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Il cuore ‘alluvionato’ dell’uomo: la felicità adesso
di , numero 55, giugno 2023, Note e Riflessioni, DOI

Il cuore ‘alluvionato’ dell’uomo: la felicità adesso
Come citare questo articolo:
Monica Fabbri, Il cuore ‘alluvionato’ dell’uomo: la felicità adesso, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 13, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10733


Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? (Cesare Pavese)

Non muoio neanche se mi ammazzano (Giovannino Guareschi)


Conversazioni

«Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere.»1

«La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da previdenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti»2


Affrontare un tema pressoché impossibile come la felicità può parere uno sforzo titanico. E lo è. Mi è sembrato più lieve dialogare con autori tra passato e presente. Il punto di partenza è l’incipit del Convivio di Dante, che si propone uno scopo prettamente didascalico e divulgativo, perché è scritto per tutti, anche per quelli che non conoscono il latino. Il poeta fiorentino si rifà ad Aristotele (lo Filosofo) con quella frase ad effetto che divenne il vessillo dei maestri di filosofia parigini di metà del XII secolo: tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. Poi ci spiega il perché in modo sintetico ed efficace: ogni realtà, improntata dalla Provvidenza, desidera ardentemente la piena realizzazione di sé e tutti noi siamo soggetti a questa brama di felicità. Dunque, attraverso la conoscenza, si giunge, almeno nel Convivio, a una soddisfazione, che è consapevolezza di sé, possibilità di capire la realtà e di scoprirne il senso o almeno svelarne il bagliore. La scienza diviene conoscenza acquisita a cui concorrono le diverse facoltà umane, prima tra tutte la memoria, come ci ricordano i versi del Paradiso:

«non fa scienza,/ sanza lo ritenere, avere inteso»3.

Questi versi si possono accostare alla definizione del sapere di Uguccione da Pisa, una sicura fonte dantesca:

« […] cioè sapere, avere scienza o conoscere è propriamente rendere ragione di ciò che conosci, conoscere, spiegare in profondità ciò che hai sentito dire. Da questo verbo deriva il nome scienza, e la scienza sussiste solo nel bene, mentre di esperienza si può parlare anche nel male, e questa è la sua definizione: scienza è un virtuoso possesso dell’animo che si accresce quando si condivide, e disdegnando un possessore avaro, svanisce presto se non è distribuita […]».4

Dunque saper rendere ragione, comprendere quello che si sente dire (importanza dell’ascolto), ma soprattutto condividere e distribuire, perché, se si è avari, la scienza svanisce. Per Dante tutte le scienze partecipano della Filosofia-Sapienza. Chi abbraccia la Filosofia per utilità o diletto e non per amore, ricorda Dante, non è vero Filosofo. Nel Convivio Dante condivide l’idea di una beatitudine partecipata sulla terra, e quindi in qualche modo oggettivamente imperfetta. Se l’uomo desiderasse conoscere in questa vita l’essenza divina, cadrebbe in un “errore” in senso etimologico, cioè si allontanerebbe dalla retta via della natura coltivando un desiderio irrazionale. Dante esprime la questione in modo sintetico ma efficace nei versi:

«State contenti, umana gente, al quia; ché se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria»5

Il desiderio del sapere non è uno, ma è costituito da una successione di molti desideri, appagato uno dei quali, se ne presenta un altro (finito l’uno, viene l’altro). Dunque il suo aumentare (dilatare) in senso stretto (propriamente parlando) non è un crescere, ma un passaggio discontinuo (successione) dal piccolo al grande (di piccola cosa in grande cosa).

«Alla questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo desiderio della scienza dire non si può, avvenga che come detto è, per alcun modo si dilati. Ché quello che propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l’uno viene l’altro; sì che, propriamente parlando non crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola in grande cosa»6.

La trasformazione poetica di un simile concetto è visibile nei versi:

«Nasce per quello, a guisa di rampollo,  a piè del vero il dubbio; ed è natura  ch’al sommo pinge noi di collo in collo»7.    

Se non si raggiunge la conoscenza e dunque la scienza, non si ottiene la felicità: le cause possono essere molteplici e trascendono le possibilità e le volontà individuali. Leopardi dialoga con lui in tanti passaggi dello Zibaldone e qui mi limiterò solo a citarne uno:

«Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur arco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perché il suo amor proprio [amore della propria persona] non cesserà, e perché quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stessi più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contenti, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felici, né in questo mondo, né in un altro»8.

Quindi, Dante carissimo, non è così: la scienza non appaga, perché l’uomo ha un cuore che ama senza limiti e ottiene solo cose finite e, qualunque sia il nostro stato, proprio per amore di noi stessi, desideriamo qualcosa di più: la felicità è contentezza del proprio modo di essere, amore perfetto del proprio stato, che non basta mai né in questo mondo né in un altro. Ecco che si fa strada la voce di Maria Zambrano9.

«Per la vita, conoscere è sempre ricordare e l’ignoranza appare interamente sotto forma di oblio. Forse perché la memoria è il modo di conoscenza più prossimo alla vita, dispensatrice di una verità in una forma che essa possa consumare come appropriazione temporale […] La realtà infatti ci circonda, eppure bisogna cercarla, non è sufficiente che ci sia: forse non c’è finché non ci siamo predisposti a riceverla»10.

Ritorna la parola conoscenza, il fil rouge dantesco, la scienza, affiancata dalla memoria, necessaria per affondare le mani nella realtà («non fa scienza/sanza lo ritener aver inteso»). Il punto di ri-partenza per la Zambrano sono Le Confessioni di Sant’Agostino, non solo valido e innovativo genere letterario, ma vero e proprio metodo pedagogico per recuperare la verità di sé e del mondo.

«Nell’incubo dell’esistenza ci sentiamo isolati, senza possibilità di comunicazione: come negli incubi, gridiamo e nessuno ci sente. Da qui a sentirci perseguitati ci passa poco. E nel fondo dell’animo europeo degli ultimi tempi giace la mania persecutoria, mania persecutoria originata più che da qualche shock fisico o psichico, dalla tremenda situazione di isolamento dall’impenetrabilità che si era impadronita della nostra vita»11.

Come non sentire in queste parole il riverbero della situazione pandemica che ha aperto violentemente il 2020? Soli, isolati, sperduti dentro riquadri minuscoli da cui uscivano volti deformati e voci metalliche.

«Non si può in alcun modo custodire la verità per uno solo, perché quando la si trova, la si trova già condivisa»12.

Necessità di condividere la conoscenza, come ci raccontavano Dante e Uguccione, urgenza di tramandare il vero delle cose, quasi come se fosse un’esigenza originale del cuore dell’uomo. E ancora:

«La vita smette di essere incubo quando si è ristabilito il vincolo filiale, quando abbiamo ritrovato il Padre e anche i fratelli; quando siamo in grado di rispondere alla tremenda domanda “ Che ne è stato di tuo fratello?”»13.

Questa riflessione potente della Zambrano presenta infinite connessioni nella memoria collettiva e individuale. A me viene in mente la “Città democratica” di Diario clandestino di Giovannino Guareschi: l’8 settembre 1943, lo scrittore, allora tenente di artiglieria, non presta giuramento di fedeltà alla RSI e viene deportato nei campi di concentramento nazisti. Nei due anni di prigionia che seguiranno annoterà la vita nei lager, le vicende degli altri prigionieri e le sue osservazioni14. Egli si propose di divenire la memoria collettiva degli IMI, dei reduci, dimenticati e abbandonati a se stessi. In quell’inferno del lager imparò a condividere, a guardare i fratelli, a commemorare i morti, leggendo Dante, il viaggio di Ulisse, scambiandosi le vite.

«Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire»15.

Il lager diventa, in un rovesciamento a dir poco paradossale, la possibilità di rapporto, di legame, di memoria, di umanità.

«Si tratta quindi di trovare il punto di contatto tra la vita e la verità»16.

Adesso
La Zambrano definisce l’uomo moderno, un tempo fiducioso per le scoperte scientifiche, confuso e abbandonato: un individuo che annaspa in mezzo alle molteplici definizioni della società contemporanea e non si sente più vocato, chiamato per qualcosa o qualcuno.

«La spaventosa faccia dell’attualità, non ci presenta forse questa immagine di mondo senza soggetto, in cui il soggetto è sparito, in cui l’io vaga errante come un re senza sudditi né regno, in cui non esiste da nessuna parte quel qualcuno responsabile, quel qualcuno in possesso di identità e di figura propria?»17

Se penso alla realtà di adesso, ai fiumi che con veemenza hanno invaso le strade, le case, le fabbriche, la vita della mia Romagna, questa domanda della Zambrano è come un tarlo che rode. Conversando anche io con lei, le risponderei di petto: no, non è così. Ho visto ragazzi pieni di fango, desiderosi di esserci e dare una mano, scrostare per ore pareti, pulire bulloni, tirare fuori secchiate d’acqua. Di fronte al bisogno li senti fratelli, alcuni cantano, altri lavorano in silenzio. Non tutti reagiscono in questo modo, c’è chi si muove sdegnoso, indignato, arrabbiato (come dargli torto). Ho visto paesi dove i parroci riprendono ad essere Don Camillo, burberi, ma accoglienti e lavorano gomito a gomito con il sindaco, novello Peppone. E paesi con ancora l’acqua stagnante, che non consente di attivare la corrente elettrica ed è la causa di un inevitabile pericolo sanitario, ma non è entrata in chiesa. Lì dentro il parroco ha attivato un gruppo elettrogeno che ricarica tutto il paese. Una luce dentro al buio e al fango, uno squarcio di speranza. Ci sono ragazzi che aiutano gli sfollati e la Croce Rossa è così colpita che chiede loro una mano. La realtà chiama, urla, ma è al cuore ‘alluvionato’ dell’uomo che spetta di rispondere, cioè di essere responsabile di sé e di ciò che accade. Un popolo ferito è sceso nel fango per aiutare un amico, un fratello, ma anche degli sconosciuti. La Zambrano dice di Sant’Agostino:

«Non volle riavere il proprio cuore, bensì renderlo totalmente schiavo, talmente desiderava riconsegnarlo al legittimo padrone. Ciò che voleva non era il cuore fattosi specchio per riflettere il mondo, ma il cuore trasparente; il cuore attraversato dalla luce, che vive nella luce»18

Che si scopre nel fango? Difficile poterlo dire, la risposta è dentro ai nostri cuori ‘alluvionati’. Ma mi piace cantare con Ernia19: «Cerco qualcosa di grande, che resti».

Bibliografia
Dante 2019 = Dante, Convivio a cura di Gianfranco Fioravanti; Canzoni a cura di Claudio Giunta, Milano, Mondadori.
Guareschi 1996 = Giovannino Guareschi, Diario clandestino, Milano,Rizzoli.
Leopardi 2022= Giacomo Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori.
Zambrano 1995 = Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Milano, Mondadori.

Note

  1. Dante, Cv I I 1. I passi del Convivio (Cv) sono tratti dall’ed. Fioravanti, 2019. Πάντες ἄνθροποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φυσει. (Aristotele, Metaph. I I1, 980a 20).
  2. Cv I I 1. Se si esamina il passo dell’opera di Tommaso Summa Theologiae I-II, q. 3 a. 6 arg. 2 con la concordanza Omnes homines natura scire desiderant , colpisce la frase conclusiva: «Ergo in consideratione scientiarum speculativarum consistit beatitudo». Il termine beatitudo ha come principale traduzione in italiano felicità, la felicitade del Convivio.
  3. Dante, Pd IV 41.
  4. Uguccione da Pisa, Derivationes, s.v. Scio. [1] SCIO -is -ivi scitum, idest sapere, scientiam habere vel cognoscere, et est proprie scire reddere rationem quam noveris, nosse vero tantum que audieris; unde hec scientia, et est scientia tantum in bono, experientia etiam in malo dici potest; et diffìnitur sic: scientia est nobilis possessio animi que distributa suscipit incrementum, et avarum dedignata possessorem nisi publicetur cito elabitur; […]
  5. Dante, Pg. III 37-39.
  6. Dante, Cv IV XII 1.
  7. Dante, Pd. IV 129-132.
  8. Leopardi 2022, p. 122.
  9. Maria Zambrano (1904-1991) è una delle più grandi intellettuali del XX secolo. Allieva del filosofo Ortega y Gasset, visse in esilio in Italia per essersi opposta a Francisco Franco. Ritornò in Spagna nel 1984. Alcune delle sue opere tradotte in italiano sono: I sogni e il tempo (De Luca, Roma 1960), I beati (Feltrinelli, Milano 1992), La tomba di Antigone (La Tartaruga, Milano 1995), La confessione come genere letterario (Mondadori, Milano 1995) Verso un sapere dell’anima (Cortina, Milano 1996).
  10. Zambrano 1995, p. 53.
  11. Zambrano 1995, p. 61.
  12. Zambrano 1995, p. 63.
  13. Zambrano 1995, p. 65.
  14. Il grande diario, uscito sessant’anni dopo e frutto di un attento lavoro di ricostruzione da parte dei figli, raccoglie queste testimonianze che ormai sono storia. Una storia che però non è mai quella ufficiale, “interpretata a seconda del regime politico dominante”, ma è quella di un uomo che non si è mai piegato al potere e che ha trovato nella scrittura la forza per affrontare e superare anche i momenti più oscuri.
  15. Guareschi 1996, p. XII.
  16. Zambrano 1995, p. 45.
  17. Zambrano 1995, p. 108.
  18. Zambrano 1995, p. 60.
  19. Rapper italiano il cui vero nome è Matteo Professione. Una delle sue canzoni più famose è Qualcosa che manca.

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