità, in quanto il dominio si fa strada senza grandi fatiche. Il subordinato non è nemmeno consapevole della propria subordinazione. Crede di essere libero. (…) Nel regime neoliberista, anche il potere assume una forma positiva. Diventa smart. Al contrario del potere disciplinare repressivo, il potere smart non fa male. Il potere viene del tutto sganciato dal dolore. Si esprime senza alcuna repressione. (…) Anche la sorveglianza assume una forma smart. Ci viene costantemente chiesto di comunicare i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre preferenze, di raccontare la nostra vita. (…) Così la psicologia positiva sigilla la fine della rivoluzione. A salire sul palco non sono i rivoluzionari, bensì i trainer motivazionali che impediscono il diffondersi del malumore o anche della rabbia.»25

Guy Debord ne La società dello spettacolo afferma più o meno la stessa cosa quando parla dello spettatore che «più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio destino»26
Il deperimento culturale a vantaggio della creazione di un fruitore che spesso si limita a scegliere da che parte stare accettando idee precostituite, è ben rappresentato dai citati social, un sistema di controllo e di induzione alla polarizzazione in cui ogni opinione non gode della libertà che promette. Nel 2019 lo scrittore statunitense Bret Easton Ellis pubblica Bianco; il pretesto nasce dalla sua esperienza con Twitter e così recitano alcuni stralci dall’introduzione (è qui mantenuto l’uso del corsivo come da pubblicazione).

«A un certo punto nel corso degli ultimissimi anni (…) un vago eppure quasi opprimente e irrazionale fastidio ha preso a straziarmi fino a una decina di volte al giorno. Questo fastidio riguardava cose apparentemente così secondarie, così lontane dai miei consueti interessi, che ero sorpreso dallo sforzo che dovevo fare per liberarmi dal disgusto e dalla frustrazione provocati dalla stupidità altrui: adulti, semplici conoscenti ed estranei che sui social condividevano pareri e giudizi avventati, stupide preoccupazioni, sempre con l’incrollabile certezza di avere ragione. (…) Quello che mi stressava di più era vedere come tutti fossero sempre arrabbiati per tutto, e che spesso erano arrabbiati per opinioni che io condividevo o che mi sembravano innocue. Questo rifiuto mi costringeva a confrontarmi con un’immagine artificiale e spregevole di me stesso – una maschera, un essere che non avevo mai pensato esistesse – e ciò, in cambio, diventava un costante promemoria dei miei difetti. E quel ch’era peggio: questa rabbia poteva diventare così tossica che a un certo punto lasciavo perdere e me ne stavo lì seduto esausto, ammutolito dallo stress. Ma in fin dei conti il silenzio e la sottomissione erano l’obiettivo di questo sistema. »27

Byung-Chul Han, Guy Debord, Bret Easton Ellis, tutti sottolineano un punto fondamentale che ci racconta come mai la narrazione della felicità si sia arenata.
La felicità, intesa come descritta in apertura, è un’utopia e come tale spinge gli esseri umani a un miglioramento delle proprie condizioni fisiche e psichiche dentro un consesso sociale in progressione; persino nelle commedie hollywoodiane il suo perseguimento interno ai rapporti di coppia prevede il cedimento di qualcosa di sé, ossia trovare nell’altro una visione diversa di sé stessi. In sintesi, l’individuo può aspirare alla felicità se può condividerla con i suoi simili.
Il nostro contemporaneo ci spinge verso una separazione netta tra opposti inconciliabili: l’Ottimista vs il Pessimista, l’uomo vs la donna, l’opinione su una visione del mondo vs un’altra: essere felici significa in tale contesto vincere una qualche partita, è un benessere momentaneo indotto da una regola non scritta di imposizione del proprio punto di vista a scapito dell’argomentazione di un sapere, il contrario di un reale bisogno umano, e quindi prevede l’esclusione di qualcuno considerato elemento disturbante.
È il dolore/sofferenza che alimenta il desiderio di una condizione più prossima alla felicità = utopia, se questi è bandito da una società perduta nella soddisfazione artificiale nessuna storia può essere raccontata: niente conflitto, niente ribaltamento delle condizioni del protagonista, nessuna avventura da affrontare e quindi nessun “drago” da guardare negli occhi.
Sembra di vedere, in un possibile presente, gli sceneggiatori della Hollywood degli anni d’oro con le braccia conserte nei loro uffici a causa della scomparsa delle storie e della Storia, mentre un Harry Cohn irrompe inferocito nelle loro stanze chiedendogli perché diavolo non sente il ticchettio delle macchine da scrivere.
Questa di Harry Cohn e il ticchettio delle macchine da scrivere è una storia vera (?)

Note

  1. Il Midwest è composto da: Michigan, Ohio, Indiana, Wisconsin, Illinois, Minnesota, Iowa, Missouri, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Kansas.
  2. Walt Whitman, da Il canto di me stesso, in Foglie d’erba, Einaudi, Torino, 1993, pag. 41.
  3. John Maynard Keynes (1883 – 1946) è uno dei più influenti economisti del Novecento. Secondo la sua teoria, espressa nel saggio del 1936 Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, i cui contenuti furono utilizzati per risolvere la crisi del 1929, quando l’economia ristagna è necessario un intervento pubblico a deficit per supportare la cosiddetta ‘domanda aggregata’, cioè la capacità di spesa del settore privato, con l’obiettivo primario di arrivare alla piena occupazione.
  4. Per un maggior approfondimento si veda Franklin D. Roosevelt State of the Union Address of 1935 e FDR: From Budget Balancer to Keynesian.
  5. La FSA, precedentemente RA (Resettlement Administration), opera dal 1937 al 1943. È diretta da un’economista, Rexford Tugwell, e ha «il compito di sostenere l’agricoltura attraverso sovvenzioni a piccoli contadini ma anche con programmi di pianificazione culturale per la creazione di cooperative agricole». Per promuovere le riforme apre al suo interno una sezione Informazione di cui entra a far parte la fotografia il cui responsabile è uno dei maggiori fotografi statunitensi, Walker Evans. Olivier Lugon, Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 – 1945, Mondadori Electa, Milano 2008, pag. 99.
  6. Giuliana Muscio, Lo Studio System come struttura industriale e commerciale in Cinema: produzione e modelli sociali e culturali negli anni trenta in Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 1999, p. 584-585.
  7. Ivi, p. 583.
  8. Ivi, p. 624.
  9. L’HUAC nasce nel 1938 ma è solo nel 1947, con l’avvio ufficiale della Guerra Fredda, che è determinata a sferrare un duro attacco a Hollywood tramite testimonianze, spesso frutto di pettegolezzi e gelosie ma anche di puro terrore, di alcuni membri dell’industria cinematografica. A capo della Commissione è il senatore Parnell Thomas seguito poi dal senatore Joseph McCarthy (da cui il termine maccartismo). La commissione si trasferisce a Los Angeles nel maggio 1947 e a settembre è prodotta la prima lista (blacklist) composta da dieci nominativi (The Ten of Hollywood) tra sceneggiatori, attori e registi tra cui Dalton Trumbo e Edward Dmytryk. Per entrare in questa e nelle liste successive basta aver sostenuto associazioni antifasciste prima e durante la Seconda Guerra Mondiale e aver sostenuto pubblicamente F. D. Roosevelt alle elezioni presidenziali.
  10. Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, La Nave di Teseo, 2021, p. 228 – 229.
  11. Il cantante di jazz (The jazz singer, 1927) di Alan Crosland della Warnes Bros con Al Jolson in realtà ha pochi interventi sonori ma abbastanza da considerarlo il primo film sonoro della storia.
  12. Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, cit., p. 111.
  13. Ivi, p. 113.
  14. «Classic Hollywood was expert in the art of omission, an art that, at once, intensifies the audience’s attention and conveys action with a haunting suggestiveness». John Fawell, The Hidden Art of Hollywood. In Defense of the Studio Era Film, Praeger Publishers, Westport CT, p. 63.
  15. Scott Eyman, Print the Legend. The life and times of John Ford, Simon & Schuster, New York, 1999, ePub.
  16. John Fawell, The Hidden Art of Hollywood. In Defense of the Studio Era Film, cit., p. 111. «Classic Hollywood was an era of innocence and idealism: that is clearly understood. What seems less understood is that there are tricks to conveying innocence and idealism effectively.»
  17. Ibidem «Hollywood aimed at idealism, it’s true, but its idealism is subsumed under its larger aesthetic of understatement. The best Hollywood directors thought of idealism as they did of sex and violence, all potent ingredients that needed to be doled out carefully. And they had the sense that idealism, to be effective, had to give room to a certain degree of pessimism.»
  18. Ibidem. « the so called happy ending of a high comedy should have a sardonic overtone… because there is no such thing as a happy ending for an intelligent writer.»
  19. Una serie di film basati su una commedia teatrale di Avery Hopwood di cui la prima trasposizione cinematografica è The Gold Diggers (1923). Il termine gold diggers (cercatori d’oro) è quello con cui sono definite ballerine e attrici presupponendo, a causa della loro indipendenza e intraprendenza, che il loro unico obiettivo sia sposare un milionario. Nel 1933 si apre una nuova serie di grande successo delle vicende delle golddiggers inaugurata da La danza delle luci (1933) e conclusasi nel 1938. Il film del 1933 ha per tema la ricerca di finanziamento per uno spettacolo interrotto dalla mancanza di fondi e, pur nel clima frizzante e spensierato, affronta a suo modo il racconto della Grande Depressione; celebre il numero musicale cantato da Ginger Rogers dal titolo We’re in the Money in cui si ironizza la situazione economica del tempo.
  20. Il Production Code è composto da linee guida di autoregolamentazione morale direttamente gestite dalle produzioni con lo scopo di evitare il fermo censorio dei film già in sala, infatti prima del Code se ne occupano istituzioni locali e statali. Solo nel 1948 la Corte Suprema considera il cinema sotto la tutela del Primo Emendamento ma, anche se ampiamente ridotto, il Code è in formalmente in vigore sino al 1968 quando è sostituito dalla divisione del pubblico in fasce di età (rating). Il Codice è suddiviso in due sezioni: The Code (articolazione programmatica del modello di autocensura) e The Reasons (presentazione in chiave etico-sociologica).
  21. I film sono in ordine di analisi come da libro: Lady Eva (1941, Preston Sturges); Accadde una notte (1934, Frank Capra); Susanna! (1938, Howard Hawks); Scandalo a Filadelfia (1940, George Cukor); La signora del venerdì (1940, Howard Hawks); La costola di Adamo (1949, George Cukor); L’orribile verità (1937, Leo McCarey).
  22. Stanley Cavell, La ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino, 1990, p. XIV.
  23. Ivi, p. XIX.
  24. Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino, 2020, p. 19.
  25. Ivi, p. 16-17.
  26. «L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto». Guy Debord, La società dello spettacolo. Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini e Castoldi Dalai, Milano, 2008, p. 63.
  27. Bret Easton Ellis, Bianco, Einaudi, Torino, 2019, p. 3-4.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2023 Emanuela Liverani