Bibliomanie

Pascal come ermeneuta di Gesù. Riscrivendo i Vangeli nel Seicento
di , numero 55, giugno 2023, Note e Riflessioni, DOI

Pascal come ermeneuta di Gesù. Riscrivendo i <em>Vangeli</em> nel Seicento
Come citare questo articolo:
Davide Monda, Pascal come ermeneuta di Gesù. Riscrivendo i Vangeli nel Seicento, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 18, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10826


Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
C. Campo, Attenzione e poesia (1961), in Ead., Gli imperdonabili, 1987

L’elemento centrale della visione religiosa biblica in generale e cristiana in particolare […] è stato formulato teologicamente con il termine incarnazione, sulla scia di quella celebre affermazione del prologo del Vangelo di Giovanni: ho Lógos sárx eghéneto, “la Parola carne divenne” (1, 14). La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e redentrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù di Nazaret, la divinità s’irradia nella storia. Le due sfere dell’umano e del divino in Gesù Cristo entrano in collisione, ma non per un’esplosione di rigetto bensì per un abbraccio.
G. Ravasi, Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli, 2019

Da allora, del tempo è certo trascorso. E per quanto molte cose siano passate da quel secolo che Pascal assunse in proprio, il fatto che il Seicento fu il primo secolo «moderno» richiama a una vicinanza che non può essere elusa, al solo pensare che il Seicento fu il secolo di Galileo e della nuova scienza, il secolo di Cartesio e del suo metodo; il secolo del Barocco e del Classicismo; il secolo dell’assolutismo, della “Ragion di stato” e delle Fronde; il secolo che assume l’eresia come problema nell’età delle confessionalizzazioni dentro la rottura della Cristianità europea.
D. Bosco, Uno sguardo d’insieme, in Id. (a cura di), B. Pascal, Opere. Edizione integrale, a cura di D. Bosco, 2022


1. Quando, non troppo tempo fa, lessi adagio e con la massima cura datami La philosophie comme manière de vivre (2002) di Pierre Hadot1 – uno dei maggiori studiosi, inter alia, di stoicismo, neostoicismo e neoplatonismo antichi del secolo passato –, non tardai a intuire che si trattava di un’opera affatto speciale, e che, in futuro, avrei sentito irrefrenabile la necessità, di quando in quando, di ripensare quelle pagine a un tempo dense, cristalline, centellinate e, soprattutto, vissute con vigilatissimo entusiasmo.
Era come discorrere, finalmente senza troppe mediazioni, con questo anziano, venerabile maestro d’intelligenza e finezza, oggi, straordinarie, che avevo conosciuto solo attraverso altri volumi sì dottissimi, accattivanti e, non di rado, luminosi, ma inevitabilmente lontani dallo spirito, dai ritmi e dai modi del colloquio o, in altri termini, dalla levità pensosa e dall’edificante serenità che caratterizzano i più genuini e fecondi dialoghi artistici, filosofici e spirituali.
Coltissimo, perspicace e suadente, nonché agli antipodi di ogni pedantismo grettamente specialistico, Pierre Hadot, mai trascurando le difficoltà e i limiti tipici delle coscienze non ancora iniziate al senso più profondo e vivo della filosofia classica, esorta il suo lettore – pur con lucidità, pazienza e pacatezza serafiche – a trasformarsi radicalmente. L’eminente studioso elargisce, in tal maniera, una lectio complessiva di valore inestimabile, la quale, se meditata con la maturità e la serietà ineludibili che de facto pretende, è in grado d’infondere nell’animo una Weltanschauung limpida, gratificante, del tutto libera da condizionamenti inutili o avvilenti per la persona dotata di senso critico, nonché un’apertura cognitiva e affettiva ben disposta a individuare e a fruire, con discernimento e responsabilità, quanto di meglio questo mondo può offrire: in una parola, elementi fondamentali per il perfezionamento globale di se stessi.
Così, a chiunque ricerchi orizzonti di senso evitando di adagiarsi, più o meno pigramente, sulle tradizionali, consacrate architetture – sistematiche o meno poco importa – che lo sviluppo del pensiero ha via via partorito, Hadot propone orientamenti speculativi ed esistenziali di vigore e rilevanza tutt’affatto notevoli.
D’altronde, al di là di quella maniera garbatissima e, spesse volte, sorridente di porgere temi e interrogativi che è tipica di molti fra i più valenti hommes de lettres, di parecchi fra gli autentici gentiluomini dello spirito, a chi legge non viene certamente chiesto poco: un severo, inesorabile ripensamento, un’autentica palingenesi della propria gerarchia di valori, che mai può disgiungersi da uno sforzo autoanalitico diuturno e intransigente, volto a prendersi davvero cura di se stessi, specie attraverso la pratica di quegli “esercizi spirituali” che – con buona pace di quanto molti ritengono ancora – furono introdotti dagli stoici greci e non già dai cristiani, e che possono comunque contribuire formidabilmente alla costruzione di un’esistenza più razionale e ragionevole, più significativa e gratificante.
Inoltre, questo storico della filosofia geniale quanto anticonformista ha chiarito una volta per tutte che, nell’antichità greco-romana, non si doveva necessariamente elaborare una costruzione teoretica originale per esser definiti e considerati filosofi, né si doveva essere per forza al corrente delle opinioni degli altri pensatori, ora più ora meno in voga. Per essere filosofi, al contrario, occorreva sottoscrivere soltanto – ma non è certo un’inezia – un modus vivendi et cogitandi decisamente particolare, sensibilmente diverso da quello degli altri: si trattava, in estrema sintesi, di far proprio uno stile di vita interamente consacrato alla ricerca di saggezza e sapienza.
Ora, accettando questo punto di vista classico tout court, pure oggi un individuo potrebbe essere un pensatore originale, oppure un suo valido, rispettabilissimo epigono, ma non essere un filosofo… Nella Grecia e nella Roma dei “padri fondatori” del pensiero occidentale, a parlar franco, non bastava elaborare un complesso inedito ed organico d’idee, ma bisognava altresì – anzi soprattutto – abbracciare tota mente e toto corde un nuovo modo di essere-nel-mondo (per dirla con l’Heidegger di Sein und Zeit, non così distante, in fondo, da tali prospettive), derivante da una vera e propria conversione di natura etica e metafisica.
A differenza di quelli testé evocati, questo libro è pervaso e palpitante di idee, passioni e suggestioni genuinamente, inconfondibilmente cristiane; per di più, l’opera principale qui accolta è sì legata a filo doppio alla tradizione degli esercizi spirituali, ma a quella propria della più alta e vitale cultura cattolica.
Comunque sia, sono del parere che le pagine che il lettore ha fra le mani possano schiudergli spunti e motivi di riflessione non troppo dissimili da quelli a cui Pierre Hadot ha consacrato gran parte della sua lunga, rivoluzionaria parabola scientifica ed esistenziale.

2. Per avvicinarsi allo spirito a un tempo tormentato, abissale e fulgido dei due testi qui offerti, il lettore potrebbe sfogliare con raro quanto cristallino profitto un breve romanzo di qualità, Tutte le mattine del mondo, oppur vedere e ponderare il film omonimo che ne è stato tratto, giacché, una volta tanto, le esperienze mi paiono, di fatto, equivalenti.
Come che sia, tanto da Tous les matins du monde (1991) di Pascal Quignard – uno scrittore di cultura e raffinatezza non comuni che, grazie a intelligenti operazioni editoriali, non ha oramai più bisogno di presentazioni per il pubblico italiano –, come dalla pellicola che ne rielabora impeccabilmente la sostanza, si staglia netta e precisa la figura del Signore di Sainte Colombe, un musicista francese fiorito nella seconda metà del Seicento, di cui le fonti del tempo ci narrano peraltro assai poco (non conosciamo neppure il suo nome di battesimo…).
Rielaborando sapientemente i pochi dati pervenuti su questo virtuoso della viola da gamba – in primis et ante omnia le notizie contenute nel monumentale Parnasse françois (Paris, 1732, pp. 624-627) di Evérard Titon du Tillet –, Pascal Quignard ha saputo comunque dipingere, in pagine essenziali e meditate, un personaggio davvero straordinario: di questo stoico-cristiano di prim’ordine, di quest’uomo irreprensibile e alieno da ogni forma di successo mondano, che ha sposato non per caso toto pectore un Cristianesimo di stampo dichiaratamente giansenista, mi hanno colpito in special modo il rigore pressoché inflessibile, la severità magnanima, l’intensa, ineffabile profondità di sentimenti.
Nell’intento di presentare un’immagine lato sensu fedele del personaggio, gioverebbe senz’altro trascrivere o, quanto meno, parafrasare i passi più pregnanti del libro. Non essendo però qui possibile procedere in tal senso, mi limiterò a dire che disegnano, anzitutto, il rapporto di Sainte Colombe con la musica, un’arte che sa dischiudergli – nella misura in cui egli la intende e la pratica con la severità ferrea e inesorabile ch’essa pretende – prospettive e panorami liberi dall’imperfezione dispoticamente imposta alla stirpe umana dal peccato adamico. Ricercando senza posa sulle sette corde del suo strumento non tanto quelle tecniche e quelle melodie inedite, geniali e sorprendenti che pure elabora, ma l’autentico significato della vita e della morte, l’austero e spigoloso violista giunge al punto di far rivivere – ma solo per pochi, sporadici momenti – la consorte defunta, verso la quale mai ha cessato di provare un amore ideale, infinito, eterno.
Per esprimere adeguatamente tale sentire di forza ed altezza virilmente struggenti, invincibili, universali, Quignard sembra essersi ispirato, inter alia, all’amour esemplare e imperituro di Maurice Scève – insigne poeta e pensatore lionese del Rinascimento a cui il narratore ha dedicato un libro di rilievo (La parole de la Délie, Mercure de France, Paris, 1974) – nei confronti della sua neoplatonica Beatrice (la poetessa Pernette du Guillet, morta a soli venticinque anni), ed altresì ai tormenti, agli entusiasmi, agli “eroici furori” di Frenhofer, il protagonista a un tempo divino e diabolico di quel breviario quasi profetico dell’arte contemporanea che è Il capolavoro sconosciuto (1831) di Honoré de Balzac.

3. Ma, venendo ora a Blaise Pascal, va subito notato che, oggigiorno, egli è noto e apprezzato a livello internazionale soprattutto come un grande, ineguagliabile “moralista classico”.
Che cos’è, nell’accezione migliore del termine, un moralista? Come abbiamo illustrato altrove2 e come, del resto, ogni cittadino europeo di cultura non ignora, sembra lecito definirlo, con buona approssimazione, un singolare e accattivante homme de lettres che s’interroga – liberamente, lucidamente, sempre criticamente – sui vizi e le virtù degli uomini, sulle loro azioni e, in special modo, sulle ragioni effettive che le muovono e le animano. Giova rimarcare, inoltre, che numerosi fra i moralisti più originali e fortunati hanno brillato per sapienza compositiva, eccellendo perlopiù nell’uso di forme brevi quali la massima, l’aforisma, il frammento, il pensiero staccato et similia.
Pascal ha da essere, allora, ritenuto un moralista? Senza dubbio, così come hanno evidenziato non pochi suoi valenti studiosi. E non scarse né epidermiche sembrano le somiglianze di stile e di pensiero rispetto ai “fari” della precedente scrittura moralistica di Francia: talune sue considerazioni appaiono vicine alla sottile, irrequieta perspicacia psicologica e antropologica tipica del suo autore par excellence, Michel de Montaigne; un certo suo amaro, acuminato disinganno verso la condizione umana e le mille e mille maschere dietro cui, quasi irresistibilmente, si cela ha qualcosa in comune con quello del duca di La Rochefoucauld; la sua arte scaltrita e seducente nella descrizione di “paesaggi dell’anima” e di tipi umani significativi può far tornare alla mente il miglior La Bruyère, laddove il suo amore virile e stoicheggiante per la virtù è prossimo ai generosi ideali del marchese di Vauvenargues.
D’altro canto, sarebbe assai riduttivo, anzi – per molte evidenze inconcusse – impensabile e, dunque, ingiustificabile considerare l’intera sua ricerca intellettuale esclusivamente legata a questa pur pregevole modalità espressiva.
Come sottacere difatti che Pascal è, anzitutto, l’autore di un’apologia lato sensu sistematica del Cristianesimo che, per più ragioni di vario ordine, non poté veder la luce? Come poi negligere che quanto di lui ci resta – alludo, va da sé, tanto agli scritti di matematica e di fisica quanto ai numerosi ed eterogenei scritti teologici – ha carattere prevalentemente scientifico? Che pure in quasi tutti questi lavori si avverta – e di frequente – il piglio di un moralista sopraffino è altro discorso.
A onor del vero, ci troviamo dinanzi a un pensatore a tutto tondo, a un “uomo universale” secentesco che, quantunque sensibilissimo alle più diverse branche dello scibile e versato in parecchie di esse, concentrò tuttavia (dal 1654 al trapasso) le sue migliori energie sulle scienze religiose. Ciò non gli impedì, ad ogni modo, di apportare, prima e dopo la “seconda conversione”, contributi originali in parecchi altri campi, quali le scienze esatte, la morale, la letteratura, la polemistica etc.
È d’altronde un fatto che il lettore rigidamente laico resta di solito colpito in specie dal Pascal moraliste, dal superbo chirurgo dell’anima che ritrae personaggi e atteggiamenti che, dal suo punto di vista, risultano ictu oculi colpevoli e condannabili dal Cielo, se non dalla terra: volgo la mente, in primis, a certi “mondani” compiaciuti e paghi entro il proprio nulla etico e metafisico, a certe gestioni dei “poteri forti” che non perdono occasione per mostrarsi ingiuste, corrotte, crudeli e, alle volte, sadiche tout court, o a certi laidi individui assurdamente privilegiati dal proprio contesto sociale.
Di questi e di mille altri “tipi umani”, così come di un repertorio vario e vasto di sentimenti e comportamenti affatto negativi, Pascal svela e denuncia le immense debolezze e le risibili vittorie, l’inconsistenza e la meschinità, le immoralità patenti e le vacue aspirazioni, i tratti – in una parola – meno belli e stimabili, dimostrando così, fra l’altro, come queste sfaccettature fosche e conturbate della fenomenologia dell’umano siano del tutto inconciliabili con ogni coscienza degna e lealmente cristiana.
D’altra parte, quantunque un formidabile talento psicologico – penetrante quanto tendenzioso – e una soppesata conoscenza delle cose del mondo inducano spesse volte il nostro nobilissimo pessimista a indugiare su peculiarità dell’animo e dell’humana condicio tutt’altro che solari, encomiabili e confortanti, portandolo finanche a scandagliare senza pietà taluni dei penetrali più cupi, reconditi e perturbanti del nostro “foro interno”, egli non vuole però concentrarsi esclusivamente su caratteri, azioni e affetti negativi o comunque sconfortanti, aspirando viceversa a comunicare, in numerosi dei suoi “ritratti” e, più in generale, dei suoi “esercizi di pensiero”, riflessioni di valore etico-spirituale incoraggianti, positive, vivificanti, che quasi sempre – è notorio – si propongono di esortare chiunque legga (ma in primis quei “lassisti” e quei “libertini eruditi” che ben conosceva e che voleva a tutti i costi correggere) a convertirsi, a prendere coscienza sino in fondo che qualunque percorso esistenziale può evitare un esito tragico, un naufragio fatale e senza speranza solo seguendo con fervida e incessante fiducia le coordinate e gli orientamenti di ordine giuridico, morale e religioso liberalmente elargiti da Dio a beneficio di ogni “uomo di buona volontà”.
Nella sua memorabile premessa (1931) alle Pensées, un protagonista della Res publica litterarum novecentesca di profonda fede cattolica come Thomas Stearns Eliot ebbe a stendere notazioni che rischiarano con partecipe acutezza il sentiero esistenziale e speculativo del Nostro: «Veramente, per la sua combinazione unica, per l’equilibrio di qualità diverse, non conosco altro scrittore religioso più opportuno per il nostro tempo. […] Non posso pensare a un altro scrittore cristiano che possa essere più di Pascal consigliato a coloro che dubitano, ma che hanno intelletto per intendere, e sensibilità per sentire, il disordine, la futilità, l’insensatezza, il mistero della vita e della sofferenza, e che possono trovare pace soltanto nella soddisfazione dell’intero essere».
L’originalissimo, perturbato travaglio filosofico e teologico del Nostro, mai disgiunto da quell’appassionata quanto giudiziosa carica stilistica che, pur in maniere e misure non di rado assai differenti, anima e vivifica ogni sua pagina, fa dunque dei suoi opera omnia un patrimonio inestimabile, ancora in grado come pochi di suscitare e, perfino, di scatenare emozioni, interessi, ricerche e dialoghi sui “massimi sistemi” non superficiali né effimeri.
Non per nulla l’universalità intransigente, ardita, vertiginosa della lectio pascaliana, così come la sua superba, inimitabile perizia scrittoria, hanno colpito l’intelligenza e la sensibilità di numerosi scrittori e filosofi de race. In una delle sue ultime prose uscite – difficilmente obliabile per sagacia critica, rarissima avis in quest’epoca di miseria –, Giovanni Raboni ha delineato con splendide parole la fragile potenza, la sorvegliata vivacità tipiche del miglior dettato pascaliano:

Un grande pensatore? Un grande polemista? Un grande osservatore dell’animo umano, dei comportamenti, delle leggi sociali? Un grande testimone della parola di Gesù e della crucialità dell’esperienza della croce? Non c’è dubbio, Pascal è stato volta a volta, e non di rado contemporaneamente, tutte queste cose. Ma se è così – e, soprattutto, se sappiamo che è così, se siamo fisicamente in grado, appunto, di non dubitarne – è perché è stato anche e in primo luogo un grande, un grandissimo scrittore. Senza Pascal, si dice, non ci sarebbero stati né il teatro di Racine, né la prosa illuministica; e suppongo che sia vero. Ma per chi lo legge, nel modo che a me è sempre sembrato l’unico modo naturale o, meglio, l’unico modo veramente possibile, cioè come uno scrittore senza tempo, come un contemporaneo del nostro cuore e soltanto del nostro cuore, ciò che conta più di tutto è l’incessante, febbrile mobilità della sua prosa, la sua capacità di aderire momento per momento, senza produrre scorie, senza il minimo spreco di sonorità o di immagini, a tutte le necessità, le emergenze, i soprassalti dell’immaginazione e del pensiero3.

Non è un mistero, poi, che la figura di Gesù Cristo rappresenti il cuore pulsante e vivificante del pensiero e dell’impegno religiosi di Blaise Pascal, nonché di tutto quello che, nella mirifica congerie dei suoi “parti mentali”, così sovente lasciati a mezzo, gli stava con ogni probabilità più a cuore; fra gli scritti che attestano la sua lucida passione verso il Cristo, giova qui menzionare, per lo meno, un folto gruppo di Pensieri stupendi, travolgenti ed amatissimi in tutto l’orbe terracqueo; il Mistero di Gesù, un capo d’opera di vitalità, respiro, valore eccelsi e, nel contempo, disarmanti che, fortunatamente, si può trovare adesso in tutte le edizioni più diffuse dei Pensieri; e – last but non least – quel Compendio della vita di Gesù Cristo su cui concentrerò, fra breve, il fuoco della mia attenzione.
Come dichiarò Charles-Augustin Sainte-Beuve – uno dei conoscitori più esperti e perspicaci, com’è risaputo, non solo del Nostro, ma del milieu portorealista nel suo complesso – recensendo da par suo l’industriosa “edizione Havet” delle Pensées, «lo stile concitato con cui questo grande spirito, nella sofferenza e nella preghiera, ci parla di quanto v’è di più peculiare nella religione – di Gesù Cristo in persona – è fatto per conquistare tutti i cuori, per infondere in essi un non so che di profondo, ed imprimervi per sempre un rispetto commosso. Si può rimanere increduli dopo aver letto Pascal, ma non sono più permessi né lo scherno né la bestemmia. In tal senso, è ben vero ch’egli ha vinto, da un certo punto di vista, lo spirito del Settecento e di Voltaire»4.
La centralità evidentissima e rutilante della figura di Cristo nell’itinerario speculativo, spirituale ed umano del Nostro, nonché il suo ardente desiderio di rendere partecipe il prossimo del valore inestimabile presente nella parola così come nell’esperienza terrena del “Figlio dell’uomo”, è stata colta ottimamente da un altro grande accademico di Francia, Henri Bremond, il quale, nel volume consacrato a Port-Royal (1920) della sua monumentale Histoire littéraire du sentiment religieux en France, asserì non senza simpatetico trasporto: «Sono persuaso che il migliore, che il vero Pascal sia tutto quanto nostro: lo è per tutto quel che c’è di veramente unico nei Pensieri; lo è per i principi primi della sua apologetica vittoriosa; lo è ancor più per l’incomparabile testimonianza resa alla persona del nostro Cristo. […] Se Pascal ha creduto di cercare, in un primo tempo, il Cristo di Giansenio, ha di certo trovato poi il Cristo del Vangelo e della Chiesa, quello che ci ha insegnato il Pater noster, quello ch’è morto per tutti gli uomini. Credo si possa affermare senza esagerazioni che nessuno, da parecchi secoli, che nessuno come Pascal ci abbia convinti della realtà e dell’amore del Redentore, dell’Uomo-Dio. E senza artifici, senza eloquenza, finanche senza poesia. “è così poco declamatorio, ma così vero”, diceva di lui Maine de Biran».

4. Depositato presso la biblioteca di Saint-Germain-des-Prés il 25 settembre del 1711 dall’abate Louis Périer, nipote di Pascal, l’originale dell’Abrégé de la vie de Jésus-Christ di Pascal andò perduto in circostanze mai chiarite. Venne ritrovato solo nel 1845 ad Utrecht da un ecclesiastico olandese, Van der Hoeven: si trattava, peraltro, di una copia, ch’era stata vergata da un’amica e corrispondente della dotta nipote del pensatore, Marguerite Périer (1646-1733), ora nota soprattutto per il breve ma denso Mémoire concernant Monsieur Pascal et sa famille. Dopo una prima, approssimativa pubblicazione su rivista, l’opuscolo fu prontamente editato (1846) dall’infaticabile Prosper Faugère, oggi ricordato essenzialmente per il laborioso compimento della prima, pionieristica edizione scientifica delle Pensées.
A prima vista, ci si trova dinanzi a una succinta e schematica Vita Christi che, scevra di ogni pretesa letteraria, si compone di articoli disposti secondo l’ordine cronologico e puntualmente numerati. Pur senza abbandonare quelle abilità dialettiche e retoriche che sapeva orchestrare con arte consumata e personalissima a un tempo, il nostro homme de plume sembra qui muoversi adottando una semplicità cristallina, disarmante e – verrebbe da dire – quasi zen, fedele com’è all’essenzialità scabra quanto incisiva del dettato neotestamentario.
E tuttavia, considerando quest’armonia evangelica in maniera meno distratta ed epidermica, dall’importante premessa sino all’ultimo frammento emergono inconfondibili diversi tratti determinanti della personalità e dello stile pascaliani: conviene menzionare almeno la formazione spirituale, le letture predilette, la dispositio serrata, volta a conferire esattezza insieme logica e cronologica all’esposizione, alcune fra le esigenze antropologiche, etiche ed escatologiche caratteristiche della sua Weltanschauung perturbata e affannosa, nonché una singolare e, perlopiù, efficacissima potenza drammatica.
Non è questa la sede per ragionare di due problemi tecnici e, per giunta, piuttosto spinosi quali la datazione e le fonti reali dell’opera. Fermo restando che si tratta di vexatae quaestiones ancora sub iudice, mi limiterò dunque a riferire le affidabili, recenti posizioni di Michel Le Guern (2000): quanto alla prima, «l’ipotesi di una redazione in due tempi […] è quella che meglio resiste alle obiezioni: il lavoro cominciato nel 1649 […] sarebbe stato poi ripreso alla fine del 1654 o all’inizio del 1655»; circa invece la seconda, oltre beninteso la Bibbia, Pascal utilizzò sicuramente e abbondantemente il Tetrateuchus del famoso Giansenio, un ampio e dovizioso commentario ai Vangeli più volte ristampato anche a Parigi, ma, in misura ancor maggiore, la Series vitae Jesu-Christi juxta ordinem temporum, un riassunto cronologico della vita del Messia posposta al Tetrateuchus: in effetti, spiega lo studioso, «il lavoro di composizione dell’Abrégé è un lavoro di amplificazione basato sulla Series. Pascal la traduce, vi aggiunge precisazioni di carattere cronologico, ne colma le lacune con citazioni dai vangeli, e quindi l’arricchisce con reminiscenze liturgiche e commenti tratti dallo stesso Tetrateuchus».
Non troppo agevole, ancora, è individuare le ragioni effettive che spinsero Pascal a comporre quest’atipica fatica compilativa: pur senza escluderne un uso privato (chiarificazione delle rilevanze essenziali in merito al Messia, meditazione, edificazione etico-spirituale), diversi elementi – a cominciare dalla Premessa – paiono indicare con evidenza e univocità anche un intento di pubblicazione, che mirava probabilmente a fini didattici e parenetici (a vantaggio, in primis, delle Petites écoles di Port-Royal), oppure a porre fondamenti più solidi e sicuri per una nuova traduzione dei Vangeli.
Sebbene diversi dati di varia natura ne rivelino incontestabilmente l’incompiutezza, l’operetta manifesta con chiarezza inconfutabile, anche nello stato in cui ci è giunta, una vocazione insieme storica e interpretativa: nei 354 articoli di cui consta, infatti, si riscontrano ora citazioni dirette dalle Sacre Scritture, ora parafrasi, ora sintesi, ora notazioni squisitamente esegetiche ed ermeneutiche, che mostrano talora – a dispetto del genere letterario prescelto e forse, in qualche caso, della stessa voluntas auctoris – un ingegno e un’originalità specie formale tutt’altro che comuni e scontati. «La regia discreta di Pascal – ha constatato anni or sono (1986) Benedetta Papàsogli con la consueta finezza di penna e di pensiero, interrogandosi sul «segreto di questo testo» – si manifesta soltanto nel rilievo dato ai fatti più che alle parole evangeliche, o, più semplicemente, nell’aggregare o spezzare i versetti, come variando un ritmo: ciò permette i “primi piani” lenti, intensissimi, delle scene della passione: ad esempio, la scena dell’orto, ove ogni gesto del Cristo è isolato, contemplato, assaporato: un massimo di emozione corrisponde al minimo dei mezzi letterari impiegati».
Fra i numerosi meriti dell’eruditissima e, per tanti versi, insuperata edizione dell’Abrégé di Jean Mesnard (1991), vi è quello di averne sottolineato con lucida energia la cospicua dimensione cristologica.
Indagine irrequieta, animosa, indefessa sulla natura e il senso autentico della figura fulgida e ineffabile di Gesù, la cristologia di Blaise Pascal si presenta come cifra fondamentale e fondante di tutta quanta la sua parabola etico-spirituale; essa discende, per molti aspetti, da un atteggiamento analogo a quello rinvenibile nei discepoli dinanzi al Messia, al mistero mirifico, sublime, risolutivo della sua esistenza in terra e della sua resurrezione. Così, la sua riflessione cristologica, quantunque non trascuri il tradizionale problema dell’unione ipostatica – ovverosia della compresenza, in Cristo, della piena divinità e della piena umanità –, privilegia tuttavia nettamente, nei suoi paragrafi ieratici quanto calibrati, quella dimensione soteriologica, vale a dire di storia della salvezza, che del resto è pressoché onnipresente nell’esperienza e nel messaggio di Gesù. Detto altrimenti, Cristo non appare qui la mera occasione contingente con cui Dio salva l’uomo, bensì incarna in se stesso, nella sua eccezionale e imparagonabile individualità storica, la salvezza universale, il riscatto definitivo, meraviglioso, abbacinante dell’intiera umanità.
Insomma, anche in questa sorta di piccolo “capolavoro sconosciuto”, per troppi secoli stimato “laterale” e, di conseguenza, emarginato, Pascal riesce a dimostrarsi – specie in grazia di uno stile capace di rielaborare le informazioni stricto sensu canoniche circa Gesù in maniera coinvolgente e, alle volte, artigliante – un prodigioso, efficacissimo suscitatore di riflessioni ed emozioni costruttive.

5. Tutt’altro che casuale o estemporanea appare la scelta di accostare alla “vita di Gesù” pascaliana la ben più celebre e (con giusta ragione) celebrata vita di Pascal stesa dalla colta e sensibilissima sorella maggiore Gilberte (1620-1685), dacché ben pochi documenti storiografici – o forse nessuno? – testimoniano quanto e come questo il ruolo di primissimo piano che Gesù Cristo rivestì nella vicenda umana di Blaise Pascal.

Capolavoro del genere biografico – asseverò Jean Mesnard presentandone (1964), nell’ambito degli opera omnia pascaliani da lui curati, un’egregia edizione –, spicca altresì per il fascino dell’espressione, per la penetrazione e la profondità associate a un’estrema semplicità, a una sorta d’ingenuità, di negligenza, che non possono tuttavia dissimulare un’estrema padronanza della penna. Ben si comprende che tale opuscolo abbia ottenuto un gran successo, che sia divenuto inseparabile dalle opere di Pascal, che abbia plasmato più di ogni altro il volto che la posterità attribuisce all’autore delle Pensées.

In un saggio pascaliano (1923) di singolare e, a tratti, folgorante vigore espressivo, un esegeta d’eccezione quale Miguel de Unamuno desiderò anzitutto rimarcare che «la lettura degli scritti lasciatici da Pascal […] non c’invita a studiare una filosofia, bensì a conoscere un uomo, a penetrare nel santuario di dolore universale di un’anima, di un’anima affatto nuda, e – meglio ancora, forse – di un’anima esasperata, di un’anima che porta il cilicio». Pure questa biografia sembra rivelare con fedeltà al tempo stesso onesta ed affettuosa – al di là di qualche idealizzazione su cui esperti di fama mondiale (Mesnard, Chevalier, McKenna et alii)5 consigliano peraltro di non insistere all’eccedenza – gli sforzi diuturni, energici e sempre insoddisfatti compiuti da un’anima severamente cristiana, che tendeva a conformarsi appieno, in ogni gesto come in ogni pensiero, alla volontà del “suo” Cristo.
Del resto, specialmente dopo la seconda, decisiva “conversione”, nelle righe e fra le righe di tutte le sue ricerche spirituali si percepisce, limpida quanto pertinace, la volontà sincera e irresistibile di attingere un accordo preciso e insieme rincuorante – in ogni situazione della sua avventura terrena – con quell’evangelo cristiano che è incentrato sull’amore donativo (caritas, agàpe) più nobile e puro, tendendo asintoticamente ad imitare la perfezione dell’Uomo-Dio Gesù.
In tutti i modi, va tenuto presente che questo portrait agiografico ma non troppo ha costituito una sorta di caposaldo imprescindibile per tutte (o quasi) le biografie e le rielaborazioni artistiche dell’esperienza esistenziale del Nostro. A titolo d’esempio, credo sia sufficiente citare l’apprezzatissimo – a suo tempo – Pascal (1972) di Roberto Rossellini, una biografia intellettuale in forma di pellicola da più parti giudicata di ottimo livello sia per il meticoloso rispetto dei fatti e delle atmosfere secentesche, sia per l’ammirevole penetrazione psicologica: ebbene, anche quest’opera – come del resto era giusto, prevedibile, forse auspicabile – risulta debitrice in più punti capitali della Vita di Gilberte.
Ancora, leggendo e rileggendo queste pagine biografiche, mi colpisce sempre nell’intimo, mi lacera sempre il cuore – certo pure per ragioni legate alle mie prolungate indagini sulla marginalità letteraria in età moderna e contemporanea – l’attenzione di Pascal per i più poveri, per i poveri veri, per tutti coloro che, in una parola, soffrono gravi pene materiali e morali senza conoscere neppure il ristoro di un ascolto non distratto né distaccato. Per questi “ultimi della terra” Pascal si spese con tutto se stesso fino ai momenti estremi, ed avrebbe voluto più d’ogni altra cosa seguitare ad alleviarne i patimenti e i destini, se le circostanze di una vita dolorosa ed avara di giorni non glielo avessero impedito.
Per tale inesausta tensione a compatire (in accezione etimologica) i poveri, coloro che soffrono usque ad sanguinem la miseria più vera e più nera, il Nostro appare senz’altro vicino – fra i contemporanei consonanti con le sue istanze più profonde e tormentose – a Simone Weil. Magnanima testimone dell’abissalità consumante di ogni autentica riflessione sulle radici e le ali dell’essere e, al contempo, martire generosa dell’immensità di ogni amore cristiano pensato e vissuto, la Weil ha espresso magnificamente anche in forma di parole un’attenzione alla sofferenza del prossimo che colpisce, che spesso morde alla gola: «Gli sventurati non hanno bisogno d’altro, a questo mondo, che di uomini capaci di prestar loro attenzione. La capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa rarissima, difficilissima; è quasi un miracolo, è un miracolo. Quasi tutti coloro che credono di avere questa capacità, in realtà non l’hanno. Il calore, lo slancio del sentimento, la pietà non bastano»6.

6. In anni ormai lontani dalla frastornata “vita liquida” che contraddistingue (e funesta) l’ultimo ventennio, da questa temperie vieppiù affannosa e affannata, Iris Murdoch (1919-99) – una brillante quanto stravagante allieva d’origine irlandese di Ludwig Wittgenstein che, muovendosi costantemente tra filosofia e scrittura creativa, vergò contributi sostanziosi anche riguardo ai delicatissimi, cruciali rapporti sussistenti fra etica e letteratura – sostenne senza mezzi termini che

L’arte, in particolare la letteratura, è la grande sala di riflessione dove possiamo ritrovarci tutti, e dove tutto ciò che è alla luce del sole può essere esaminato e valutato. Per questa ragione è temuta e attaccata dai dittatori e dai moralisti autoritari… L’artista è un grande informatore: quanto meno un pettegolo, nel migliore dei casi un sapiente, molto amato in entrambi i casi. Egli presta al particolare fugace una dimora locale ed un nome. Egli dà un ordine al mondo e ci fornisce gerarchie ipotetiche e immagini intermedie: come il dialettico, egli media fra l’uno e i molti, e, per quanto possa artatamente confonderci, in definitiva ci istruisce.7

Procedendo in questa direzione, si trovava – più o meno consapevolmente – in armonia con talune posizioni del maestro Wittgenstein, il quale, per esempio, affermò una volta che «oggigiorno la gente è convinta che gli uomini di scienza siano lì per istruirla, e i poeti e i musicisti etc., per rallegrarla. Che questi ultimi abbiano qualcosa da insegnare, non viene loro neanche in mente»8.
Non diversamente da questi e da tanti altri autori – qui pongo mente, anzitutto, al nostro Pascal – reputo che, allorquando la letteratura meritevole di questo nome evita, anzi rifugge le questioni più radicali ed urgenti intrinseche alla vita, a tutte quante le vite pensanti e pensate, non migliora affatto, anzi oscura, confonde, aggrava ulteriormente uno stato di cose sempre e comunque complesso e complicato, e ciò vale sia per il microcosmo dell’interiorità sia per il macrocosmo ove siamo ospitati. Invero, se un’opera letteraria non tocca siffatte corde cruciali finisce per affondare in una sterilità glaciale e, forse, nociva, nella misura in cui rischia di condizionare negativamente – anche solo distraendoli – coloro che decidono d’intavolare con essa un dialogo vero e proficuo. Comunque sia, ogni scrittore davvero responsabile non ignora di certo che, nel momento in cui decide di dare alle stampe un lavoro, sceglie di diffondere idee, coordinate e suggestioni le quali, pur in misura variabile, incidono sul suo pubblico, e pertanto evita a priori di cagionare qualsivoglia specie di danno.
Sono convinto che, ben più e ben meglio delle profusioni dei moralismi e dei perbenismi in circolazione, i valori, i pensieri e gli affetti animati e agitati in queste dense pagine di e su Pascal possano incidere in modo positivo e sensibile sia sulla formazione sia sulla crescita senza fine, sulla costante autoeducazione delle coscienze, facendole tra l’altro meno disattente al mare magnum dei mali e delle sventure che guastano e avvelenano moltissimi dei progetti esistenziali che popolano il pianeta nell’incipit desolante e disincantato del ventunesimo secolo.
Dal suo volontario e, quasi sempre, momentaneo esilio nei meandri di una solitudine pensosa quanto poietica, dal suo fertile deserto interiore, vibrante di labirintici saperi e di finezze inappagabili, Pascal ha saputo e sa ancora imprimerci, nella ragione e nel cuore, nutrimenti preziosi ed essenziali, che possono impedire (o quantomeno ritardare) quella vera e propria necrosi interiore che – forse ora come non mai – mina la globalità delle menti che abitano il nostro cupo presente e la sua caotica, imbarbarita temperie. Còmpito di ogni lettore conscio della ricchezza e della vitalità di tali moniti è allora disporsi nell’attitudine più adeguata per ascoltarne comme il faut la voce insieme elegante e severa, angustiosa ed eufonica.

7. Ma, al di là dei testi offerti, fine primario di questo libricino vorrebbe essere l’invito a principiare o, più probabilmente, a continuare un dialogo lento e riflessivo con le pagine di Blaise Pascal, un protagonista indiscusso della cultura europea che, sin da quando ero un ragazzo, ha accompagnato e, non di rado, orientato fruttuosamente parecchi miei percorsi culturali ed esistenziali, rischiarandoli con riflessioni ora sottili, ora sorprendenti, ora perentorie, ora spietate, che non hanno – a detta di molte coscienze critiche di gusto pressoché infallibile – troppi termini di paragone nel pur doviziosa ed eterogenea biblioteca delle lettere e delle scienze occidentali.
In questa caliginosa, amarissima aurora del terzo millennio, tracimante oltre ogni dire di violenze inumane e d’indifferenze colpevoli, di fanatismi e fondamentalismi ben difficilmente comprensibili e giustificabili, di miserie materiali e morali all’apparenza irreversibili, di ostentazioni oscene, di superficialità tanto pacchiane quanto colpevoli e, più in generale, delle infinite altre sventure materiali e morali che ogni autentico cittadino europeo non ignora, la voce aspra, inquieta, sconcertante di Blaise Pascal può davvero aiutarci a vivere meglio.
Maestro scaltrito ed esigente come pochi nell’arte della ricerca interiore, il moralista sui generis di Clermont porta a riflettere, in special modo, sui pesanti, opprimenti limiti fisici, psichici e morali connaturati alla humana condicio. Si tratta, invero, di un monito che, in un tempo come il nostro, proclive a legittimare e (talora) addirittura caldeggiare negli àmbiti più diversi – dalle scienze naturali alle fedi confessionali – una tracotanza sfrenata quanto appagata e “progressiva”, può sicuramente rappresentare una terapia di non comune efficacia per tutti noi.
Forse è opportuno, a questo punto, lasciar la parola a uno studioso di fama che è, nel contempo, uno dei pochi maître à penser del terzo millennio: alludo a Giovanni Reale che, per decenni, mai si è stancato di sottolineare il valore terapeutico senza pari di saggezze e sapienze antiche e moderne. Dopo aver rammentato, come in molti altri suoi libri assai stimati e giovevoli, che l’amore “acquisitivo” platonico (eros) si trova, per tanti aspetti, agli antipodi dell’amore “donativo” cristiano (agàpe), Reale, in un’insolita, felice opera dialogica uscita non troppo tempo fa, ha tuttavia sottolineato che, similmente all’eros del Fedro e del Simposio, «anche l’amore come agape connette amore e bellezza, ma su un nuovo piano, e intendendo la bellezza in un senso capovolto, in una dimensione totalmente innovativa».

L’Amore assoluto [scil. quello cristiano] – continua l’insigne storico della filosofia – coincide con la Bellezza assoluta, che è la donazione assoluta.
La Bellezza assoluta è l’Amore di Cristo, che si è donato all’uomo per la sua salvezza, e che si è “abbassato” al punto che anche il più misero di tutti i miseri potesse essere certo di essere amato da Lui e innalzato a Lui.
In Cristo, dunque, si manifesta quel Bello nel fulgore massimo, che solo può salvare tutto e tutti in senso assoluto.
[…]
Ritroviamo lo stesso concetto mirabilmente riassunto in un brano di Memoria e Identità di Giovanni Paolo II: “Ma la passione di Cristo sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l’ha trasformata dal di dentro. Ha introdotto nella storia umana, che è storia di peccato, una sofferenza senza colpa, affrontata unicamente per amore. È questa la sofferenza che apre la porta alla speranza della liberazione, dell’eliminazione definitiva di quel ‘pungiglione’ che strazia l’umanità. È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore, e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene”.
Questa è la vera Bellezza, la bellezza che sola salverà: la Bellezza dell’Amore assoluto, che “brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore”9.


Sempre avvalendosi di uno stile di pensiero quanto mai personale e, spesse volte, di una scrittura che spicca per vivida brillantezza ed efficacia affilatissima, anche Pascal si è sforzato tota mente e toto pectore di mostrare ai suoi lettori che solo un amore ardente, disinteressato, assoluto per ogni altra persona – mai disgiunto, beninteso, dall’amore per Dio – può elargire un senso effettivo e permanente all’esistenza umana, può rendere significativo, appagante e senza fine un progetto esistenziale. Siamo dinanzi, è indubitabile, a un ammonimento insieme duro e rigenerante per la coscienza postmoderna, sempre più sospettosa, disorientata, stanca.

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Ph. Sellier, Port-Royal et la littérature, H. Champion, Paris, 1999-2000, 2 voll.
F. P. Adorno, La ragione ordinata. Saggio su Pascal, La città del sole, Napoli, 2000.
J. Attali, Blaise Pascal ou le génie français (2000), Le Livre de Poche, Paris, 2002.
A. Le Gall, Pascal, Flammarion, Paris, 2000.
H. Pasqua, Blaise Pascal, penseur de la grâce, Téqui, Paris, 2000.
R. Pouzet, Chronique des Pascal. Les affaires du monde d’étienne Pascal à Marguerite Périer. (1588-1733), prefazione di J. Mesnard, H. Champion, Paris, 2001.
A. Peratoner, Blaise Pascal, ragione, rivelazione e fondazione dell’etica. Il percorso dell’“Apologie”. Con un saggio di C. Vigna, Cafoscarina, Venezia, 2002, 2 voll.
B. Grasset, Les “Pensées” de Pascal. Une interprétation de l’écriture, Kimé, Paris, 2003.
M. Le Guern, Pascal et Arnauld, vol. I, H. Champion, Paris, 2003.
M. V. Romeo, Verità e bene. Saggio su Pascal, C.U.E.C.M., Catania, 2003.
Ph. Sellier, Essais sur l’imaginaire classique. Pascal, Racine, Précieuses et Moralistes, Fénelon (2003), H. Champion, Paris, 2005.
H. Bouchilloux, Pascal. La force de la raison, Vrin, Paris, 2004.
D. Antiseri, Come leggere Pascal, Bompiani, Milano, 2005.
F. P. Adorno, La disciplina dell’amore. Pascal, Port-Royal e la politica, Editori Riuniti, Roma, 2007.
D. Bosco (a cura di), Pascal nella modernità (XVII-XIX secolo), Morcelliana, Brescia, 2007.
M. V. Romeo, Il re di concupiscenza. Saggio su Pascal etico-politico, Vita e Pensiero, Milano, 2009.
R. Gatti, Politica e trascendenza. Saggio su Pascal, Studium, Roma, 2010.
A. Peratoner, Pascal, Roma, Carocci, 2011.

Note

  1. Ne è disponibile da tempo un’ottima edizione italiana: P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con J. Carlier e A. I. Davidson, Einaudi, Torino, 2008.
  2. Cfr., ex multis, Moralisti francesi. Classici e contemporanei, a cura di A. Marchetti, con A. Bedeschi e D. Monda, BUR, Milano, 2010.
  3. G. Raboni, Prefazione, in B. Pascal, Pensieri, a cura di C. Carena, Einaudi, “Biblioteca della Pléiade”, Torino, 2004, pp. X-XI.
  4. Ch.-A. Sainte-Beuve, Pascal, in Id., Les grands écrivains français. XVIIe siècle. Philosophes et moralistes, a cura di M. Allem, Garnier, Paris, 1928, p. 139.
  5. Cfr., per tutti, Ph. Sellier, Port-Royal et la littérature. I: Pascal, H. Champion, Paris, 1999, pp. 29-48.
  6. S. Weil, Attesa di Dio (1950), a cura di J.-M. Perrin, prefazione di L. Boella, Rusconi, Milano, 1996, p. 68.
  7. I. Murdoch, Il fuoco e il sole. Perché Platone mise al bando gli artisti (1977), in Ead., Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, a cura di P. Conradi, introduzione di L. Muraro, prefazione di G. Steiner, Il Saggiatore, Milano, 2006, p. 449.
  8. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di G. H. von Wright con la collaborazione di H. Nyman; ed. it. a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano, 2001, p. 89.
  9. A. Scola, G. Reale, Il valore dell’uomo. Con un intervento di A. Torno, Bompiani, Milano, 2007, pp. 100-101.
  10. Come il lettore avvertito non tarderà ad osservare, scorrendo questa sequela di orientamenti bibliografici che ospita in prevalenza monografie lato sensu classiche, ho cercato di privilegiare i numerosi scrittori e pensatori che, nel corso del tempo, hanno fornito contributi originali allo studio della complessa e complicata avventura spirituale ed espressiva di Blaise Pascal. Ho poi ricostruito l’ordine cronologico della bibliografia fondandomi sulla prima edizione dei testi, che è segnalata fra parentesi tonde, mentre, dopo il tradizionale nome della città, ho sempre indicato l’ultima data di pubblicazione a me nota, senza distinguere le nuove edizioni dalle mere ristampe. Infine, quando delle opere esiste una versione italiana, ho dato direttamente – salvo rare quanto illustri eccezioni – il titolo del libro in traduzione.

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