L’improbabile eroe di Antonietta Giacomelli
Luigi Paselli, L’improbabile eroe di Antonietta Giacomelli, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 48, no. 17, dicembre 2019
1. L’incontro con l’eroe
Alla sparuta schiera di narratrici italiane che si sono occupate della guerra di Spagna 1936-1939 appartiene anche la pugnace e scomoda militante cattolica, terziaria francescana, Antonietta Giacomelli.1
Il romanzo in forma autobiografica che pubblica nel 19412 e che si discosta dalla tematica dei suoi precedenti lavori, “stava per uscire quando squillò la dichiarazione di guerra”: così avverte in apertura l’autrice datando la nota “Novembre 1940-XIX”. Però
il protagonista – che mai s’era veramente rassegnato alla pubblicazione dei ricordi ch’ero riuscita a strappargli – ne profittò per mandarmi un perentorio veto, motivato con l’inopportunità del momento.
Dal “momento”, 10 giugno 1940, sono trascorsi alcuni mesi e Antonietta ritiene che nulla
in quest’ora che richiede ai nostri soldati nuovi eroismi, a tutti noi nuovi sacrifici, potrà far sembrare inopportune pagine ricordanti i cimenti che da un trentennio tengono l’Italia in armi.
Questo reticente personaggio, da lei conosciuto negli anni del primo dopoguerra, è un tenente dei carabinieri di nome Giorgio Marin,3 eroe della Grande Guerra, che ritrova dieci anni più tardi col grado di Maggiore, in una città nella quale si era trasferita e
durante quel periodo, in amichevoli conversazioni con lui e la sua signora, nella loro casa ospitale – per quanto egli fosse sempre riluttante a parlare di sè – potei, più che apprendere intravvedere molte cose del suo passato, nel quale riappariva, insieme al soldato eroico, dalle geniali audacie, l’uomo dalla generosa bontà.
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In quel lungo lasso di tempo Marin aveva avuto altre destinazioni in Oriente, ma con suo grande rammarico non era riuscito a partecipare alla guerra d’Africa. Dopo aver subito una grave operazione, nel gennaio 1937 mandò una cartolina all’amica da Gaeta: “Parto per ignota destinazione. Vado a compiere il mio dovere d’italiano e di cristiano. Consolate mia moglie”. Ogni tanto giungono ad Antonietta gli echi delle sue gesta nella guerra di Spagna, ma lo rivede soltanto due anni più tardi “fisicamente disfatto”, quando va a trovarla in compagnia della moglie; ed è la moglie – da lei a lungo implorata – che lo convince a raccontarle la sua vita, mentre l’autrice ci informa di averne per opportunità mutato il nome.
Ignoriamo di proposito le avventurose, iperboliche vicende di Giorgio Marin fino allo scoppio della guerra civile spagnola, per concentrarci su questo conflitto – che occupa la seconda metà del volume, – esponendo in ordine cronologico i passaggi più fantastici. Quando il Comando gli aveva chiesto “se si sentiva in grado di prendere parte ad un servizio all’estero, molto importante e pericoloso, e al quale, per il suo passato egli risultava particolarmente idoneo”, alla sua risposta affermativa gli comunicò “la sua aggregazione al Corpo Truppe Volontarie, partenti per la Spagna”. Per non gettare nell’angoscia l’adorata moglie, Giorgio le dice che “avrebbe dovuto assentarsi per un mese o due, addetto ad un Generale dell’Intendenza che si recava all’estero, per un servizio non faticoso né pericoloso”; “la signora intuì tosto la verità” ma… “si tranquillò alquanto vedendo ch’egli non prendeva seco che una valigia con pochi indumenti”.
2. Il trionfo di Malaga
Marin “sbarcò, nelle prime ore del 6 febbraio ’37, a Cadice. E’ assieme al Generale Bergonzoli, più noto col nomignolo di Barba elettrica, famoso per la sua onnipresenza e temerità”; subito viene incaricato di una ardita missione, prima della serie che gli sarà dato d’affrontare, al “comando di una bandera mista, destinata a fiancheggiare l’avanzata delle colonne che miravano alla presa di Malaga e della sua provincia”. Fra le “truppe rosse” che ostacolano i nostri legionari si trova la “Brigata internazionale, composta dei battaglioni Fantasma, Messico, Pablo ed altri, noti per la loro aggressività,” tant’è che perfino “lo stesso comandante delle truppe italiane rimase ferito, senza abbandonare il suo posto”. L’entusiasmo e il valore dei legionari travolge la resistenza del nemico e “al mattino dell’8, con geniale e rapida manovra, le nostre truppe potevano entrare a Malaga, ove catturavano oltre 10.000 prigionieri”. Antonietta nota che
Marin, coi suoi, potè validamente contribuire al buon esito dell’operazione, eseguendo ardite ricognizioni e procedendo al rastrellamento dei franchi tiratori. Questi erano per la maggior parte internazionali, i quali, celati nelle forre e nelle grotte, sparavano a tradimento.
A partire dal giorno 11 “Marin si occupò del ristabilimento della vita nella città”, infestata da
numerosissimi miliziani nascosti nei sobborghi e nei bassiporti” che durante la notte “sparavano a bruciapelo sugli italiani isolati”, e dai “numerosi delinquenti del Penitenziario del Levante, che, prima di lasciare la città, le Autorità rosse avevano liberati;
costoro
avevano invaso le Sedi dei Comandi militari, sapendo che nelle casseforti rosse erano stati depositati tutti gli oggetti preziosi rapiti alle chiese. E questo non solo allo scopo d’impadronirsene, ma pur anco ad impedire che gli italiani li restituissero al culto;
fra i “parecchi quintali di arredi sacri, che Marin consegnava all’Alcalde, nominato in quei giorni, figurava una mano di Santa Teresa d’Avila”, preziosa reliquia montata in oro e tempestata di gemme.
3. Il sangue di Guadalajara
Meno di un mese dopo Marin è sul fronte di Guadalajara dove “aveva avuto sin dalla vigilia della battaglia il compito di eseguire delle ricognizioni lungo le linee e possibilmente in territorio nemico”; per questo incarico “il 1° marzo egli prese dimora in un ridotto, di dove, durante la notte, usciva solo per passare nel campo nemico”. Quando il giorno 8 i legionari muovono all’attacco, “si mise innanzi alle truppe, guidandole lungo la strada di Francia e cercando non incappassero nei campi minati e proseguissero fuori tiro delle mitragliatrici, appostate in caverne e ricoveri di cemento armato, molto bene mascherati”. L’avanzata procede e
il 10, quando già le nostre truppe si trovavano all’inizio dell’Altipiano, improvvisamente, videro sbucare da una macchia un carro armato russo gigante, fornito di un cannoncino nel centro e di due mitragliatrici, seguiti da altri quattro, di eguali dimensioni. Il carro, sicuro della sua invulnerabilità – costituita dalla corazza d’acciaio al nichel e contro la quale i proiettili dei fucili e delle mitragliatrici si schiacciavano senza scalfirla, – puntava verso la pattuglia di esplorazione comandata dal Marin. Una mitragliatrice pesante, messa innanzi a protezione, tentò di fermarlo. Ma inutilmente, perché il bestione procedeva sparando tutte le sue armi e schiacciando in modo raccapricciante due feriti che giacevano sulla strada.
I componenti la pattuglia si sbandano e cercano riparo…In suo aiuto sopraggiungono alcuni legionari, che provvedono ad estrarre i due carristi,
mentre il Marin, sfinito per lo sforzo e dolorante per una fortissima contusione alla schiena, prodotta dallo sbattere di un cingolo, s’era seduto sul carro”. Fra i legionari accorsi a dar man forte c’è anche il fido attendente e autista del nostro eroe, il quale “pratico d’ogni automezzo, ben presto comprese la manovra del carro e lo girava verso il nemico, mentre il Marin manovrava il cannoncino. I tiri erano più o meno aggiustati, per l’emozione del puntatore. Tuttavia due dei quattro carri rimasero colpiti in parti vitali, perché, tosto arrestatisi, ne uscivano i carristi dandosi alla fuga, mentre il terzo carro, colpito in pieno, s’incendiava, senza lasciar tempo ai carristi di salvarsi. Il quarto, a sua volta colpito, dava modo alla pattuglia di catturare i carristi, entrambi feriti.
Antonietta ci informa che i due valorosi ebbero la medaglia di bronzo, ma dovettero abbandonare il carro per l’impossibilità di rifornirlo di benzina e di munizioni; la pattuglia attende quindi l’arrivo della colonna principale, che con l’artiglieria apre la strada ai fanti, mettendo in fuga il nemico. Per Marin, però, non c’è tregua: “nei giorni successivi dovette accorrere ove maggiormente infieriva la lotta, a portare gli ordini del Comando, a rilevare le necessità dei vari reparti impegnati e assumere informazioni circa le intenzioni del nemico”. Un vero e proprio tour de force che raggiunge il culmine il giorno 18 quando, “con i suoi carabinieri, armati di mitragliatrici, si fermava nei punti più importanti, ad impedire all’avversario di approfittare del movimento delle nostre truppe”.
4. L’apoteosi di Bilbao
Sulle prodezze di Marin a Guadalajara Antonietta non va oltre e passa “all’azione per la conquista di Bilbao, sostenuta per i tre quarti dalle truppe nazionali e durata dal 31 marzo al 20 giugno ’37, alla quale “dèttero valido appoggio i nostri, con incontestabile valore”. Dopo una iniziale serie di scontri accaniti, “al Comando Italiano premeva che l’azione fosse condotta a fondo rapidamente, perché le truppe s’erano già troppo affaticate”, e per accelerare la fine delle operazioni
chiamò quindi quello che ormai era specializzato in ricognizioni nel campo avversario; e lo incaricò di verificare sul posto quanti fossero i difensori della città. Il Marin, attesa la sera, travestito da miliziano, si avviò al trincerone. Prima però aveva invitato un vicino reparto a simulare un attacco, per distrarre l’attenzione del nemico. Durante il giorno egli aveva cercato e scoperto un varco fra il reticolato; e ivi s’infiltrò, riuscendo a passare inosservato. Andò strisciando fino all’imbocco di un camminamento. Poi, dopo essersi accertato che in quel momento nessuno passava, procedette lunghesso, assumendo l’andatura di un uomo che va tranquillo per i fatti suoi. Percorsi circa 500 metri oltre il trincerone, venne fermato da una sentinella, che gli chiese dove andasse. Ed egli, avendo appreso da alcuni prigionieri che su quel tratto di fronte v’erano degli internazionali, ed in prevalenza anarchici francesi, rispose in francese che apparteneva al battaglione Marat e che, essendo interrotte le comunicazioni telefoniche, andava a ordinare all’artiglieria di allungare il tiro. E aggiunse alla sentinella il consiglio di tenersi bene riparata, perché dopo poco l’artiglieria si sarebbe fatta sentire. Dopo due ore di cammino, (il trincerone distava dalla città 7 chilometri, percorsi fra continue soste ed ansie e necessità di nascondersi per l’incontro di reparti che andavano verso il trincerone), il Marin giunse al limitare della città. Entrò in una delle tante case abbandonate, poiché la popolazione s’era rifugiata al centro. E ivi prese fiato e studiò il da farsi.
Antonietta non svela la tattica elaborata da Marin, che
all’alba, non molto lontano, scorse dei fuochi di bivacco, intorno ai quali stavano dei miliziani. Si diresse a quella volta: e, avvicinandosi con disinvoltura, chiese in cattivo spagnolo misto a francese, del caffè. Poi descrisse il duro combattimento sostenuto durante la notte contro i Fascisti invasori, affermando che questi erano stati respinti e che non sarebbero riusciti a varcare il cinturone. Il sergente capo-cuciniere rispose che, malauguratamente, questa previsione non si sarebbe avverata, perché già da due giorni il Comando dell’esercito basco aveva disposto l’allontanamento del grosso delle truppe, facendolo affluire lungo la costa del Cantabrico verso Santander. E questo perché la difesa della città era da ritenersi impossibile, a cagione dei 300.000 civili (la popolazione era aumentata pel sopraggiungere dei profughi) che consumavano tutti i viveri, mentre l’accerchiamento nemico impediva ai difensori di rifornirsene. Il Marin, dopo aver cercato di cavarne qualche altra informazione, chiese al sergente se avesse qualche incarico da dargli per il centro. Questi gli consegnò due lettere dirette al Comando del suo reggimento, che doveva trovarsi nei pressi della Capitaneria di porto. Lo pregava inoltre di portargli la ricevuta, e, possibilmente, del tabacco. Il Marin potè procurarsi una cintura di cuoio, munita d’una placca portante il numero del Reggimento. E si diresse verso il centro della città, percorrendo prima vie strette, dall’aspetto medioevale e dai tetti sporgenti, poi arrivando nel quartiere moderno, creato da Don Diego De Lopez, signore di Biscaglia. Si presentò alla porta di vari accantonamenti militari, sempre chiedendo ove si trovasse il comando del suo reggimento. E così potè constatare che realmente moltissime truppe s’erano di recente allontanate, mentre altre si disponevano a fare altrettanto, seguite da carri armati, camions e carreggio vario. Giunto alla Capitaneria di porto, chiese del Comando. Ma gli fu risposto che s’era allontanato durante la notte. Trovò un ufficiale, al quale consegnò le due lettere. E n’ebbe la ricevuta, scritta e timbrata. Venne indi fermato da due guardie d’assalto. Ma, servendosi del documento avuto, potè riprendere la sua ricognizione, che protrasse sino a tarda sera, aggirandosi per le vie quasi deserte. Pure acquistò un pacchetto di tabacco; e, nuovamente protetto dall’oscurità, tornò dal sergente cuciniere. Consegnatagli la ricevuta e il tabacco, si dichiarò molto stanco e incerto circa la strada per tornare al suo posto di combattimento. Lo pregò quindi di accompagnarlo per un tratto. Il sergente, grato per il tabacco, consentì. E la sua presenza fu preziosa al Marin, perché valse a fargli superare l’inciampo di tre fermate, capitategli lungo il percorso. Ma quando cominciò a farsi udire il sibilo di qualche proiettile in arrivo il sergente tornò sui suoi passi.
Rimasto solo, il nostro intrepido esploratore
vagò alla ricerca di un varco che gli permettesse di riattraversare il trincerone. Egli sapeva che questo, in certi punti, si trovava a picco sur un canalone che separava i due campi avversari. Quella notte fu una delle più tormentose della sua avventurosa vita. Ma all’alba egli potè trovare il posto adatto. Si trattava ora di entrare nella trincea e scavalcarla, e indi, a nuoto, traversare il canalone. Radunò tutte le sue forze. Notò un punto del trincerone, coperto perché costituiva la postazione d’una mitragliatrice. Prima strisciando, poi d’un balzo, arrivava sulla trincea e si gettava in acqua. Nessuno lo aveva visto. Infatti, i difensori s’erano appisolati, stanchi per aver vegliato tutta la notte sotto il tiro ininterrotto degli Italiani. Perciò egli riusciva a traversare un buon terzo del canale prima d’essere fatto segno alla fucileria dei rossi. Quando s’avvide d’essere stato scoperto, si tuffò, lasciandosi, per un tratto, trasportare dalla corrente. Indi tornò a galla. I nostri, che dalla parte opposta lo avevano notato, ritenendo trattarsi d’uno dei soliti disertori, che sarebbe riuscito utile con informazioni fresche, intensificarono il fuoco per distrarre l’avversario. E il reduce potè così raggiungere incolume la riva amica. Il Comando nostro, appreso che ormai i difensori di Bilbao erano ridotti a poche migliaia, lo comunicava al Comando nazionale. E allora questo ordinò pel mattino seguente l’attacco generale alla città. La conquista fu rapida e con pochissime perdite.
Il riposo di Marin è di breve durata perché alla metà d’agosto si accendono gli scontri sul fronte di Santander, tenuto dagli Asturiani, “noti per la loro fierezza e perché quasi tutti dinamiteros, e cioè minatori anarchici, che in ogni rivoluzione avevano dato molto filo da torcere alle forze costituite”; egli viene colà inviato
con un reparto dei suoi, per constatare la natura delle difficoltà” e consiglia agli assalitori di “smettere l’attacco frontale, che gravi perdite era già costato, e limitarsi al lancio di bombe a mano, sì da attirare l’attenzione del nemico. Poi, seguendo un sistema altre volte sperimentato, girò a tergo del primo ridotto; e, approfittando d’un tratto di reticolato meno alto e in parte divelto dalle nostre artiglierie, con un tascapane pieno di bombe e rivoltella in mano, a breve distanza seguito dal suo attendente, si portò sul ciglio del ridotto, d’onde lanciò nell’interno una decina di bombe, mentre l’attendente apriva il fuoco con fucile mitragliatore. Nei difensori si produsse un immediato panico, forse ritenendo trattarsi di un attacco in forze. Tanto che molti alzarono le mani gridando: Kamarad. Il reparto, che molto s’era affaticato per la presa del ridotto e che, riparato da alcuni massi, continuava a far fuoco, scorto il maggiore che stava in piedi sur uno spalto dominando gli avversari, d’un balzo lo raggiungeva, per modo che ai rossi non rimase che arrendersi in massa”. I legionari si abbandonano a scene di entusiasmo, “mentre i prigionieri si affannavano a dire che “avevano così accanitamente combattuto soltanto perché a viva forza costretti dagli ufficiali e dal Commissario del popolo. Su quest’ultimo anzi essi volevano sfogare la loro ira. Ma ne furono trattenuti dai nostri.
Marin ripete l’operazione con successo in un altro ridotto, però “per sfondare completamente le linee di accesso alla provincia di Santander era necessaria la presa di un terzo ridotto, posto più in alto e su terreno scosceso”; poiché l’obiettivo non mostra alcun segno di vita
sulle prime, credette fosse stato sgombrato. Ma, non fidandosi completamente, fece sostare i suoi uomini al riparo, ai piedi del ridotto, cercando, pistola alla mano e seguito ad una certa distanza dal suo attendente, di raggiungere lo spalto. Era rimasto d’accordo che, se tutto fosse andato bene, con un fischio avrebbe chiamato il reparto attaccante. Giunse così sul ridotto. Ma, mentre stava per chiamare la truppa, all’improvviso, dal rovescio di una trincea, comparvero numerosissime teste di miliziani, tutti col fucile spianato, a due metri di distanza. Gli venne intimato di alzare le mani. Con tutta la calma possibile in quel momento, il Marin rispose: – Ma io sono un arrendido; e qui sotto ho pure molti compagni che non sparano e son disposti a seguire il mio esempio. Ciò detto, senza alzare le mani, levò di tasca il portasigarette e offerse una sigaretta all’ufficiale che, con la pistola in pugno, gli si era avvicinato. Mentre veniva richiesto del numero dei Volontari che volevano arrendersi, il Marin calcolava quello dei presenti nel ridotto, che potevano essere 200. Disse allora che sarebbe andato a chiamare i suoi, mentre il Commissario del popolo (che mai mancava nei reparti delle truppe rosse) diceva che non conveniva fidarsi di un fascista e proponeva di legarlo e rinchiuderlo nel ridotto. Il Marin si vide perduto. E allora d’un balzo si gettò sulla mitragliatrice, rimasta senza serventi, perché s’erano spostati per vedere ove fossero i compagni del nuovo arrivato; e, dopo averla girata verso i miliziani, premette il grilletto. In pari tempo, col fischietto, dava ai suoi il segnale. Fu un momento drammatico per lui e tragico per gli altri. Compresi che la pena di quell’ora gli si rinnovava nell’anima, perché s’interruppe mormorando: – Povera gente… Nessuno dei miliziani osò buttarsi sulla mitragliatrice. Anzi cercarono rifugio negli angoli morti. Primo ad accorrere in aiuto del suo maggiore fu il fido attendente, che lanciò verso il centro delle bombe a mano. Dopo qualche minuto giungevano trafelati i componenti il reparto d’attacco, ai quali altro compito non rimase che snidare i miliziani, che s’erano nascosti nei camminamenti coperti e nelle riserve di munizioni. Solo una decina oppose resistenza. Ma furono sopraffatti.
Alla pari dei compagni che li hanno preceduti, i vinti lamentano che hanno combattuto perché costretti dai capi comunisti, malgrado i loro sentimenti spagnoli e cattolici, “e non è il caso di pensare che fossero dichiarazioni opportuniste” poiché per la maggiore “quando si trovavano al muro, si disputavano il confessore”. Per considerare raggiunto l’obiettivo in quel settore occorre soltanto superare un braccio di trincea, ma l’impegno “fu alquanto scabroso perché si trovava in posizione dominante e in esso s’erano rifugiati i rincalzi destinati ai ridotti. Il Marin riportò alla gamba destra una ferita molto dolorosa, che però non ledeva l’osso. Bastò questo perché egli non si considerasse fuori combattimento” e con le truppe “sebbene stanche per la lunga giornata di continua lotta, si gettarono all’arma bianca, riuscendo a sgominare il nemico e ad impadronirsi di tutto il sistema difensivo”.
5. Santander è in mani legionarie
Prima ancora di farsi medicare la ferita, Giorgio Marin viene chiamato a rapporto dal Generale comandante che lo incarica “di portarsi al Puerto del Escudo, posizione che doveva assolutamente essere presa, perché altrimenti si sarebbe trovato in serio pericolo l’esito della battaglia di Santander”; egli si fa medicare la ferita e dopo qualche ora di riposo, raggiunge il nuovo fronte. Precedendo un gruppo di carri armati, che proteggono pattuglie di esploratori, guida zoppicando le truppe all’attacco sotto il fuoco rabbioso delle mitragliatrici; sorpresi dall’audace manovra, per non venire accerchiati i rossi si ritirano e “il Puerto del Escudo pareva ormai conquistato. Quando, da un picco dominante il passo, chiamato il Dente del Escudo, partiva una raffica di mitragliatrici, che costringeva i nostri ad arrestarsi e a cercare riparo. Il Marin intanto aveva trovato un cavallo bianco, abbandonato dal suo cavaliere, comandante delle truppe rosse, e lo aveva afferrato per le redini, mentre, impaurito dai tiri, s’impennava furiosamente. Ma, per quanto a fatica e con l’aiuto dell’attendente, riuscì a montarlo, armato del fucile mitragliatore preso al suo fido; e ordinò ai legionari di seguirlo su per l’erta, pregando i carristi di appoggiarlo nell’azione che stava per tentare. Abbassatosi sul collo del cavallo e speronandolo si diresse verso l’altura presidiata dai rossi. Procedeva tra il fischiare dei proiettili, che colpirono due volte il cavallo, mentre una pallottola gli feriva di striscio l’orecchio destro. Potè così raggiungere un masso, dal quale era facile controbattere la posizione nemica col fucile mitragliatore. E, buttandosi giù dal cavallo, aperse il fuoco. Allora i nostri, animati dall’esempio, iniziarono la salita, in un quarto d’ora giungendo al sommo. E, schierandosi, prendevano tosto posizione, anche perché il nemico, che aveva abbandonato il trincerone, stava per riordinarsi e passare al contrattacco, che fu respinto”, permettendo ai legionari di conseguire l’agognata meta.
Tuttavia per Marin non è ancora giunto il momento del riposo, perché il Generale comandante lo convoca e gli ordina di “eseguire una ricognizione nell’interno della sacca di Reinosa, per poter verificare la situazione e le intenzioni del nemico”. Con una decina di uomini “si recò in prossimità della piana di Reinosa. Indi, lasciato l’automezzo e presi seco quattro uomini, entrava nella zona, seguendo un sentiero. Imbattutosi in un avamposto, dopo aver sventolato il fazzoletto, veniva condotto presso un ufficiale che portava gli emblemi comunisti, falce e martello”. Marin gli dice che deve fare una comunicazione di grande importanza al comandante del settore e l’ufficiale – dopo molte titubanze – telefona al comandante del suo reggimento: “furono momenti di trepidazione. Poichè, proprio in quel settore, il giorno innanzi i rossi avevano catturato una pattuglia di arditi, che il giorno stesso erano stati barbaramente trucidati”. Quando ha di fronte il colonnello nemico “il Marin gli disse che ormai nulla a loro rimaneva da fare, poichè il Puerto del Escudo e le sue via d’accesso erano nelle mani degli italiani, presidiati da numerose truppe. Il comandante non voleva prestar fede alla notizia, sostenendo essere impossibile la caduta del Puerto. Ma dovette persuadersene quando l’ufficiale italiano gli descrisse il complesso delle fortificazioni superate e perfino gli ripetè le diciture dei cartelli indicatori posti oltre il Puerto”. Vedendolo molto impressionato Marin gli dice che l’artiglieria italiana non tarderà ad aprire il fuoco per l’attacco finale, dandogli atto “che già le truppe rosse s’erano comportate molto bene, ma che una ulteriore resistenza non avrebbe avuto altro effetto che di procurar loro nuove perdite senza alcun vantaggio”. Il colonnello chiama allora a raccolta i suoi ufficiali che invitano Marin a raccontare i dettagli della presa del Puerto, “ed egli potè constatare che la narrazione produceva in tutti un effetto assai deprimente. Profittò di questo stato d’animo per dir loro che avrebbe accompagnato tutti in luogo sicuro e che il Comando avrebbe tenuto conto della loro buona volontà”. Ottenuta la deposizione delle armi, “a tarda sera, potè rientrare al Comando seguito da oltre un migliaio di miliziani, che furono accompagnati in un campo provvisorio di concentramento, ove furono molto umanamente trattati”.
Antonietta chiude il capitolo notando che “per gli ultimi tre fatti d’arme Giorgio Marin ebbe la medaglia d’argento, con una motivazione che li compendiava”, riportandone il paragrafo conclusivo e commentando: “magnifiche parole. Ma io so che quello di cui il mio amico si compiace soprattutto, quello che è per lui una gioia senza spine, è aver salvato da una tragica sorte mille uomini dell’esercito nemico”.
La battaglia per la conquista di Santander prosegue accanita e il nostro eroe, “benché sempre ancora dolorante per la penultima ferita, s’era aggregato alla Divisione Littorio, prendendo parte ai combattimenti di Hontaneda e di Arnedo. Durante quest’ultimo, a fianco di Barba elettrica, si trovò d’un tratto circondato da un gruppo di carabineros. Sì che entrambi dovettero aprirsi un varco con bombe e moschetto”. Nella notte dal 25 al 26 agosto i legionari circondano Santander, “ma non erano noti nè l’ammontare delle forze nè le intenzioni del nemico. E il solito Marin venne inviato in ricognizione. Col debito travestimento, entrò in città a tarda sera e ne uscì all’alba, senza incontrare difficoltà. Unico pericolo, quello che, se scoperto, sarebbe stato massacrato”. Il dettagliato rapporto che fa ai superiori li convince a mandarlo a trattare la resa, che doveva essere incondizionata. Di nuovo in campo nemico, “dopo una discussione tempestosa, – durante la quale il Commissario del popolo si tirò un colpo di pistola alla testa – i difensori conclusero che per salvare il loro onore di combattenti, avrebbero deposto le armi solo per evitare un inutile spargimento di sangue fra la popolazione civile e davanti al numero preponderante delle nostre artiglierie”.
L’entrata in Santander dei legionari è trionfale, “ostacolata solo da scarsi nuclei di difensori, ai quali forse non era giunta notizia della resa”, nonché dal “travolgente entusiasmo per i liberatori, che avevano spezzato il giogo comunista e davano la possibilità di riaprire e di alzare la bandiera nazionale, al posto di quella all’ombra della quale, per due anni, erano stati commessi orrendi misfatti”. Non sappiamo se il giorno seguente anche Marin era “nella piazza centrale” dove “oltre 50.000 persone si adunarono per assistere alla Messa”, però Antonietta ci informa che “egli veniva in quei giorni promosso tenente colonnello per merito di guerra”.
6. Il gelo di Teruel
Per quattro mesi ignoriamo le prodezze di Marin, finché – per studiare un colpo di mano nel gelido inferno di Teruel – “volle tentare una ricognizione del terreno e delle forze avversarie. Partì la sera del 30 dicembre, fra una tormenta di neve, giungendo, dopo quattro chilometri, alle prime case della città. Di là partivano grida che chiamavano in aiuto i nazionali, poichè erano numerosissime le abitazioni private nelle quali i soldati s’erano asserragliati a difesa”. Il neo tenente colonnello valutò rapidamente la situazione e “tornò al Comando con l’informazione che le truppe assedianti erano troppo numerose in paragone alle nostre e che urgeva l’arrivo dei nazionali”, ma era troppo tardi: “il giorno dopo i rossi s’impadronivano di Teruel, facendo prigionieri il Comandante, le scarse truppe superstiti e l’Arcivescovo. Questi aveva avuto la santa audacia di presentarsi ad essi vestito dell’odiato e vietato abito talare e col pastorale in mano. Condotto a Barcellona, vi fu, dopo qualche tempo, barbaramente massacrato”. I feroci occupanti, “inebbriati dal successo, si abbandonarono a sguaiate baldorie e si accanirono sopratutto sulle chiese, i conventi, il cimitero. Ma ben presto le nostre artiglierie provvidero a smorzare i tristi entusiasmi”. Frattanto “arrivavano i nazionali, i quali progressivamente riuscivano a ricacciare il nemico dalle alture circostanti. E finalmente, il 26 febbraio, quelle truppe – alle quali, per il collegamento, s’erano uniti il Marin e alcuni altri italiani – rioccupavano la città”.
7. La gloria di Alcañiz
Alla conquista di Teruel i nazionalisti con i nostri legionari fecero seguire l’inarrestabile offensiva d’Aragona, raggiungendo in breve Alcañiz:
In questa città dovevano essersi concentrate le forze del settore. E perciò il Comando agì di sorpresa. Una colonna autocarrata, preceduta da un gruppo di carri armati, di notte, a fanali spenti, nel massimo silenzio, si addentrava nel territorio nemico, percorrendo altri 30 chilometri, senza collegamento col grosso. Facevano parte della colonna tre Generali, vari ufficiali di Stato Maggiore e il Marin, che aveva potuto prender posto all’esterno di un carro armato. […] Il Marin fu incaricato di percorrere i due chilometri che li separavano da Alcañiz, e, se possibile, entrarvi, per constatare la situazione. La città pareva deserta. Giunto ad un crocicchio, l’inviato vide una Ford fermarsi davanti ad un distributore di benzina. Avvicinandosi e vedendo che l’autista era un miliziano, gli ingiungeva di consegnargli le armi. Nell’interno dell’automobile v’erano del materiale lettereccio, delle carte d’ufficio e tutto l’equipaggiamento del capo dello Stato Maggiore, addetto alla difesa della città. L’autista spiegava che il suo colonnello, rimasto senza truppe, lo attendeva a casa perchè lo conducesse fuori della città, sapendo che i Fascisti stavano per arrivare. Il Marin, da bordo della macchina, ordinò all’autista di condurlo davanti all’abitazione del colonnello e di salire da lui per dirgli che il Comandante dei Fascisti lo attendeva abbasso, dato che ormai la città era circondata dalle truppe italiane, le quali non avevano aperto il fuoco per non colpire la popolazione. Dopo un po’ scendeva il comandante, tenente colonnello di Stato Maggiore, con la rivoltella in pugno. Il Marin, offrendogli una sigaretta, gli disse che quell’arnese era pericoloso, in quanto i Legionari appostati, vedendolo, avrebbero potuto sparare. Indi gli raccontò come la colonna fosse giunta fino ai sobborghi; e aggiunse che, ormai, egli doveva considerarsi prigioniero. Lo invitava poi a fare con lui un giro, per dissuadere eventuali difensori dal resistere, perché ormai la città era conquistata. Salirono insieme sull’automobile. Il colonnello piangeva ripetendo: – Ay! Mi pobre familia! Mi pobre familia! Giorgio Marin lo confortò assicurandogli che avrebbe interposto i suoi buoni uffici perchè venisse trattato bene e fosse tenuta nella massima considerazione la buona volontà che avrebbe dimostrato per la causa nazionale.
Rincuorato, l’uomo guida Marin al Municipio dove una guardia “interrogata intorno allo stato delle cose, rispondeva che nei sotterranei v’era un centinaio di detenuti politici, incarcerati da molto tempo e custoditi da una quindicina di soldati rossi”; Marin ordina al colonnello di intimare ai guardiani di deporre le armi e salire ad uno ad uno, e “comparvero così quindici ceffi poco promettenti, che vennero tosto rinchiusi in un locale terreno”; poi diede ordine all’autista
di salire sul campanile della cattedrale e lassù esporre un lenzuolo bianco ed una piccola bandiera italiana, che egli aveva seco. Dopo un’ora giunse un pattuglione dei nostri, che avevano rastrellato lungo il percorso una cinquantina di miliziani dispersi. Il Marin scendeva poi nei sotterranei. Aperta la prima porta, vide una ventina di uomini, ridotti in uno stato pietoso. Ritenendolo un membro della ceka rossa, alcuni si inginocchiarono giungendo le mani, altri si coprivano il volto, implorando pietà. Il primo al quale il Marin aveva chiesto chi fosse, rispose: – Yo soi un curà, ma non politicante. Gli altri rispondevano in modo simile, qualificandosi maestri, professori, medici, avvocati, ecc. ecc. Il Marin disse loro che la città era stata conquistata dagli Italiani e che perciò nulla avevano a temere. Alcuni, a questa notizia, svennero: altri si precipitarono intorno a lui, cercando di baciarlo ove potevano.
Mentre egli ascolta il coro dei loro piagnistei,
vennero aperti anche gli altri stanzoni, nei quali si trovavano le donne. Fra queste molte Suore, alle quali era stato strappato il velo. Anch’esse, come gli uomini, dicevano essere stato loro la sera innanzi comunicato che, se gli Italiani fossero avanzati, sarebbero stati tutti passati per le armi. Perciò, a buon conto, erano stati spogliati di ogni indumento non logoro. E gli esecutori dovevano essere i quindici miliziani che li custodivano”; frattanto i carri armati legionari “transitavano per le vie dirigendosi verso le posizioni che avrebbero dovuto costituire la nuova cinta della città”, e Marin viene incaricato dal Comando del governo della città. Immediatamente “nominò l’Alcalde, organizzò il servizio religioso e il sanitario, e quello di Polizia con alcuni civili giudicati idonei. Fece seppellire i molti morti lasciati dalle truppe e provvide alla distribuzione dei viveri, ponendo alla direzione di questo servizio i prigionieri politici liberati, che davano maggiore affidamento. Ho detto: nei due giorni del suo regno. Infatti, sopraggiunto il Comando nazionale, esso approvò e lodò i provvedimenti dell’ufficiale italiano, ma, naturalmente, gli si sostituì nel governo della città liberata.
8. L’ultima ricognizione
La lotta continua senza tregua e il comando legionario, pianificando “la battaglia decisiva per ricacciare le forze rosse sulla sinistra dell’Ebro e così raggiungere l’obbiettivo massimo, e cioè separare la Catalogna dal fronte centrale”, manda Marin in ricognizione;
l’indomani mattina egli tornava comunicando la sensazione che il nemico fosse disposto a ritirarsi soltanto se fortemente spinto, perchè a tergo delle sue truppe erano reparti incaricati di far fuoco su coloro che avessero abbandonato il posto di combattimento. E indicò le vie che avrebbero potuto percorrere i cannoncini anticarro e l’artiglieria leggera.
L’esploratore,
incaricato di precedere i reparti avanzanti, appena ne ebbe la possibilità, con la sua radio si metteva in comunicazione col Comando, informandolo del punto esatto nel quale il nemico tentava opporsi con le mitragliatrici, sì da controbatterlo con l’artiglieria. Ma le truppe nostre non potevano, a cagione del terreno accidentato, – ch’era barena dell’Ebro – andare innanzi speditamente. Perciò il Marin venne a trovarsi solo, mentre le forze retrostanti erano state costrette a deviare dal sentiero da lui percorso e s’erano imbattute in un nido di mitragliatrici, che ne ostacolava l’avanzata. Il Marin capì d’aver camminato troppo in fretta. Ma d’altra parte non poteva nè intendeva tornare sui suoi passi, perchè ciò avrebbe potuto sembrare non buona volontà. La sua posizione, trovandosi fra le linee avversarie, era assai critica, perchè il nemico s’era ripreso. Infatti, dai ricoveri erano usciti non pochi miliziani, i quali, se in un primo momento s’erano ivi rifugiati con l’intento di arrendersi, ora avevano mutato parere, sperando forse di poter trattenere l’avanzata dei nostri. Era necessario trovare una soluzione a questa situazione tragica. Sulle prime, il Marin pensò di gettarsi a terra e fingersi morto. Ma poi, visto che i miliziani non lo avevano notato e che erano impegnatissimi a sostenere il fuoco, approfittando della vegetazione cedua fra la quale si trovava, carponi procedette, con la sua radio in spalla, fino a dove poteva ritenere di non essere udito dal nemico. Tutto, compreso la sua vita, dipendeva da quella radio. Ed egli l’aperse con profonda emozione, confidando che nei sobbalzi e negli urti contro terra non si fosse guastata. Sommessamente, chiamò più volte il Comando. E quando finalmente potè capire di essere stato udito, una gioia indicibile lo invase, tanto da averne gli occhi umidi di pianto. Egli aveva potuto, con quell’apparecchio dovuto al genio italiano, aiutare le nostre valorose Camicie nere e anche se stesso, poichè l’artiglieria, avvertita del punto preciso, poteva battere il nemico e dar modo ai Legionari di raggiungerlo.
Sfinito dalla marcia e dal peso della radio, Marin “richiese ed ottenne un motocarrello, sul quale salire e caricare l’apparecchio” e prosegue lungo la strada continuando le sue segnalazioni:
in quell’occasione la sua radio, dalle stazioni riceventi situate nella zona, venne denominata la radio misteriosa, poiché si udiva da quanto le truppe retrostanti consideravano territorio nemico. Sì che in seguito l’operatore fu chiamato la realtà romanzesca”. Alla 18,50 il motocarrello giungeva alle prime case dei sobborghi di Tortosa, raggiunto dopo qualche tempo dalle truppe, sempre sotto il vivissimo fuoco di fucileria. La radio fu posta al riparo dietro un muro, mentre i legionari potevano apprestare provvisorie opere di difesa. Infatti, era a temere un contrattacco nemico, in quanto tutte le forze avversarie si erano accalcate nei pressi del ponte situato nel centro di Tortosa e che, dopo da esse passato, sarebbe stato fatto saltare.
9. Il rimpatrio e i quesiti
Suo malgrado, l’epopea spagnola di Giorgio Marin si conclude nell’estate del 1938 quando, agli ordini del generale Manca di Mores che “sempre alla testa dei suoi compì gesta mirabili, che gli valsero la medaglia d’oro […] veniva spesso incaricato delle solite ricognizioni”; estenuato, ottiene un mese di licenza, a condizione di ritorno “ma, trascorso il mese, nè le sue condizioni nè il suo superiore gli permisero di mantenere la promessa. Egli ancora si reggeva a stento. E mentre tuttora lottava e sperava, la guerra di Spagna finiva”.
Quando esce questa parodia di romanzo Antonietta Giacomelli si accinge ad entrare nel suo ottantaquattresimo anno di vita e dopo tante battaglie socioculturali, non prive di asprezza, dal 1937 si è ritirata in un pensionato di suore a Rovereto, abbandonando ogni attività pubblica, dove attende in silenzio e povertà a opere caritative e alla scrittura.
Complice sicuramente la guerra in corso, che mette in secondo piano la narrativa, In guerra e in pace viene accolto dalla più assoluta indifferenza dai critici letterari. Persino il quotidiano “L’Avvenire d’Italia”, di cui è stata a lungo collaboratrice, si limita a pubblicare un box pubblicitario dell’editore, la Società Anonima Tipografica vicentina, che reclamizza: “Pagine di eroismo e di umanità, dalla Libia alla Grande Guerra, dall’Oriente alla Spagna, pagine di geniali audacie e di singolari avventure; pagine di oscure dedizioni e di opere buone, tracciate da penna agile e vibrante”. Nonostante l’amicizia personale che lo lega all’autrice, l’editore non si peritò nemmeno di effettuare una messa a punto redazionale per ripulire il testo dai numerosi errori di grammatica e di sintassi, per tacere di termini che non trovano riscontro nel dizionario.
È abbastanza naturale che il lettore si chieda cosa possa avere indotto l’autrice a concepire questo romanzo, ma sarebbe necessario fare ricorso alla psicanalisi letteraria, materia che ignoriamo. Semplicisticamente, ci piace pensare che Antonietta lo abbia scritto per divertirsi assecondando la parte avventurosa della sua personalità; Adriano Michieli la ricorda fervente interventista contro l’Impero austro-ungarico, quando in ripetute occasioni porta documenti segreti attraverso le linee nemiche, e lei stessa, nel citato diario Vigilie (1914-1918) si compiace di annotare che durante una visita al fronte “hanno dato anche a me un elmetto e una maschera. Mi ha molto divertita provarmi l’elmetto e portare ad armacollo la maschera”.4 Michieli scrive che l’idea del romanzo risale agli anni 1933-1937 e che le fu ispirato “da persone vive e da fatti realmente accaduti, persone ch’ella molto ammirò per le loro singolari virtù; fatti, per necessità letteraria, un po’ romanzati, ma non comuni e curiosi”, nonché – segnatamente a Marin – “dalla conoscenza fatta in Treviso, vari anni innanzi, pei problemi della Protezione della Giovane, d’una personalità, che aveva avuto (come poi ancora ebbe) incarichi riservati ed eccezionali in varie famose vicende”.
Ci sono sufficienti ragioni per ritenere attendibile la fonte Michieli, perciò abbiamo fatto lo spoglio delle storie militari italiane coeve alla guerra di Spagna per cercare l’ufficiale che avrebbe potuto ispirare Antonietta e crediamo di identificarlo nel maggiore dei carabinieri Roberto De Blasio: in uno dei volumi5 figura con foto e relativa didascalia recante grado, nome e riferimenti ad azioni compiute che si conciliano con le vicende del romanzo. L’Ufficio Storico del Comando generale dell’Arma ci ha cortesemente informati che nacque a Napoli nel 1896, fu posto in congedo nel 1947 come generale di brigata e morì nel capoluogo partenopeo nel 1989. Abbiamo rintracciato a Napoli l’omonimo pronipote, custode della memoria del Generale, il quale ha appreso con stupore e curiosità dell’esistenza del libro. Dopo avere interpellato i familiari ci ha detto che tutti erano all’oscuro del singolare sodalizio, assicurandoci inoltre che nella corrispondenza del prozio non c’è niente al riguardo.
Note
- Unica figlia di una coppia colta e facoltosa Ludovica “Antonietta” Giacomelli (Treviso 1857 – Rovereto 1949) fu scrittrice, animatrice di circoli cattolici, attiva nel sociale e nelle problematiche femminili a inizio Novecento, fondatrice e guida del movimento scout in Trentino e in Italia. In mancanza di una sua biografia critica abbiamo attinto, salvo indicazione contraria, dall’appassionata rievocazione del sodale Adriano Augusto Michieli (1875-1959) Una Paladina del Bene. Antonietta Giacomelli (1857-1949), a cura dell’Accademia degli Agiati, Rovereto, 1954.
- A. Giacomelli, In guerra e in pace. Racconta una vecchia amica, Vicenza, Editrice S.A.T., 1941, ma finito di stampare il 28 dicembre 1940.
- L’assonanza con Giorgio Maren, importante figura del “diario” di Antonietta Vigilie (1914-1918), e con Giorgio Manin, figlio del patriota veneziano Daniele, sembra un velato omaggio al Risorgimento per il quale il padre di Antonietta combatté e soffrì il carcere, nonché alla madre cugina di Antonio Rosmini.
- A. Giacomelli, Vigilie (1914-1918), a cura di Saveria Chemotti, Padova, Il Poligrafo, 2014, p. 348 [Firenze, Bemporad, 1919] .
- F. Belforte, La campagna dei volontari italiani, 3, Milano, I.S.P.I., 1939, fronte p. 161.
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