Per Manzoni centocinquanta anni dopo (1873-2023). Prima parte: Voci europee fra Otto e Novecento
Davide Monda, Per Manzoni centocinquanta anni dopo (1873-2023). Prima parte: Voci europee fra Otto e Novecento, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 31, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10836
I promessi sposi1
Jacob Burckhardt
La prossima volta: Schiller, Die Kunstler. Oggi: Manzoni, I promessi sposi. Enorme diffusione, opinione consolidata, fuori d’Europa; io ho da dare solo alcuni cenni, a chiarimento di ciò che è noto senz’altro.
Nell’estetica si aprì nello stesso tempo un dibattito intorno al concetto di «romanzo storico». Il 1827 era l’acme della gloria di Walter Scott; la sua colossale ricchezza d’invenzione, il suo sentimento, di una sanità a tutta prova, la sua arte della descrizione esteriore e interiore sovente prolissa, il suo studio dei tempi e del costume, il suo tono sempre drammatico, che s’alza con forza sino alla peripezia, nella persona degli stessi protagonisti. Qui, invece, un romanzo storico, i cui innamorati sono del tutto insignificanti: Lucia non è bella, Renzo non è intelligente; un contadino e una contadina; essi scompaiono talora per lunghi tratti del racconto; ciò che si svolge con loro e con gli altri personaggi, non è la storia di Renzo e Lucia, ma un frammento di storia universale; il tono drammatico è del tutto abbandonato; la partecipazione, l’interesse delle figure che compaiono in scena, estremamente diseguale.
Ha dunque voluto darci il Manzoni, forse, nient’altro che la sostanziosa immagine di un’epoca (1630)? I suoi studi di costume riescono sempre notevoli, il suo modo di descrivere, quanto mai vivo. Lo scrittore dei Promessi sposi aveva un proposito più alto: un romanzo a tesi (i romanzi a tesi recenti: vogliono dimostrare che il «génie incompris» va per il mondo, che i vincoli morali non hanno senso). Qui è qualcosa di assai diverso: al di sopra di un mondo piccolo e grande, pieno di violenza e d’ingiustizia, sta la Chiesa, la quale consola e dirige gli oppressi, tiene a freno i potenti, e sola resta diritta in mezzo a gigantesche calamità.
È il romanzo forse, per questo, solamente religioso? No, a un tempo, è un romanzo in sommo grado nazionale e sintomatico per il suo decennio: un libro di pena e di conforto per l’Italia ridotta alla passività e in parte dominata dallo straniero. Modello: i tempi intorno al 1630 in Lombardia; un governo spagnolo cattivo e opprimente; uomini violenti; tutte le cose pubbliche guaste; le leggi nulle. Il Manzoni mostra dunque come anche in una situazione del genere il singolo possa resistere e salvarsi, e come la rivoluzione e il sovvertimento delle leggi siano i mezzi sbagliati, allorché è operante la protezione della Chiesa. È la sua Chiesa cattolica, ed egli la fa agire, deliberatamente?, in una maniera che era preclusa alla Chiesa protestante. Risonanze non solo umane e religiose, in ogni parte, ma anche direttamente nazionali.
La scena, al di fuori di Milano e Monza, si concentra particolarmente sul ramo sud-orientale del lago di Como: Pescarenico, Arquate, castello di Rodrigo (e quello dell’Innominato). Arquate, la parrocchia di Don Abbondio, dalla cui sorpresa, per opera dei bravi, ha inizio il romanzo. Questo parroco di paese, pauroso e comodo, insieme con Perpetua, è smarrito di fronte al banditismo che ha preso piede in proporzioni grandiose. I Grandi di allora politicamente, è vero, sottoposti ai governatori spagnoli, ma pieni di violenza nella vita privata, con le loro squadre di bravi, contro cui le grida apparivano impotenti: era un diritto della loro sovranità, e anche i migliori costituivano appena un’eccezione relativa. Uno di questi signorotti è Don Rodrigo, che fa proibire al parroco le nozze di Lucia. Nel dialogo tra Don Abbondio e Perpetua si fa allusione, di sfuggita, all’arcivescovo Federigo Borromeo, una delle figure ideali del romanzo. Io immagino, in linea d’ipotesi, un primo progetto del Manzoni, secondo cui la storia sarebbe venuta a collocarsi nel XVI secolo, nella sfera del grande Carlo Borromeo: in luogo della peste del 1630, ci sarebbe stata quella del 1576-77. Perché dunque, al posto del cugino più anziano, quello più giovane? Perché il primo era santo, e il Manzoni non se la sentì di misurarsi con lui. Certo, quanto a Federigo, la biografia del Ripamonti (in folio nel Gronovius) è abbastanza laudativa: fu un prelato assai pio e fervente, molto dotto, fondatore dell’Ambrosiana, una copia in ogni cosa di S. Carlo; ma il Manzoni lo ha più che mai trasfigurato.
Ora, i fidanzati, Renzo, Lucia; e la madre di quest’ultima, Agnese. Ciò che appartiene alla storia di paese ha un colore locale solo nella misura in cui era necessario e compatibile con l’intelligenza generale: non si pone l’accento sugli aspetti brutti, spiacevoli, che si accompagnano a ogni vita popolare. La tensione immediata del lettore in forza del pericolo annullerebbe, del resto, ogni attenzione prestata ad essi. Ma i caratteri sono veri e agiscono con naturalezza, secondo necessità e morale, e conquistano subito l’interesse. Il consulto di Renzo dal Dottore Azzeccagarbugli, a Lecco, serve magistralmente a illustrare l’assenza assoluta della legge. Allora la famiglia vessata invoca Padre Cristoforo, il rappresentante della Chiesa protettrice. La tesi del Manzoni si manifesta scopertamente nella sua maniera ingenua di intessere episodi che non hanno alcun rapporto con il tutto: così qui la storia della vita passata del Padre, da cui lo scrittore ricava il fondamento psicologico del suo personaggio: egli è il grande, libero Cappuccino, che prima era un nobile. L’unico luogo dove questo riemerge in forma immediata e involontaria, ha una forza tutta particolare (l’invito da Don Rodrigo). In questo carattere si raccolgono tutte le virtù: amore per gli uomini, coraggio cavalleresco, abnegazione, totale rinuncia, una provvidenza scalza.
Bisogna concedergli che nello stato di quei tempi il frate mendicante è una persona indispensabile, una potenza pubblica. La sventura della povera gente di paese angustiata sarebbe completa senza una siffatta figura che riconcilia e soccorre, non più tollerabile dal lato poetico: accanto a essa, Fra Galdino, Fra Tazio. Segue a questo punto la parte più abile e drammaticamente migliore del romanzo, la visita di Cristoforo a Don Rodrigo, e poi la notte di paura al villaggio: mentre i giovani vogliono strappare a Don Abbondio il consenso per le nozze, i bravi, i banditi di Rodrigo, invadono la loro casa, ed essi riescono a fuggire soltanto per il messaggio salvatore di Cristoforo di rifugiarsi presso di lui a Pescarenico. La notte in un paesetto italiano in tempi malsicuri, magistrale. Poi l’incontro nella chiesetta dei Cappuccini. Fra Cristoforo invia le donne in un monastero di religiose a Monza, e Renzo, invece, a Milano; infine la preghiera per Don Rodrigo e il congedo.
Il viaggio delle due donne alla volta di Monza. Qui comincia un grande episodio, di cui sarebbe difficile comprendere la presenza e la necessità, la Monaca di Monza (una Leiva principessa d’Ascoli), se non figurasse nel Ripamonti. Per giunta, il Manzoni ha qui una tesi particolare: contro la destinazione coatta al chiostro; Gertrude è l’immagine di un carattere che esce da questa prova completamente distrutto. Esiste già una porta segreta dall’abitazione di Egidio al convento di Monza, allorché Lucia e Agnese vengono sistemate nella fattoria del convento.
Segue il maltrattamento e lo scherno al castello di Rodrigo, e le chiacchiere nel paese (eccellente). Renzo intanto se ne va a Milano e si trova in mezzo a una crisi del grano (carestia). Accanto alla superba descrizione del comportamento dei grandi e dei piccoli, si coglie sin troppo agevolmente quello che il Manzoni vuol dire tra le righe: così agisce il popolo quando scuote le sue catene. Così subordinata, insicura è la morale privata non solo di Renzo, ma in genere della gioventù inesperta (presentimento del destino di Milano). Il trasferimento del gran cancelliere Ferrer e del vicario di provvisione nel castello della salvezza ha pochi riscontri in Walter Scott. L’arresto poliziesco di Renzo parla con una risonanza particolare a tutti i cuori milanesi. Il popolo lo libera ed egli s’incammina in fretta verso Bergamo, terra di Venezia, dove poi troverà lavoro presso un cugino. Questo viaggio è molto minuzioso solo perché descrive la situazione: il passaggio dell’Adda, «terra di San Marco»! Renzo trova amichevole ospitalità e lavoro, ma al suo paese natio giunge un bando contro di lui.
Siamo così arrivati al punto mediano della storia. Ora il piano di Rodrigo: far rapire Lucia dal monastero di Monza già individuato dalle spie. Egli, in grazia di appoggi, riesce a far richiamare a Rimini Cristoforo (Attilio e il Conte Zio) per mezzo del Padre Provinciale; il cui colloquio col Conte Zio tutto dal vero?
Per il suo colpo Don Rodrigo ha bisogno dell’Innominato, il tiranno grande e quasi mitico, il criminale dai tratti grandiosi. Anche il Ripamonti non lo nomina: si tratta di Bernardino Visconti (secondo i Bandi del 1603-1614); il suo castello Bregnano, ancor oggi dei Visconti. Con la visita di Rodrigo, descrizione dell’ingresso, del castello e del signore: il Manzoni possiede un alto gusto del misterioso senza tutto quel gioco a nascondino, che piace a Walter Scott (Dirk Hatteraik); l’ambiente di un Don Rodrigo è, al confronto, addomesticato.
Alle difficoltà di Rodrigo, l’Innominato prende l’impresa sopra di sé. Egidio, l’amante di Gertrude, è un suo fido compagno a Monza. Ma nell’Innominato c’è già nausea e orrore: pensiero della morte; egli si assume il ratto di Lucia solo per trincerarsi nel crimine e sbarrarsi la strada. Spedisce i suoi bravi con una carrozza chiusa: l’ordine di Egidio costringe Gertrude a dare il suo aiuto; quest’ultima manda Lucia nottetempo sulla strada maestra: la si afferra e la si conduce all’Innominato. Una vecchia madre di banditi, descritta per due pagine in modo magistrale. Il colloquio dell’Innominato con Lucia serve ad accennare e a motivare la graduale metamorfosi del personaggio. Lucia ha fatto il suo voto alla Madonna e dorme ora tranquilla; ma il castellano è senza sonno, pieno di pensieri terribili; alla mattina sente campane da tutte le parti, uno scampanìo a festa, lontano; fa chiedere: il Cardinale Federigo è in visita a un villaggio dei dintorni. L’Innominato scende e va a trovarlo. Questa scena della conversione appartiene alla più potente poesia del nostro secolo; Lucia, liberata, in una casa di contadini del villaggio; la visita di Federigo; poi l’Innominato che parla ai suoi bravi, e la deliziosa «predica» di Federigo a Don Abbondio.
Qui la storia potrebbe finire; Federigo potrebbe senz’altro col suo appoggio far revocare la sentenza milanese contro Renzo; questi potrebbe tornarsene a casa e sposare Lucia: tutti e due erano stati messi alla prova abbastanza; Don Rodrigo, che è fuggito a Milano, dovrebbe in qualche modo rompersi il collo.
Ma il Manzoni ha ancora troppi buoni insegnamenti nel cuore. Lucia frattanto si reca in un castello delle vicinanze, presso Don Ferrante e Donna Prassede, una filantropa seccatrice. Ora la grande carestia di Milano, la guerra di Mantova (discesa di un esercito austriaco-spagnolo), e la peste. A questo punto il Manzoni non vuole più affatto essere poeta, ma descrivere didascalicamente e mostrare gli uomini come sono. Dapprima un quadro di genere della fuga di Don Abbondio, di Perpetua e di Agnese al castello dell’Innominato, e il loro ritorno nel villaggio saccheggiato. Segue la descrizione magistrale della peste a Milano, interamente storica, accanto alla persecuzione degli «untori»: qui il popolo superstizioso com’è; nessuno e tutti ne sono colpevoli; uno «studio di popolo».
Il Manzoni adopra la peste per riunire nel lazzaretto Don Rodrigo, Padre Cristoforo e Renzo; Don Rodrigo malato, tradito dai suoi bravi; Renzo approfitta della confusione generale per introdursi nel Milanese e cercare Lucia; nel paese deserto Don Abbondio lo ha avviato a Milano (stupenda descrizione); a Milano la portinaia di Donna Prassede lo indirizza al lazzaretto: i costumi dei monatti. Cristoforo, infine, ha chiesto come favore ai suoi Superiori di poter partire da Rimini e affrettarsi alla volta della peste milanese: dopo tre mesi di servizio nel lazzaretto egli è già prossimo alla morte. Cristoforo obbliga Renzo, prima di tutto, a perdonare a Don Rodrigo; poi glielo mostra: «Benedicilo e sei benedetto!». All’ultimo, anche Lucia. Qui viene alla luce che essa, consacratasi nel castello dell’Innominato alla Madonna, ha promesso di restare vergine per tutta la vita (in queste pagine il Manzoni è del tutto didattico). Per fortuna Cristoforo si trova ancora lì presso: spiega a Lucia che la sua antecedente promessa a Renzo va innanzi al voto, e come religioso del luogo la scioglie dall’obbligo contratto. Congedo di Renzo dal lazzaretto sotto un terribile temporale, che è l’ora critica della peste.
Il resto è il felice scioglimento: matrimonio di Renzo e Lucia, con il dono e l’ospitalità dell’erede di Don Rodrigo, e loro trasferimento nel Veneziano. Il Manzoni si sforza ancora in certo modo di rappresentare la coppia come gente comune.
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Alessandro Manzoni2
Giovanni Gentile
Signori,
Alessandro Manzoni, come Omero, come Dante, non fu soltanto un poeta. Il poeta libera gli uomini dalle cure della vita pratica ond’essi sono avvinti alla realtà esistente ed universale, a questo mondo che ha leggi ferree, alle quali conviene assoggettarsi, dalle quali convien riconoscere che la nostra persona è limitata; a questo mondo nel cui vasto disegno, prima o poi, dobbiamo tutti avvederci che nessun di noi potrà mai tracciare più che una linea destinata ad armonizzare con tutte le altre. Da questo mondo, dalle sue leggi la poesia ci affranca, trasferendoci in un mondo diverso, libero e luminoso, che la fantasia crea effondendosi come subbiettiva potenza dell’artista capace di spaziare in un campo vasto, infinito: nel sogno, che è pur realtà finché il sogno duri. Perciò nella poesia il mondo è bello, ed è sorgente inesauribile di gioia. Ma il poeta, donandoci questa pura gioia del sogno, non ci sottrae ai dolori della vita, che sempre torneremo a vivere, senza privarci, altresì, delle gioie che ai dolori dei viventi sono commiste: di quelle gioie, che, è vero, noi desideriamo troppo più che non godiamo su questa nostra terra, in cui vivere è sforzo e contrasto, lotta e fatica, ma in cui, appunto perciò, è dato di assaporare il vivo gusto di una gioia che è conquista e vittoria, tanto più gradita quanto più contesa, tanto più preziosa quanto più rara, tanto più salda quanto più ampia la vibrazione dell’animo nostro, non più chiuso nella fantasia, ma aperto al respiro della vita universale. Al divino cenno del poeta dileguano le angustie della vita quotidiana, e l’animo s’innalza, d’un tratto, nell’eterno e puro etere delle cose immortali, dove non è stella che tramonti, non bisogno insoddisfatto, né privazione, né morte; dove non è invidia di nemici, non doglianze di amici, non pericoli di figliuoli. Ma quivi l’uomo perde di vista non soltanto i nemici, con cui è pur dolce combattere, bensì anche gli amici, coi quali è bello cercar di vivere una vita comune di speranze, di ideali e di fede, che moltiplichi ogni nostra soddisfazione e potenzi la nostra persona e il nostro cuore; e perfino i figliuoli, la cui educazione ci costa, sì, pensieri e sacrifici, ma ci procura la felicità maggiore concessa all’uomo nella sua naturale tendenza a dilatarsi in una realtà che sia sua, interamente sua, e non finisca con lui. Il poeta è libero, perché spezza i vincoli di padre, di amico o socio o cittadino; non ha più famiglia, né patria; non ha nulla che fosse prima di lui, che sarà dopo di lui; nulla, in tutto questo mondo che lo circonda da ogni parte, e in cui egli, ordinariamente, vede la ragione della sua vita e della sua morte.
E nella nostra famiglia, nella patria, in questa terra madre, in questo mondo infinito, non sono affondate le radici del nostro essere donde viene a noi ogni gioia più desiderata?
E poi, la nostra vita non vuol essere tutta contesta di gioie. C’è anzi, nell’animo nostro un bisogno anche più profondo di quello che ci spinge verso la felicità; né felici potremmo essere mai, quando prima non fosse appagato l’altro bisogno: di essere in pace con la coscienza e riscuotere l’approvazione della voce che ci parla sempre nel segreto del nostro petto. Al di sopra e prima di ogni gioia, c’è il dovere; e il dovere ci abbandona e dilegua anch’esso nella libertà che ci è donata dall’arte, nel sogno dove non incontreremo mai chi ci faccia assaporare la divina dolcezza del sacrificio e dell’amore; dove non esistono né patria, né famiglia, né mondo capaci di farci sentire la tremenda serietà della vita, della eterna tragedia, che, attraverso il dolore, ci purifica e ci eleva su per la scala infinita del perfezionamento morale: non più una lacrima da asciugare, non un fratello con cui dividere il pane, non un ideale per cui dare la vita, e, però, neanche un cimento, in cui si richieda la tempra dell’uomo che sta in campo, e non piega, e che pugna invitto con le cose, cogli uomini, con se stesso: carattere, coscienza morale, uomo.
Alessandro Manzoni fu un grandissimo poeta. Ma da cento anni e più noi veniamo ammirando in lui, come già in Dante e come i Greci ammiravano in Omero, qualche cosa di più che nel poeta come tale non sia: qualche cosa di più pienamente umano. Da cento anni e più gl’Italiani vedono in lui anche il maestro, un grande maestro nazionale. Il Mazzini e il Gioberti, i due profeti del nostro Risorgimento, fin dal principio del loro apostolato, al Manzoni si volsero e guardarono come alla più alta e degna guida spirituale degli Italiani; il suo maggior libro fu, certo, un libro di poesia: ma non era, come il pur divino Orlando furioso, un poema da portar la fantasia in una regione incantata, bensì un libro di vita, che parlava anche al cuore, all’intelligenza e alla coscienza: a tutto l’uomo. Era il libro d’un poeta, ma anche, e soprattutto, il libro di un uomo.
Il Parini e l’Alfieri avevano accennato da presso a questo nuovo ideale d’arte. Tutto il secolo decimottavo aveva riempito il pensiero italiano, e di tutta Europa, della cura pei problemi della vita; e gl’Italiani avevano cominciato a sentire il fastidio delle vecchie accademie oziose, di quella morta erudizione, di quella letteratura vuota, di quella insipida arcadia, che dai finti amori s’era estesa fino alla scienza di moda, diffondendo l’insincerità e la frivolezza in tutta la cultura. S’era fatto generale lo studio della realtà sociale, economica, politica, morale, in cui all’uomo spetta di sviluppare le proprie forze e creare le condizioni reali della sua vita. Ma da che il Rinascimento ebbe allettati e attratti gl’Italiani verso il mondo dell’arte pura e del libero esercizio dell’astratta intelligenza; da che esso Rinascimento, restaurando le forme dell’antico spirito classico, li ebbe spinti a sciogliersi da ogni vincolo col presente, dov’erano tutti i loro interessi e problemi religiosi, morali e politici, cioè dopo Dante, gl’Italiani non avevano più udita voce di poeta che esprimesse i motivi più profondi dello spirito umano, e che toccasse e facesse risuonare tutte le corde del cuore rappresentando un ideale di umanità viva, piena ed intera.
Questo, del Manzoni, era dunque, finalmente, il libro d’un uomo: d’un poeta, che – nella maturità dei tempi, dopo la Rivoluzione, dopo Napoleone, in tanta crisi di idee, che, toccata la cima dell’audacia, eran cadute nella disperazione di rendere razionale la vita, costringendo quindi la coscienza a ripiegarsi su se stessa, e a cercare più addentro in se medesima il principio e la ragione dell’esistenza, – era riuscito ad accogliere ed a fondere nel fuoco della propria virtù creatrice gl’interessi fondamentali di tutto il mondo morale. Giacché in ogni poeta sempre batte il cuore dell’uomo; né c’è poesia dove non risuoni qualcuna delle voci che ognuno di noi può sorprendere ed ascoltare nell’intimo dell’animo suo. Che anzi il poeta c’insegna a distinguere e a scegliere tra quelle voci spesso confuse, e sfuggenti, perciò, alla comune attenzione. Ma la poesia è sogno, perché ne coglie una o taluna, che isola e accentua e fa sonare alta, attraendo e chiudendo gli animi in una nota, in un ritmo, che è un frammento solo della realtà in cui s’intesse la solida trama della nostra vita. Una nota del poema eterno basta a conferire alla poesia il suo valore immortale. E però la poesia è particolare, soggettiva, frammentaria: un aspetto dell’umanità, tanto più cospicuo e splendido, quanto più nettamente distinto e isolato; laddove l’uomo, che è in ogni poeta, stimola il poeta e lo spinge a superare questo limite, a tendere verso l’umanità nel complesso dei motivi che formano il suo mondo, e a far valere la propria voce suggestiva come espressione di tutta l’anima umana, anzi della vita universale.
Il Manzoni toccò la mèta, a cui ogni poeta pur guarda. E – dopo avere negli Inni e nelle Tragedie offerto esempio di una più ingenua poesia, dando forma immediata e quindi liricamente più energica a talune note fondamentali del cuore umano, già investendo, benché in maniera non ancora adeguata, il problema morale o generale della vita – attraverso la meditazione non pure dell’essenza della poesia, ma anche della storia, e in particolare di quella degli Italiani, che più direttamente interessava il problema morale da lui sentito, ma, soprattutto, dei problemi religiosi e filosofici, in cui si travaglia sempre lo spirito umano, e che egli si trovava di fronte su tutte le vie che tentasse di percorrere, si sollevò a una forma d’arte, che non è più la lirica dell’animo preso da una passione umana, ma particolare, sì il canto dell’anima assorta in una visione universale, e però solenne, serena, religiosa della vita.
II
Visione cristiana sì, e cattolica; ma di un cristianesimo e cattolicismo che si devono dire “manzoniani”, incarnati in creature ideali dalla fantasia del Poeta, spiranti in un mondo che è sorretto dalla forza originale del suo spirito, dalla potenza portentosa del suo pensiero: non visione di poeta, certo, né di teologo, ma visione “umana”; dell’uomo che parla al cuore d’ogni uomo, fanciullo o vegliardo, ignorante o sapiente, in ogni condizione di vita, in ogni età della storia; dell’uomo che molto ama perché molto intende, e molto intende perché molto ama, e che, con l’animo aperto e l’occhio intento, guarda fisso e indaga e scruta infaticabilmente, e ha l’orecchio per ascoltare ogni parola, e ha la parola per ogni orecchio: umile cogli umili, alto con gli spiriti superiori; non mai tanto filosofo da non potere essere inteso dai cuori più semplici, non così assorto nell’osservazione e nell’amore di tutte le creature da non sollevarsi col pensiero costantemente ai più alti che son pure i più semplici concetti filosofici: saggio della saggezza pacata e longanime d’un Socrate, e come Socrate, perciò, ironico verso tutte le vanità e debolezze umane; ma di un’ironia più lieve e più benevola, come si conveniva a uno spirito senza paragone più fine e più colto, e cristianamente più disposto a compatire ed indulgere alle debolezze da cui pur nascono le vanità; dalla saggezza, al pari di Socrate, indotto a un atteggiamento di spirito che si deve dire eroico, ma di un eroismo senza appariscenza e senza ostentazione, e non dirò ignaro di sé, ma conscio della propria necessità morale, come di conseguenza affatto naturale del vero concetto dell’uomo nelle sue relazioni col mondo. Socrate, nel carcere, alla vigilia della morte ingiusta, è incapace di accogliere, neanche per un momento, il pensiero della fuga per eludere le leggi: quanta naturalezza, e quanta semplicità nelle parole di quell’uomo che non ha mai pensato a disertare il suo posto! La stessa naturalezza, la stessa semplicità, la stessa fermezza, che è nelle parole del cardinal Federigo nel colloquio con don Abbondio, quando questi – povero pulcino negli artigli del falco che lo tiene sollevato in una regione sconosciuta – non si sa render conto di una verità elementare: che anche “quando si tratta della vita, non si può lasciar di adempire un dovere preciso”.
Ma, quanto progresso da Socrate al Manzoni! Quando don Abbondio esce in quella frase famosa: “Il coraggio, uno non se lo può dare”, il cardinal Federigo gl’insegna che per soddisfare gli obblighi del proprio ministero, comunque uno ci si sia messo, il coraggio è necessario; e c’è infatti Chi lo darà infallibilmente quando gli si chieda. Dove il chiedere è virtù umana, alla quale non potrà mancare mai il premio del coraggio eroico, con cui l’uomo vince la propria natura.
La saggezza manzoniana è fondata infatti su questa virtù redentrice e consolatrice: la virtù, che redime Ludovico e l’Innominato, che è la forza segreta, incrollabile dell’innocente Lucia; che, dove manca, come in don Abbondio e in Gertrude, o non è così forte da prevalere e soggiogare ogni passione, come in Renzo, lascia l’uomo privo di lume e di conforto, in balìa del proprio egoismo, delle altrui malvagità e del destino; una virtù, la quale, nei personaggi manzoniani che ne sono investiti, quali fra Cristoforo, l’Innominato dopo la conversione, il cardinal Borromeo, Lucia, lungi dall’indebolire la personalità, la rinvigorisce, portandola alla intrepidezza maggiore che si possa pensare.
E il vigore, la potenza dell’uomo rinfrancato da codesta fede è la forza segreta che muove e regge il mondo morale manzoniano. Non occorre fermarsi sui miracoli compiuti da questo possente vigore morale con Ludovico che disarma d’un tratto l’altezzoso spirito di vendetta della famiglia dell’ucciso, sostituendo alla trista gioia dell’orgoglio la gioia serena del perdono e della benevolenza, e con gli altri maggiori personaggi del romanzo. Basta pensare a Lucia, alla semplice e ignara Lucia, la cui voce di pianto invocatrice di Dio sgomenta il fiero animo dell’Innominato, e lo getta in una angoscia, che è il principio dello scioglimento di tutto il nodo del dramma: poiché proprio allora, mentre Renzo è fuggiasco di là dall’Adda senza speranza di poter più tornare in Lombardia, e la sua Lucia è sul punto d’esser perduta per sempre, la conversione dell’Innominato inizia la serie degli avvenimenti provvidenziali, che condurranno al matrimonio dei promessi sposi, cioè alla sconfitta dell’iniquità e al trionfo della giustizia: dalle squarciate nuvole torna a splendere il sole!
Questa virtù sgorga da una segreta fonte perenne, che è in fondo a tutti gli animi umani; sgorga, come polla inattesa, anche in mezzo ai sassi e ai rovi del vizio e del delitto. L’Innominato da qualche tempo aveva cominciato a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze, per cui la sua anima tornava ad avvertire una “certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto” quando l’immagine di un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento di una vitalità vigorosa, bastavano a riempirgli il cuore “d’una fiducia spensierata”. Venuta meno la spensieratezza col crescer degli anni e l’accumularsi delle scelleratezze, quel Dio, del quale aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di pregare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, nei momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridargli dentro: “Io sono però”. Questo Dio è annidato in ogni petto umano, e risorge appena cessi o s’interrompa la fiducia spensierata, e si cominci a riflettere, a misurare la vita, a vederla destinata a finire e a precipitare in un abisso senza fondo: quando il tutto che ognuno naturalmente crede di essere, accenna a mutarsi in un nulla.
III
La visione manzoniana della vita non è di un ottimismo fatalistico, come tante volte si è stati tentati di sospettare guardando all’opera della Provvidenza, in cui la visione si posa; anzi, considerato da un certo aspetto, il Manzoni può apparire piuttosto un pessimista, pel quale qualunque umana virtù, qualunque sforzo di buona volontà non riesce a liberare gli uomini dal dolore. E a un siffatto giudizio inclinerebbe chi volesse prendere alla lettera la conclusione fermata da Renzo e da Lucia dopo un lungo dibattere, e che, sebbene trovata da povera gente, l’autore dice di credere così giusta da meritar d’esser messa alla fine del libro come sugo di tutta la storia. Ricordate? “I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione, ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore”. Ma il sugo “vero” di tutta la storia, il Manzoni, così arguto, così fine, così esperto nell’arte di dire e di non dire, ed avvezzo ad accennare in iscorcio e indirettamente il proprio pensiero, non l’avrebbe mai dichiarato in modo tanto esplicito e formale, e proprio al termine del lavoro e quasi a solenne suggello del romanzo. La “vera” conclusione non è alla fine, né al principio, né in alcun altro luogo particolare del libro: sta nello spirito che lo anima, è in tutto il libro, come nella vita lo spirito è da per tutto poiché è nell’animo dell’uomo. Nella vita, dove sempre è sentita e sperimentata la verità che l’anonimo manzoniano ricava dalla famosa similitudine dei due letti: “E per questo si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene, e così si finirebbe anche a star meglio”. La quale verità è, poi, la verità stessa professata dal Borromeo: “La vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto”.
Il Borromeo stesso ci svela il segreto del mondo morale in cui la vita è, per davvero, un impiego: “Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’abnegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità ed a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan, dunque, esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero”. E quando il cardinale ricorderà a don Abbondio tanti precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrificio illimitato di sé, il Manzoni interverrà ad avvertire che “quelle cose erano dette da uno che poi le faceva”.
“Prendere sul serio” le cose che tutti han sempre ammirate ed esaltate; e perciò, non dirle soltanto, ma farle: ecco la grande novità della visione manzoniana della vita. Giacché, a giudicare dal suo astratto contenuto, il concetto che il Manzoni ebbe degl’ideali umani, sarebbe presto definito: cristiano, cattolico, spiritualista: forme che esistevano da millennii prima di lui; ed egli rientrerebbe, quindi, senza sforzo nella tradizione secolare dello spirito italiano. Ma egli sentì profondamente che tante cose si ripetevano; tante che, poi, non “erano prese veramente sul serio”; che la vecchia ed abusata rettorica aveva sempre consentito agl’Italiani dei secoli passati di tributare il più ampio omaggio di versi e di prose, di discorsi magnifici e di pompe solenni a cotesti ideali; ma che con la rettorica s’era sempre facilmente accompagnato lo scetticismo pronto a distinguere il dire dal fare e incline ad abbandonare la condotta, l’animo, l’uomo al naturale egoismo, alla pigrizia, alle passioni che troncano i nervi ad ogni generoso slancio di amore, ad ogni forte affermazione di se stesso, ad ogni sincero e reale culto dell’ideale. Ciò che il Manzoni, nei versi per l’Imbonati e nella lettera sul Romanticismo, chiama il “vero”, il “santo Vero”, che non si deve mai tradire, il vero che la poesia deve proporsi per oggetto “come l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole”, non era certo il vero di don Abbondio, ma quello di Federigo: l’ideale: non ciò che l’uomo è, ma ciò che dev’essere, e non a parole, o in artificioso mondo che valga soltanto pei letterati, per le loro abitudini scolastiche, e che ad un’altra parte del pubblico imponga una reverenza, non sentita, ma ciecamente ricevuta.
IV
Nel bisogno profondo di sincerità e di schiettezza, in cui l’uomo pensa quello che sente, e dice quello che pensa, e fa quello che dice, sta il motivo del romanticismo tutto “manzoniano” del Manzoni e della sua stessa dottrina della lingua, e, soprattutto, della sua concezione morale della vita. Concezione religiosa, in quanto veramente non c’è morale che non abbia un fondo religioso e non assoggetti l’individuo a una legge assolutamente superiore o rigidamente limitatrice del suo arbitrio; concezione, che ha la sua propria caratteristica non nel personale credo religioso dello scrittore, ma in cotesta sua profonda maniera, affatto originale e profondamente riformatrice, del rapporto intrinseco dell’uomo con la legge morale che è la stessa volontà di Dio. Alla quale nessuno quasi degl’Italiani aveva mai esitato – costava così poco! – di tributare la propria devozione, ma nessuno aveva reso quello che il Rosmini, il più grande amico del Manzoni, e per certi rispetti suo scolaro, chiamerà il riconoscimento pratico, tanto diverso dal riconoscimento teorico, della verità. “Prendere sul serio” le cose; non dire soltanto, ma fare; non distinguere più tra la vita di un uomo che viva per sé senza l’ideale, la legge e la divina volontà, e questa volontà, questa legge, questo ideale, poiché quivi risiede la stessa vita dell’uomo; non veder più Dio fuori di sé, quasi che l’uomo possa essere senza di Lui; ma sentirsi, alla radice, tutt’uno con Lui, senza possibilità di staccarne l’anima, non volendo condannarsi all’angoscia mortale dell’Innominato durante la notte prima della conversione o alla desolata e disperata fine di don Rodrigo; questa intimità del divino, questa adesione di tutto l’uomo all’ideale, questa incondizionata devozione dell’anima al “santo Vero”, che è pure il giusto e tutto ciò che ha un vero pregio per lo spirito, questa è la morale “eroica”del Manzoni, che predica l’amore e il sacrificio, ma per edificare una realtà migliore e per instaurare il regno dello spirito: eroica, perché, secondo il concetto del Manzoni, la volontà umana è propriamente morale allora, quando s’immedesima con la volontà divina, che accoglie in sé e fa sua.
Ma c’è eroismo ed eroismo; e l’amore del vero impedì al Manzoni di cadere nell’eroismo gonfio ed esaltato dell’entusiasmo che baccheggia per l’infusione del divino nell’animo umano e che pare importi la fine dell’umano. La morale eroica del Manzoni non è l’eroico furore di Bruno. E non è il mistico abbandono di un Pascal, tutto raccolto e chiuso nell’adorazione del divino. Il Manzoni non perde mai di vista l’umano che fronteggia il divino, come il punto di partenza da cui pur bisogna muovere per raggiungere la meta. Di fronte al cardinal Federigo ecco don Abbondio; al cospetto della morale santa del Borromeo, il Manzoni non dimentica l’umana debolezza che ha fatto sempre guardare a quell’ideale come a cosa più facile a dirsi che a farsi. E sorride, e riconosce per un momento, lui pure, la umanità di don Abbondio che ricalcitra e si smarrisce: “E per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano non avendo che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrificio illimitato di sé”. Dal fondo stesso di terrena umanità del povero curato non tralascia di mostrare come l’infiammata eloquenza del cardinale possa suscitare una più alta e più spirituale umanità. Don Abbondio stava zitto come chi “ha più cose da pensare che da dire” poiché, infine, le parole che sentiva eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica: “antica nella sua mente, e non contrastata”: non contrastata, ma nemmeno accolta nell’intrinseco, né riconosciuta praticamente con l’applicazione di tutto il cuore che la morale richiede. Si ricordi, pure, l’impressione prodotta nella vecchia del castellaccio dell’Innominato dal nome di Maria Vergine invocato dalla povera Lucia: “Quel nome santo e soave già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né, forse, sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, una impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce in un vecchione accecato da bambino”.
Don Abbondio, la vecchia, tutti, malgrado ogni più meschina e perversa abitudine, malgrado ogni più lungo oblìo, son capaci d’una tale rimembranza, che va oltre i primi anni della vita, alle origini misteriose, quando Dio depose il germe nel cuore dell’uomo. Quel germe rimase a lungo oppresso e soffocato dalle vane passioni del mondo, in mezzo ai più tenaci sterpi de’ bassi istinti; e l’uomo volgare, trascinato e dominato dalle passioni, si fece una filosofia della vita quotidiana, prosaica e scettica, se pur non cinica e vile: la filosofia più diffusa che ci sia, sempre disposta a sorridere di ogni idealismo e ad opporgli, così, la resistenza più dura a vincere; la filosofia delle verità più comunemente accettate come quella di don Abbondio “che il coraggio, uno non se lo può dare”: né il coraggio, né altra forma di buona volontà! Sancio Panza accanto a don Chisciotte: il buon senso dell’uomo medio, che con la sua critica dell’ideale lo limita e lo costringe a fare i conti con questo mondo, così diverso, e in cui l’ideale tuttavia deve attuarsi.
V
Ebbene, è qui la grandezza del Manzoni: non nell’ideale puro, astratto, senza riguardo alla vita mediocre di tutti i giorni: ma nell’ideale messo a contatto con l’umanità inferiore, e sogguardato, di tanto in tanto, con gli occhi di chi comincia da prima a sorriderne, e deve a lungo sperimentarne la forza e la potenza, per indursi, a grado a grado, a riconoscerne l’esistenza e il valore. Donde l’umanità, la grande umanità del “divino” manzoniano, che s’insinua in tutti i sentimenti e in tutti i rapporti della vita, che aleggia in ogni avvenimento e spunta, come fiore che sbocci sul suo stelo, da ogni situazione più comune; che è sempre presente e non si fa sentire, ma sussurra nei cuori una parola che, lenta, lenta, invade l’uomo e se ne impadronisce; spirito, come canta la Pentecoste, che scende e ricrea, rianima i cor nel dubbio estinti, negli animi attutisce le ire superbe, dona i pensieri che il memore ultimo dì non muta, ma che sono nutriti dalla virtù dello stesso spirito, simile a quella del sole,
Che schiude
Dal pigro germe il fior;
Che lento poi sull’umili
Erbe morrà non colto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto,
Se fuso a lui nell’etere
Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite,
E infaticato altor.
Questo “divino” è lo spirito che viene implorato affinché scenda, alito consolatore, ne’ languidi pensier dell’infelice. Bufera ai tumidi pensier del violento, insegna la pietà, che spira nell’ineffabile riso dei bamboli; tinge di casta porpora il viso delle fanciulle, e consacra il verecondo amore delle spose. Questo “divino”è da per tutto dove l’uomo si faccia innanzi con la sua gentilezza, col suo valore, con la sua intelligenza, col suo ardore di bene. E dal cuore dell’uomo si riverbera nella natura, e fa consentire i monti sorgenti dalle acque alla mite malinconia e al rassegnato dolore di Lucia; fa accrescer la pena e l’affanno di Renzo in fuga verso l’Adda, nel bosco, tra gli alberi dalle figure strane, deformi, mostruose per l’ombra delle cime leggermente agitate che tremola sul sentiero illuminato qua e là dalla luna, con lo scrosciar delle foglie secche sotto i piedi del fuggiasco, e con tutto l’orrore indefinito che muove guerra all’animo dell’infelice e minaccia di soverchiarlo; o fa scoppiare all’uscita di Renzo dal lazzaretto il diluvio, che nel risolvimento della natura, al dire del Manzoni, spinge Renzo a sentire più liberamente e più vivamente quello che andava maturando nel suo destino.
Un “divino” come questo redime tutta la vita che pervade, senza rivoluzioni, senza scosse, senza grandi casi straordinari: nell’umile casa di Lucia, come nei fastosi palagi dei signorotti spira egualmente, alito o bufera, lo stesso spirito. Guerra e peste, grandi perturbamenti sociali o sciagure d’intere popolazioni agiscono sulla via della Provvidenza al modo stesso dei pensieri, delle memorie, dei sentimenti che maturano nel segreto degli animi. In ogni più riposto e più angusto angolo della vita, lo stesso dolore e lo stesso conforto, la stessa miseria e la stessa forza divina consolatrice: purché l’uomo, alla Provvidenza, appunto, si rivolga, e la richieda del suo soccorso; purché l’uomo perciò “voglia”. La vita è, sì, un duro letto, come dice anche il Leopardi, ma la condizione dello “star bene”non è fuori di noi, bensì in noi. La vita, dunque, non è quella che troviamo, ma quella che ci facciamo con la nostra volontà. Una grande tragedia; ma il cui scioglimento dipende da noi, o da quel Dio al quale sta a noi rivolgerci per averne la forza atta a vincere ogni mondana potenza che ci si ponga di contro.
Il sentimento profondo di questa divinità universalmente diffusa e presente, ispiratrice di ogni cuore, restauratrice del mondo, che è il mondo dell’uomo; la religiosità che aleggia intorno alla divina Ermengarda morente, come sulla deserta coltrice di Napoleone; questa nuova forza sublimatrice dell’umana natura è, bisogna dirlo, “la scoperta” di Alessandro Manzoni, e la gloria eccelsa della sua poesia.
VI
Tale poesia può sembrare ai torpidi di mente e di cuore un canto di rassegnazione e di rinunzia. Essa è, invece, l’annuncio e la rivelazione della più possente energia, ignota a tutta la letteratura, poesia e filosofia, italiana e non italiana, dei secoli antecedenti. Essa sta sulla soglia del nostro Risorgimento, di quella sorta di miracolo che nella storia moderna di Europa fu compiuto da un “popolo di morti” – poiché morto parve agli stranieri il popolo italiano – a segnare l’inizio di un’era nuova. Un’era nuova era stata, bensì, preconizzata dall’Alfieri, ma più come un’esigenza che come un programma, più come via da percorrere che come luce che potesse illuminarla; l’Astigiano aveva sentito giustamente di profetare una nuova età per gl’Italiani, sottratti finalmente alla servitù straniera e risorti a dignità di popolo libero mediante la riforma interiore degli animi, la restaurazione del carattere e del volere; ma la sua profezia si era limitata ai pochi cenni del fine agognato. Chi entrò con la fiaccola in mano nel vasto mondo della vita morale, e l’esplorò irradiandolo di vivissima luce in ogni recesso, e scoprì le radici della pianta che bisognava rinvigorire negl’Italiani e che bisognerà sempre rinvigorire in tutti gli uomini, e rappresentò la vita governata da quelle forze che, uniche, possono dare un valore a tutta l’attività umana, trasfigurando la realtà in cui essa opera, è stato Alessandro Manzoni, il grande liberatore del popolo italiano dal secolare servaggio della letteratura, dell’arte pura, dell’indifferentismo e del dilettantismo, della rettorica e del classicismo vuoto e formale.
Per sentire la originalità del potente poeta, non occorre metterlo accanto a un pastore d’Arcadia del Settecento, ad un erudito o a un filosofante del secolo dei lumi. Basta avvicinarlo non dico al Monti, ma al Parini e allo stesso Foscolo, che pure gli aprono la strada; ma sono ambedue ancora letterati, con troppi ricordi di scuola, con troppe preoccupazioni d’arte, e, dove eccellono, più artisti che poeti. Il Manzoni, invece, combatte la mitologia, combatte le regole delle unità, combatte la lingua letteraria, e sente in ogni atto del suo spirito, a capo sempre di ogni suo impegno o proposito, l’essenza morale della vita, e l’impossibilità di nulla poter fare umanamente fuori della ispirazione vitale che sublima l’uomo nel mondo delle cose divine.
Signori, pensate alla spensieratezza dei nostri più grandi ingegni del Rinascimento, alla loro vita tutta assorbita nel culto delle cose belle e delle cosiddette arti liberali. E pensate quanta scrupolosa circospezione e quale vigilanza sul proprio pensiero e quasi trepidazione nell’esame d’ogni moto della propria anima in questo grande creatore della nuova poesia. Anche i nostri grandi del Risorgimento “prendevano” qualche cosa “sul serio”: l’arte, la scienza, la politica; ma ignoravano sempre ciò che il Manzoni sentì così vivamente; che, oltre l’arte e la scienza e la politica, non per legge della lor natura, ma per la legge della natura umana, a cui anch’esse appartengono e per cui anch’esse hanno un valore, c’è qualche altra cosa, che, prima dell’arte e della scienza e della politica, merita d’esser presa “sul serio”: ossia tutte quelle massime di premura operosa per gli altri e di sacrificio illimitato di sé, rispetto al quale Federigo Borromeo non distingueva tra dire e fare.
Sacrificio di sé: sarà, tra pochi anni, il motto di Mazzini, della “giovane Italia”, dell’Italia futura; sarà la legge del popolo che potrà risorgere a nuova vita, se l’individuo, riconosciuta in Dio la norma della propria azione e nell’ideale la ragione della propria esistenza, sarà pronto, quando sarà chiamato, a fare l’offerta di se medesimo con l’animo anelante ad espandersi in un più vasto cerchio d’amore.
E dietro a Mazzini la nuova Italia guarderà sempre a Milano. Qui verranno Gioberti, Cavour, Garibaldi; qui, amanti o no di poesia, e più o meno disposti a reverenza verso il capo glorioso ricinto dalla aureola dei grandi che seppero parlare al cuore delle moltitudini con la voce divina della poesia, si recarono o guardarono quanti lavorarono e soffrirono e lottarono per la nuova Patria ed ebbero fede in essa, e la vollero; qui cercarono il Poeta, come maestro e precursore: non il Poeta dei Cori, né quello dell’ode Marzo 1821, dove così commossa e fremente, come non mai, si era riversata nel primo anno stesso delle nostre rivoluzioni nazionali, l’anima italiana, ma il poeta degli Inni, delle Osservazioni e delle Tragedie e, segnatamente del Romanzo: il Poeta che aveva riscossi gli animi degli Italiani, discoprendo loro in un mondo ravvivato dal più alto sentimento umano, che nessuno prima di lui aveva così pienamente espresso, la verità che nessuno aveva mai detto: che la vita non è governata dal caso o da un volere maligno, ma da una legge di amore, la quale si attua nel cuore stesso degli uomini di buona volontà, se essi non si contentino di ripetere “che il coraggio, uno non se lo può dare”, ma si ricordino, piuttosto che il coraggio non è mai negato a chi abbia fede.
E dal Manzoni gl’Italiani, in una forma o nell’altra, cattolici o no, impararono che è la fede a creare il coraggio, e che una fede era, perciò, necessaria per liberare l’Italia dalla lunga servitù. E tutti concepirono il problema politico della patria come un problema morale, poiché morale era il problema fondamentale, dopo il Manzoni. E tutti intesero, benché variamente, che il problema morale della vita è essenzialmente religioso, perché richiede una regola che sia legge assoluta, di fronte alla quale l’arbitrio individuale non ha nessun valore: legge che sorpassa, perciò, infinitamente la sfera della iniziativa individuale, e non vi può penetrare se non con una forza che s’imponga imperiosamente, categoricamente, come può soltanto un divino volere.
Gli uomini del nostro Risorgimento ebbero tutti questa convinzione fermissima: che l’uomo deve uscir da se stesso, superarsi, affisarsi in un alto ideale, con animo sempre disposto al martirio della propria fede per creare qualche cosa di grande, di veramente umano e immortale. E sdegnarono, perciò, generalmente, la vaga letteratura – di cui s’erano gloriati oziosamente i loro avi – e ogni opera dell’intelligenza in cui non s’impegnasse e non si riformasse tutto l’uomo. E diedero esempio e spettacolo nuovo di costanza e fermezza di carattere, perché la vita concepirono religiosamente, seriamente, manzonianamente.
VII
Vennero poi gli epigoni, quando la grande opera nazionale parve compiuta, e si avverò la speranza che fu pure la fede invitta del nostro Poeta, con l’acquisto di Roma all’Italia e la restituzione del Pontefice a re delle preci, come l’avrebbe voluto Desiderio. Si attenuò lo spirito eroico che aveva animato a quella grande opera; e il Manzoni cadde nelle scuole, e in mano ai pedanti, ai confrontatori delle due edizioni, ai rimanipolatori della teoria della lingua, ai rimasticatori della morale evangelica. I motivi profondi del pensiero manzoniano, come accade nei tempi e negli uomini di scarso patrimonio spirituale e di lento moto dell’anima, decaddero nella più desolata superficialità; e quando più si parlò di manzonianismo, qualche anno prima della morte del Poeta e nel resto del secolo, meno Manzoni parlò al cuore e alla mente degli Italiani. L’età sua era tramontata, e il Poeta s’era partito e dileguato nelle lontananze più remote del cielo italiano. Il suo spirito era o sembrò svanito.
Ma, nel nuovo secolo, gli animi, a poco a poco, sono tornati a lui. La sua arte è stata scrutata nelle sue midolle. Le anime delle più giovani generazioni si sono mostrate più capaci di accostarvisi, d’intenderla, di sentirne l’essenza, di gustarne l’umanità austera e la virtù corroborante e rinfrancatrice. Oggi il Poeta risorge nei nostri cuori in tutta la sua grandezza: poeta dell’umanità forte senza violenza, sicura della sua fede nell’immancabile potenza del bene, certa dell’intima scaturigine di questa potenza nel segreto di ogni volontà; dell’umanità, che sa di ritrovare la sua vita nel divino, e di poter sempre riconoscere nel proprio petto questo divino, tutt’uno con l’uomo, senza che l’uomo si confonda con esso, sempre esposto, come l’uomo è, alle debolezze della sua natura, agli errori della sua intelligenza, ai colpi dell’avversa fortuna, alle mille e mille disavventure della vita quotidiana, ma capace sempre di riattingere, nel fondo del proprio animo, la divina forza liberatrice.
Oggi il Poeta grandeggia nel cielo d’Italia come uno di quei pochissimi grandi che in tutti i popoli e in tutti i tempi accolsero in sé il genio di un’epoca, per dargli la voce eloquente atta a comunicarne il motivo a tutte le generazioni venture. Volgendoci indietro a ripercorrere la nostra storia, a cercare le nostre recenti origini, a segnare la data da cui noi Italiani abbiamo cominciato a parlarci seriamente e a parlare quindi seriamente al mondo come uomini consci di tutta la serietà della vita, religiosamente concepita, di cui un giorno e sempre debba rendersi conto, della vita che è riposta nelle nostre mani, e di cui è infantile chiedere conto altrui, noi c’imbattiamo in questo nome venerato e caro a tutta la nostra gente; vediamo questo libro, che ha meritato di esser letto e riletto in tutto il mondo, e che tutti gl’Italiani certo amano e imparano a conoscere fin da’ più teneri anni, e al quale tornano sempre con nuovo animo scoprendovi sempre nuove verità e nuove bellezze; vediamo rifulgere una data, da cui in settembre saranno compiuti cento anni: il 1823, l’anno in cui fu terminato il romanzo immortale3.
Per gli spiriti superficiali questo romanzo insiste troppo sui più triti motivi della vita comune e volgare fino a ingenerare il fastidio nel lettore. Ai sottili intenditori d’ogni finezza d’arte e di pensiero presenta, invece, a ogni pagina, troppi problemi delicati di interpretazione e troppe sfumature difficili a cogliersi nel loro più preciso significato. Il vero è che l’arte del Manzoni conosce il segreto delle coincidenze strane soltanto per don Abbondio, che le ragioni di Perpetua ritrova sulle labbra del Cardinale; dove l’autore non tralascia di osservare che il curato avrebbe pur potuto riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui. La serva e il Cardinale hanno sempre occasione di pensare e sentire a un modo, l’una con la semplicità del buon senso, l’altro con la sapiente riflessione che libera dai pregiudizi: l’una e l’altro, perciò, illuminati dalla natural luce propria della schietta natura umana affisata nella verità di cui Dio la gratifica. La verità non è sulla cima dei monti, ma nel cuore degli uomini: tanto più facile a ritrovarvisi, quanto più intatto è il cuore e più innocente lo spirito che lo avviva. Lucia sgomenta il Nibbio e redime l’Innominato, sul cui animo non opera meno, essa, povera contadinella ignara e spaurita, che il Cardinale con la sua sapiente e faconda parola.
VIII
Il Manzoni fu spirito colto e addestrato nell’erudizione e nello studio dei sistemi, ingegno critico fino all’eccesso; adusato razionalisticamente a tutto esaminare, tutto discutere, tutto metter alla prova della critica; artista vigile sempre e guardingo verso l’arte propria e minuzioso ricercatore delle ragioni della medesima, cauto, diffidente e quasi incontentabile verso quella stessa lingua che felicemente gli fluiva dal labbro a delineare, colorire, ravvivare le figure degli uomini e gli spettacoli della natura, nel loro aspetto esteriore e nella loro anima ascosa; e perciò intento, spietatamente intento, a saggiare ogni parola che gli avvenisse di dire, a volgerla e rivolgerla da ogni parte, a saggiarne la lega; disposto a fare il processo anche alla storia, per giudicarla ne’ suoi attori e ne’ suoi principii; giudice severo, rigido, inflessibile. E tutta questa critica non avvolge solo ed accompagna il volo della sua poesia: ma vi si insinua e minaccia qua e là di fermarne l’impeto con indebite interferenze. Eppure, il Manzoni, nelle sue liriche, nei celebri cori, nella vasta e poderosa corrente che attraversa tutta la sua opera maggiore, è poeta di vena e signoreggiato irresistibilmente dalla ispirazione, come nessun altro, forse, di tutte le letterature. La sua poesia si sprigiona dal suo cuore con l’impeto d’una forza di natura. Nell’invocazione dello Spirito Santo, che si leva, coro universale di tutti i cristiani unificati nella preghiera da tutte le parti della terra al cielo (O Spirito! Supplichevoli – Noi T’imploriam!), o nell’addio di Lucia, non è né un’anima, né una moltitudine di anime, che canta con l’abbandono di sé a Dio o alle cose: è la terra, la natura, l’universo, che scende nell’animo del poeta, lo invade e riempie di sé, e ne trae una voce possente, divina. E qui è il culmine della vera poesia, in cui il poeta non è una persona, né un uomo che guarda in faccia a sé le cose, o Dio: ma “l’uomo” che assorbe in sé e trasfonde nel proprio animo il “tutto”, trascinando seco il lettore in un’onda di pensiero eterno.
Evochiamo la povera madre di Cecilia: “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci… “. È uno spettacolo intorno a cui pare s’accalchi tutto un popolo attratto da quell’oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo… Il poeta ci descrive l’aspetto della donna, e soggiunge: “Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, lo indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stanco e ammortito ne’ cuori”. In quali cuori? In Renzo, che s’è fermato a guardare? Renzo guarda, ma egli è dimenticato presto e scompare, poiché tutta la sua anima è nello spettacolo pietoso. Ci sono i monatti, un dei quali si fa innanzi per levar la bambina dalle braccia della donna, con una specie d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Anche il cuore del turpe monatto diventa premuroso, ossequioso agli estremi desideri materni dell’infelice “per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato”. Ma gli spettatori, che si commuovono a pietà non sono né Renzo né il monatto: è una folla invisibile, è la natura, che si stempera nel dolore infinito di quella madre, nel cui cuore pare agonizzi l’universo.
Nella poesia che esce dalle cose e dal tutto, è il riverbero della visione religiosa che il Manzoni ha della vita: la conseguenza di quel proposito e bisogno del suo spirito di “prender le cose sul serio”, di aderire alla verità, di stringersi a Dio e di aspirare a immedesimarsi con lui nell’unità, per cui Dio dal tutto ritorna e risuona nell’animo del Poeta; voce eterna e sola. Il che è, poi, il carattere di ogni grande poesia, la quale, perciò, parla un linguaggio universale, intelligibile ai semplici come ai dotti, linguaggio di alta spiritualità, che è pur linguaggio di natura, nel quale l’arte è spontaneità, la disciplina è libertà.
Il Manzoni, per questo rispetto, è tra i più grandi d’ogni tempo e d’ogni gente; e per tale sua dote eccellente, il suo libro, come quello di Dante, sarà sempre per gli Italiani un libro nazionale: libro di poesia e di verità, libro di cultura e di riforma morale. E gl’Italiani torneranno nei secoli a celebrar nell’autore non solo il poeta che donò la gioia della sua arte a tutti i popoli, ma il maestro che più d’ogni altro scrittore italiano insegnò agli Italiani l’arte di vivere degnamente.
***
La reazione antimanzonista4
Benjamin Crémieux
I
1870. Alessandro Manzoni, ultraottantenne (morirà a ottantotto anni, nel 1873) occupa nella letteratura italiana un posto analogo a quello di Victor Hugo in Francia. Ma, a differenza di Hugo, da quasi mezzo secolo Manzoni non ha più scritto nulla, all’infuori di qualche operetta di apologetica cristiana o di storia. Il romanzo I promessi sposi, il suo capolavoro, risale al 1827. Le odi e i drammi sono anteriori e scaglionati fra il 1815 e il 1825. Lontano dalla vita letteraria e quasi estraneo alla propria apoteosi, assiste al trionfo e, nel contempo, alla distorsione, all’imbastardimento della sua estetica. Foscolo e Leopardi paiono dimenticati; tutto il XIX secolo sembra riassumersi nel romanticismo moderato, nel cattolicesimo e nel liberalismo di Manzoni, interpretati nel modo più superficiale ed angusto. Nel manzonismo divenuto dottrina di stato nulla è rimasto dell’innato pessimismo di Manzoni (la cui espressione pudica, e talora bonaria, non ne diminuisce l’asprezza), del suo lucido scetticismo storico, del suo umorismo acuto e vigile, che conferiscono rilievo e profondità all’opera del “gentiluomo lombardo”.
I metri brevi, i ritmi ed il tono popolare che Manzoni aveva adottato per rinnovare, democratizzandolo, il lirismo religioso, nei manzonisti si sono trasformati in dozzinali cadenze uniformi buone per tutti gli usi: languide romanze, canti da oratorio o inni al progresso della scienza sotto il controllo della fede. La forma del romanzo storico da lui introdotta è degenerata in romanzi d’appendice erotico-patriottici o bigotti. La parlata toscana, ch’egli amava cogliere sulle labbra del popolo di Firenze per trasporla nella lingua scritta e dare così al suo stile un supporto vivo e concreto, diviene oggetto di culto mistico per una nuova specie di pedanti: alla lingua aristocratica ed “aulica” di Dante e dei massimi scrittori italiani si contrappongono il gergo e i riboboli5 della plebaglia fiorentina e, col pretesto della “purezza” toscana, si corre il rischio di dialettizzare l’italiano.
La stessa mediocrità nei contenuti: il moderatismo manzoniano si è mutato, nei suoi discepoli, in opportunismo, il suo cattolicesimo in bigotteria, il pudore in pruderie e il moralismo in ipocrisia puritana. Ogni libera affermazione individualistica o naturistica, ogni impeto lirico avrebbe dato scandalo. Imboscati nelle accademie, nelle case editrici, università e rubriche letterarie, i manzonisti fanno buona guardia: sono riservati loro i posti importanti e i successi. «Non sono», dirà il loro avversario più agguerrito, «uno di quei manzonisti che riscuotono contemporaneamente da quattro casse per mandare avanti la baracca». Tutta la letteratura ufficiale è manzonista.
Devo fare qualche nome? Fra i poeti, tre “celebrità”: Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, l’abate Giacomo Zanella, manzonisti tipici che, nel 1870, già toccano la sessantina. Eccellono in una melodia fluida e scialba, a cui la natura, la religione, la scienza e l’evocazione di casti amori forniscono temi diversi o intrecciati, ma sempre facili:
Chiusa in vel di puro argento,
Occhio e amor del firmamento,
Tu m’allegri, e m’impauri
Di tua gelida beltà.
(Giovanni Prati, Alla luna)
oppure su una conchiglia fossile:
Sul chiuso quaderno
di vati famosi,
dal musco materno
lontana riposi,
riposi marmorea,
dell’onde già figlia,
ritorta conchiglia.
Occulta nel fondo
d’un antro marino…
(Giacomo Zanella, Sopra una conchiglia fossile nel mio studio)
In essi non si scorge un poco di freschezza se non in casi rari, ove, accordando in via eccezionale la loro musa pedestre alla vita quotidiana, delineano certi dettagli familiari, l’angolo di una piccola città o di una campagna, un’impressione fuggevole.
Quanto di poesia diretta e popolare il manzonismo può ancora offrire, va cercato in alcune composizioni con ritornello di argomento guerresco: L’Inno di Goffredo Mameli, l’Inno di Garibaldi o la Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini:
Eran trecento, eran giovani e forti
E sono morti.
Sono i trecento soldati di Carlo Pisacane, che sbarcano per attaccare l’esercito dei Borboni:
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: – Dove vai, bel capitano? –
Guardommi e mi rispose: – O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella –.
Fra i prosatori: il vecchio Guerrazzi (66 anni), confezionatore di romanzi storici galanti e nazionalisti, raro esemplare di manzonista libero pensatore; il vecchio Tommaseo (68 anni), poligrafo cattolico, filologo e moralista secondo le formule in auge, ma la cui vera e potente personalità, allora completamente ignorata, emerge nella sua corrispondenza e in un romanzo di molto anteriore al 1870: Fede e bellezza, ove cielo e terra si scontrano, e una sensualità sfrenata si dibatte contro il terrore del peccato («Metà giovedì grasso, metà venerdì santo», diceva Manzoni di questo romanzo); e ancora, taluni debuttanti, autori di racconti e romanzi: Edmondo De Amicis, Anton Giulio Barrili, Salvatore Farina, il cui manzonismo non tarderà ad attenuarsi a contatto con altri influssi.
II
Solo due gruppetti di giovani scrittori, uno milanese e l’altro toscano, lottano contro il manzonismo trionfante. A Napoli, un piccolo numero di universitari – storici, critici, filosofi – costituisce un terzo gruppo al di fuori del manzonismo, più indifferente che ostile a tale degenerazione romantica. Si tratta di gruppi a compartimenti stagni che s’ignorano, o perlomeno sono dominati da preoccupazioni talmente diverse che non riuscirebbero certo a pensare di spalleggiarsi a vicenda contro il nemico comune, e sarebbero addirittura più inclini a combattersi fra loro.
Nella reazione antimanzonista che, nel 1870, si manifesta oramai da una decina d’anni, i napoletani non hanno avuto alcun ruolo attivo. Il loro influsso si farà sentire solo assai più tardi, e più nell’ambito della cultura e della critica che non in quello della creazione letteraria. La letteratura vera e propria ne sarà toccata solo indirettamente, anche se in maniera profonda. Tutto imbevuto d’idealismo hegeliano, considerato specialmente nelle sue applicazioni alla scienza politica, alla storia e all’estetica, il gruppo napoletano, preoccupato com’è di continuare la grande tradizione filosofica, che da Campanella e Vico porta a Vincenzo Cuoco, oppone al cattolicesimo manzoniano il proprio immanentismo, al moderatismo liberale il nazionalismo, all’idea di un’arte utilitaria e moralizzatrice l’intuizionismo estetico e la dottrina dell’arte come forma.
Della “Bohème” milanese, o Scapigliatura, oggi non resta quasi altro che un nome, una leggenda, una fioritura d’aneddoti. Gli Scapigliati (letteralmente: «scarmigliati») hanno costituito un gruppo romantico analogo a quello dei poeti francesi dell’Impasse du Doyenné6, ma nessuno ha attinto il livello di Gérard de Nerval, e i migliori non hanno superato di molto quello di Hégésippe Moreau. Ad eccezione di qualche sonetto, le loro opere sono cadute nell’oblio. Ma è durato il loro esempio. L’ombra della Scapigliatura ha aleggiato su tutti i tentativi di liberazione letteraria fondati su individualismo e sincerità che si sono in seguito succeduti in Italia.
Quel che la Scapigliatura rimproverava al manzonismo era il suo romanticismo all’acqua di rose, il suo amore per i “buoni sentimenti”, la carenza di slancio e di lirismo spontaneo, la mancanza di modernità. Gli Scapigliati sono stati gli Stürmer und Dränger, i Gilet rossi, gli unici romantici un po’ sguaiati della letteratura italiana, sebbene non manchino di un certo provincialismo e facciano pensare ai pallidi eroi di Murger più che ai Jeunes-France7 del 1830. Comunque, le influenze per loro determinanti provengono dalla seconda generazione romantica: dal Baudelaire della Charogne, dell’Albatros, del Vin de l’assassin, dal Théophile Gautier di Emaux et Camées («Quando morrò mettetemi / Prima d’inchiodar la mia bara…» e «Marzo che ride malgrado gli acquazzoni»), da Louis Bouilhet («Se resta ancora vino, lo berranno i lacchè»), e pure da Heinrich Heine ed Edgar Poe.
Anticlericali e persino atei, antimilitaristi, bevitori d’assenzio, amanti (almeno in teoria) dei “paradisi artificiali” e delle evocazioni macabre, frequentatori di caffè, poveri e oppressi dai debiti, in maggioranza morti giovani – tisici come Tarchetti8, suicidi come Uberti o Pinchetti – fra il 1860 e il 1870, gli Scapigliati lanciano il loro grido di guerra e proclamano il loro anarchismo misto ad un sentimentalismo spinto, alle volte, fino all’ipersensibilità. Emilio Praga9 e Arrigo Boito10 sono, con Igino Ugo Tarchetti, i rappresentanti più significativi del movimento. Inoltre, l’adesione di Boito alla Scapigliatura – così come quella di Camerana, divenuto in seguito magistrato – è stata, nella sua lunga carriera, solo un episodio giovanile.
Se si tenta di riassumere il loro contributo, occorre innanzitutto osservare che sono stati i primi ad introdurre in Italia l’idea dell’artista puro, del suo diritto alla libertà assoluta e, in via accessoria, il disprezzo dei borghesi. Per primi, ancora, hanno introdotto in Italia la nozione delle “corrispondenze” fra le arti: Praga è pittore, Boito musicista, Tarchetti critico musicale; e la pittura di un Carcano, di un Bianchi o di un Tranquillo Cremona deve non poco alla frequentazione degli Scapigliati. Dal punto di vista strettamente letterario, agli Scapigliati va ascritto il merito di esser stati, pur con qualche goffaggine, gli apostoli della “modernità”, di aver tentato di “torcere il collo” all’eloquenza, e, nonostante i puerili eccessi, di esser stati gli iniziatori dell’impressionismo e della poesia intimista in Italia.
Tarchetti resta il rappresentante più caratteristico della Scapigliatura. Praga, che forse scrive meglio, è più vicino al Parnasse ed è stimato soprattutto per quei suoi trilli d’allodola, per quella sua frescura d’acqua corrente in un bosco di castagni, che tuttavia non hanno nulla di specificamente scapigliato. I racconti di Tarchetti (Storia di una gamba, Un osso di morto, Lo spirito in un lampone), come le sue poesie (M’avea dato convegno al cimitero o Vorrei saper quanti baci fur dati) hanno un’ingenuità toccante nel macabro, nel bizzarro, nel folle. Il suo famoso sonetto Ell’era così fragile e piccina11, pur nella sua prosaicità alla Coppée, resta comunque il prototipo di una serie non conclusa.
Ma la Scapigliatura non è stata che una parentesi, strettamente circoscritta, priva d’influssi immediati. Il gruppo toscano, e più precisamente il suo capo, Giosue Carducci, si sarebbe fatto carico di affrontare direttamente il manzonismo, di smantellarlo e prenderne il posto fino a divenire, a sua volta, letteratura ufficiale, dottrina di stato contro la quale vedremo verificarsi un’inevitabile e necessaria reazione all’inizio del XX secolo. Il carduccianesimo che, dal 1890 al 1910, riempirà riviste e giornali, non sarà molto meno insipido e opportunista del manzonismo del 1860. Ma, ridotti alle opere e alle persone di Manzoni e di Carducci, questi due grandi movimenti – di cui il primo ha dominato l’intera letteratura italiana dal 1840 al 1875 e l’altro dal 1875 al 1905 – si raccordano e si prolungano come ultime espressioni tutte nazionali di un’Italia astratta, mitica che, dopo la presa di Roma, cede gradualmente il posto al regionalismo, si espande nei suoi sogni imperialistici o si sforza di europeizzarsi.
***
La religione del Manzoni12
Adolfo Omodeo
La religiosità manzoniana si stacca quasi isolata nel mezzo della vita spirituale dell’Ottocento. Si chiamino a raffronto non solo l’aspro e acre cattolicismo di un Cantù o di un Tommaseo, ma anche gli indirizzi ben più audaci di un Lambruschini o di un Ricasoli: risalta nel Manzoni un’aderenza immediata al contenuto evangelico del cristianesimo, una sempre vivace presenza, nell’animo, del dramma salutare della croce vissuto in tutti i suoi momenti..
E queste stazioni il Manzoni ravviva liricamente nei suoi inni. Loci theologici e motivi liturgici, anche se non sempre felicemente coordinati tra loro, si ravvivano e divampano in una commozione adorante. Fin l’antico dogma della eterna generazione del Figlio dal Padre esplode in una vertigine, in cui si perde la forza contemplativa del poeta:
O Figlio, o Tu cui genera
L’Eterno, eterno seco;
Qual potrà dir nei secoli
Tu cominciasti meco?
La leggenda di Maria egli la rivive e la rappresenta come l’esaltazione in gloria di una Lucia giudea. Apre l’animo all’azione dello Spirito:
Discendi Amor: negli animi
L’ire superbe attuta:
Dona i pensier che il memore
Ultimo dì non muta:
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude;
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior…
Tende a dare al mito religioso l’evidenza suasiva:
Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa…
Quest’aderenza al contenuto positivo della fede è notevolissima, quando si abbia presente l’aspetto comune della apologetica del secolo XIX (Maistre, Lamennais, Lambruschini, ecc.). Come credo d’aver dimostrato altrove13, nei suoi vari indirizzi l’apologetica del secolo XIX è apologia della religione contro la filosofia del secolo XVIII; e non senza un salto logico dalla dimostrazione del valore della religione in genere e della sua funzione di civiltà si passa al concreto contenuto cristiano: con argomentazioni pragmatistico-autoritarie che si svolgono nell’interpretazione negativa dei dogmi, quali barriere contro l’errore, o nella loro interpretazione pratica, quali strumenti ed esercizi per la pietà. Il preambolo, insomma, esaurisce il poema, la introduzione il corpo della dottrina: il mistero cristiano rimane libro chiuso, accettato nel complesso. Invece, il Manzoni è tutto in una fase più arcaica: contrario ad ogni forma di latitudinarismo, riman fermo all’interpretazione antica del dogma come formula che all’animo credente deve rivelar tutta la ricchezza della conoscenza del Cristo, rimane nel senso diretto e pieno della salute cristiana corrispondente alla obiettiva realtà della corruzione umana.
Più volte si è cercato di dedurre questa religiosità manzoniana dal giansenismo e si è cercato di rintracciare nel romanzo, negli inni sacri, nelle tragedie, i temi tradizionali della teologia giansenistica. Spesso però si è incorso nell’inconveniente, che ha dato buon gioco ai sostenitori della perfetta ortodossia manzoniana, di alterare un momento della fantasia artistica in argomento teologico.
In una recente opera14, il Ruffini s’è posto invece per un’altra via. Ha indagato con un’informazione sterminata, con ricerche fruttuosissime, la biografia del Manzoni; ha studiato uomini e cose con cui egli fu in rapporto; ha frugato l’archivio giansenistico di Parigi, e ha rievocato il superstite cenacolo dei devoti di Port-Royal, entro cui i Manzoni si convertirono nel 1809-10 e si confortarono nell’ultimo viaggio a Parigi nel 1819-20. Ha ricostruito tutta l’attività religiosa del Dègola, maestro di religione del Manzoni e pervicacissimo fra tutti i giansenisti; ha ricostruito tre dispute religiose sostenute in diversi tempi dal Manzoni: con monsignor Alvisini, vescovo di Fossombrone; con l’abate (poi vescovo, arcivescovo e cardinale) Billiet e col pastore protestante Caton Chenevière: e poi i rapporti col Tosi, il diverso atteggiamento del Manzoni verso il Lamennais, i lunghi anni del silenzio, i rapporti col Rosmini, i tormenti della seconda edizione della Morale cattolica, l’avversione del potere temporale e le illusioni per cui il Manzoni indulgeva all’infallibilità dottrinale del papa.
Attraverso tale ricerca, rovinano miti e fantasie degli interpreti cattolici: di un presunto ritorno del Manzoni o del Dègola al cattolicismo ortodosso, le costruzioni macchinose del Salvadori e le troppo sottili interpretazioni del Crispolti. L’adesione tenace del Manzoni alle tradizioni di Port-Royal come a sorgente viva di religiosità, il suo vivere come rinchiuso entro le idee religiose del Seicento francese, la connessione del liberalismo democratico e unitario del Manzoni con gli spunti giansenistici, certe affinità fin con i convulsionari e i visionari del giansenismo settecentesco, i nessi della speranza manzoniana nella finale conversione d’Israele con la escatologia infiammata e protesa verso la consumazione dei tempi del Dègola, l’ammirazione e la venerazione per un uomo divenuto bersaglio degli odi reazionari e cattolici, il Grégoire, non lasciano ormai dubbio sulla genesi della religiosità manzoniana. Il giansenismo, come un fiume carsico inabissato, riaffiora nel principio dell’Ottocento quale nuova sorgente da cui, è singolare, attingono qualcosa gli uomini più significativi del Risorgimento: non solo il Manzoni, ma il Mazzini, il Cavour, il Gioberti, il Lambruschini, il Ricasoli, e si può dire tutto il cattolicesimo liberale.
Questa dimostrazione rigorosissima e documentatissima, che, solo col rievocarci la vita e i discorsi del cenacolo giansenistico parigino in occasione del centenario della distruzione di Port-Royal, dà la giusta misura della conversione dei Manzoni avvenuta in quel torno di tempo per opera del Dègola, che aveva tenuto il discorso secolare sulle rovine dell’abbazia famosa; questa dimostrazione ha dato non poche preoccupazioni ai sostenitori della piena ortodossia del Manzoni, e da ogni parte han cercato di arginare le conclusioni che, se non distaccano del tutto, certo differenziano il Manzoni dall’ortodossia cattolica.
A questa difesa che, sia detto senza far torto a nessuno, documenta l’ostinato contrasto fra storia e cattolicesimo, han dato mano i cattolici più in vista: Filippo Crispolti, Giulio Augusto Levi, Pietro Fossi. Si cerca di limitare a Enrichetta o a Giulia Manzoni le simpatie giansenistiche, di porre un interrogativo alle conclusioni che i documenti logicamente esigono; si studiano tutti gli alibi possibili, per sostenere che il Manzoni passò intatto in mezzo al giansenismo: pertransivit viam mali, sed non mansit in ea. L’argomento più forte di questa difesa è che, alla fin dei conti, il Manzoni non è un teologo né uno spirito teologale, né è possibile ritrovare nei suoi scritti alcuna proposizione eterodossa: ciò che fa ritenere che l’alto suo spirito si sia tenuto fuori dalla mischia teologica.
Ma l’argomentazione è speciosa. Mira a colpire quello che forse è il difetto del Ruffini: la tendenza a dare una certa preponderanza al momento intellettuale e dottrinale del giansenismo. Ma, come del resto è ben noto, il giansenismo sfuggì quasi completamente ad ogni definizione teologica di eresia, né a fermarlo nel suo aspetto valsero le cinque proposizioni, né i formulari di sconfessione, né la costituzione Unigenitus. Dal Pascal al Gazier, il giansenismo passò per un fantasma, per un’ «eresia impercettibile», per uno spauracchio da bambini15, e fu considerata eresia solo per la crescente confusione, che si accentua nel recente cattolicesimo, fra violazione di disciplina ed eresia, sì da considerare la disubbidienza forma pratica di eresia e di disconoscimento della dottrina della chiesa.
In concreto, il giansenismo fu qualcosa di ben diverso da una pura bega teologale fra dottori. Lo stesso interesse umano che desta la sua storia mostra che in esso palpita qualcosa che va ben oltre le distinzioni e le cavillazioni scolastiche sui diversi tipi di grazia, e la lunga logomachia dei teologi della Sorbona.
A ben considerare, le varie formule teologali escogitate a definirlo o a condannarlo, non sono che inadeguate trascrizioni intellettualistiche d’una vivida vita religiosa, che non poteva più dilatarsi e fiorire nella chiesa post-tridentina. Il giansenismo (e l’opera del Ruffini, pur con quello che abbiamo chiamato il suo difetto, ne reca copiosissimi documenti) è un modo speciale cristiano-arcaico – e per questo motivo messo sotto il patronato del vescovo di Ippona –, di vivere la religione. Per dirla con Paolo, un operare la propria salute in pavore e tremore; quel ravvisare il contenuto di fede in un’intima visione del riscatto, che abbiamo notato caratteristica del Manzoni; sentir la redenzione e la salute cristiana come coessenziale al processo del mondo; ritrovare il proprio personale riscatto sentito e voluto dal Cristo nelle lacrime e nel sangue versati a Getsemani e sul Golgota, proprio come l’intuisce il Pascal nel Mystère de Jésus; dilatare il proprio cuore in questa fede come in un’aura paradisiaca, in novità di vita, che si distacca dal fondo oscuro d’una naturale peccaminosità e da una fatale perdizione: questa l’intuizione arcaica e, a rigore, protocristiana del giansenismo. E avveniva che questa stessa fede che ravvivava il mistero della salute, era sperimentata come una grazia, avveniva che i credenti si sentissero ravvolti dalla carità di Cristo che precede, accompagna e dà la sostanza stessa dell’anima, l’opera che si opera, la carità che riscalda; avveniva che il terrore dei terrori fosse l’uscir da questa fede, da questo stato psicologico, dalla grazia di Dio. Sicché non era contraddittorio, nella concreta vita religiosa, che questa coscienza della grazia si accompagnasse alla vita più austera, a una consacrazione della vita, che è opera dell’amore di Cristo, a Dio.
Dice un cattolico ortodosso citato dal Ruffini:
Les Jansénistes priaient dans un siècle où peu de gens trouvaient le loisir de penser sérieusement à Dieu; ils s’instruisaient dans leur religion pendant que cette étude un peu aride reboutait les esprits légers et glissait sur les natures grossières; ils avaient le culte de la vie de famille et menaient une conduite chaste au milieu des désordres et des scandales qui s’affichaient autour d’eux. A travers le Jansénisme se sont conservés dans beaucoup de familles de la bourgeoisie française le respect de l’autorité paternelle, l’amour du foyer et de ses joies intimes, le dédain des faveurs de l’Etat, lorsque ces faveurs sont à vendre, le dévouement désintéressé à la chose publique, en un mot, la dignité de la vie16.
Nous ne pouvons rien sans cette grâce; nous sommes à chaque instant en danger de l’affaiblir ou de la perdre entièrement. Je comprends à présent combien la vigilance est nécessaire. Est-ce à cela que se rapporte ce passage: «veillez et priez de peur que vous n’entriez en tentation»? N’est-ce pas ancore à cela que se rapporte cet autre passage, «que nous travaillons à notre salut avec crainte et tremblement»?
Così, appunto, ricapitolava l’insegnamento catechistico del Dègola madame Geymuller, che precedette di poco, nella vita della conversione, Enrichetta Manzoni17. Tutta la vita si illuminava e pendeva da un principio trascendente: in contrasto col gesuitismo che, transigendo col mondo, vanificava la coscienza della salute, e degradava l’estetica nello spirito giuridico della casistica.
La carità di Cristo – la quale insieme abbraccia i credenti e vive nei cuori – s’effonde, infine, nella poesia della chiesa, unità d’anime e di cuori, così viva negli scrittori giansenisti: essa poi, nel cattolicesimo, doveva offuscarsi proprio nella consumazione del dispotismo assoluto papale, come nelle cose temporali il cittadino e la coscienza civile scompaiono nell’illimitato potere del despota.
Inteso come vita religiosa, il giansenismo rappresentava una sopravvivenza arcaica nel cattolicesimo post-tridentino. Urtava nella macchina di guerra eretta contro la Riforma. Non tanto perché esso, come volevano i suoi nemici, fosse effettivamente una forma spuria o dissimulata del protestantesimo, ma perché includeva molti di quegli atteggiamenti di cristianesimo medievale o antico, da cui era scaturita la Riforma: la riflessione, il ravvivamento, la reinterpretazione della fede, non controllata dall’Ecclesia docens, una fluenza fuori dal rigore immobile del dogma a cui tendeva la Chiesa. Nel Medioevo, e i Fraticelli e Dante e santa Caterina potevano ridispiegare a se stessi e ricommentare i quadri della fede; ma questo processo di riassimilazione e di ponderazione della fede deviava spesso in reinterpretazione di dubbia ortodossia o di piena eterodossia di patari, beghini, lollardi. Da questo stesso processo, si genera l’intrepida testardaggine del dottore di Wittenberg. La Chiesa, che aveva interdetto ai laici l’uso della Bibbia, doveva analogamente tendere a interdire quest’autonomia di riflessione religiosa: chiudere nel sancta sanctorum il mistero della fede, farne il monopolio dell’Ecclesia docens, evitar quest’inconveniente che generava la terribile opinione privata protestante, del singolo cioè che opera la propria salute, della dama o della monaca che scrutano i misteri religiosi. «State contente umane genti al quia». Il dogma irrigidito finiva ad uscir dalle coscienze. Certo, la Chiesa non poteva apertamente enunciare quest’interdetto, ma la prassi gesuitica corrispondeva a quest’indirizzo: pratiche e cerimonie di culto molte, e quanto mai scarsa riflessione religiosa, accettazione passiva di un catechismo. E, nella vita morale, uccisione dello scrupolo, il tarlo che fa divampare il furore dell’esame: convinzione generica nella bontà di Dio e lassismo. Riduzione dell’etica dall’interiorità della coscienza alla casistica del confessionale, facendo valida, anche per il giudizio di Dio, una formale, esterna non imputabilità. In ciò, i gesuiti continuavano il tradizionale atteggiamento della Chiesa fin dall’inizio della prassi penitenziale: di non atterrire le moltitudini col rigore di vita e di non ridurre la Chiesa a una piccola conventicola di perfetti. Mummificandosi il dogma, estinguendosi la coscienza morale, si accentuava nella Chiesa l’attività della politica pastorale, il dominio delle moltitudini ridotte veramente a gregge, per un abêtissement ben diverso da quello predicato dal Pascal: verso uno stato consimile a quello degli indigeni delle colonie gesuitiche del Paraguay. La disciplina uccideva la coscienza, e distruggeva in sostanza le forze che presumeva ordinare, come sempre ogni disciplina che non si subordini a un fine ma si faccia fine a se stessa. Invece, nel giansenismo operava la tendenza contraria, a ridurre al minimo l’azione politica e giuridica della chiesa: a mantenere – come nella chiesa d’Utrecht – le autonomie locali, a considerare il papa come il re delle preci: ad accettare per la Chiesa anche situazioni temporalmente limitatissime; come quelle del periodo repubblicano e imperiale in Francia, bastando a queste anime pie l’accesso al sacramento e la fioritura di vita intima e d’opere di carità conseguenti.
Questi due indirizzi, che ora possiamo definire attraverso una lunga esperienza storica, nel loro porsi non avevano piena coscienza di sé. In molti casi, non osavano definire i propri fini perseguiti istintivamente (interiorità di preghiera e d’adorazione da una parte, disciplina ecclesiastica e dedizione al papa dall’altra). Vennero tra loro a conflitto sulla questione teologale della grazia e sul lassismo morale dei gesuiti. Su di un’ala vinsero, nella chiesa ufficiale, i gesuiti e vessarono con tutte le armi possibili i giansenisti, tentando di definirne l’eterodossia; sull’altra, in un primo tempo, dopo il grande urto del Pascal, la chiesa di Francia, per opera del Bossuet, investì e sconfisse il lassismo. Ma, in un secondo tempo, l’indirizzo gesuiteggiante, coll’attenuato probabilismo di sant’Alfonso, trionfò definitivamente del rigorismo: con un lavoro assiduo, secolare. Il giansenismo, che la costituzione Unigenitus non aveva potuto estirpare, spirò quando, crollate le chiese nazionali autonome durante la Rivoluzione, l’orientamento gesuitico trionfò e nella questione morale e nel dominio delle masse inferiori verso cui, dopo la Rivoluzione, ripiegava la Chiesa, che aveva perduto il dominio sulle classi colte d’Europa. Il concilio vaticano pose il suggello a questa novissima evoluzione religiosa della chiesa cattolica. E che, nel suo moto complessivo, la Chiesa si sposti lontano dal senso mistico della croce di Cristo, la quale vigoreggiava nel giansenismo e si elevava a sublimità poetica nel Pascal; che il significato centrale della redenzione rimanga vulnerabile dal lassismo etico e dallo spirito mondano; che la salute cristiana tenda a diventare un momento classico, ma non più attuale del cattolicesimo, lo mostra il fiorire, nella concreta prassi religiosa e nel culto, di motivi esorbitanti l’originale nucleo evangelico del riscatto: come il culto del Sacro Cuore di Gesù, quello iniziale del Sacro Cuore di Maria, l’Immacolata Concezione, lo sviluppo esorbitante del culto dei santi; si ha il frantumarsi dell’unitaria visione cristiana che poggiava sui presupposti soteriologici del cristianesimo antico; basta non confondere gli enunciati teologici con la vita religiosa effettuale.
Se si va oltre la concezione teologale del giansenismo, se si considera la vita religiosa nella sua pienezza, il contributo della ricerca del Ruffini è definitivo. Chiarisce la genesi e il senso della pietas manzoniana. I dubbi sul giansenismo manzoniano – in tutto analoghi a quelli levati nei riguardi del giansenismo del Pascal – sono fondati su di uno schema astrattamente teologico del giansenismo. Ma, come vita religiosa, il Manzoni è l’ultima vetta del cristianesimo arcaico e medievale, che si riallaccia alle vette del mondo liberale moderno: quella sua simpatia pel moto rivoluzionario non sarebbe stata possibile senza una fede consimile a quella del Grégoire. L’obiezione, che potrebbe parere ad hominem, già stata rivolta al Crispolti, – come potete rivendicare per voi una comunione di fede col Manzoni, quando disconoscete l’ideale liberale e democratico che fu suo, quando confessate d’aver pianto il 20 settembre 1870? – ha una forza non lieve contro tutto il recente cattolicesimo, che ha sconfessato e anatomizzato gl’ideali in cui si effondeva la religione del Manzoni.
Il mondo manzoniano è pur sempre un mondo pascaliano, una contemplazione della grandezza e della miseria dell’uomo. L’uomo trova un valore solo nella misericordia di Dio: Napoleone non meno di Renzo Tramaglino, ché l’Eterno non fa eccezioni di persona. Il faticoso travaglio degli orgogli e delle ambizioni, degli amori e degli odi, son contemplati, o pietosamente o ironicamente, dall’unica vera grandezza, dall’unico porto di quiete,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò:
nella bontà infinita, diciamo pure nella grazia di Dio, che avvia pei «floridi sentier della speranza». Questo motivo costante, che ritorna nel secondo coro dell’Adelchi, nel Cinque maggio, nella conclusione del romanzo, il quale non può avere altro significato se non di dedizione al Dio sempre attivo, a cui spetta l’iniziativa, al
…Dio che atterra e suscita
Che affanna e che consola,
è il vero motivo lirico dell’arte manzoniana come è il tema della sua religione. E – sia detto per incidente, – credo che quei critici che, come il Citanna, vanno cercando la poesia manzoniana entro i limiti dei personaggi del romanzo si pongano fuori dal suo ritmo lirico, per applicare un canone inconsciamente shakespeariano: del personaggio in sé poetico. Quei personaggi il Manzoni li compone, li fa agire, li decompone con spietata analisi, perché concorrano, semplici elementi astratti, a questo senso poetico e insieme religioso della vita in Dio.
Tornando alla questione religiosa, se il Manzoni giunga effettivamente a proporzioni eterodosse, è cosa che riguarda il Santo Uffizio: a noi interessa ben poco. Quello che il Ruffini ha mirabilmente provato è questo: che il Manzoni appartiene ad una formazione religiosa schiantata e distrutta dal processo storico del cattolicesimo.
Del resto, se è vero che il Manzoni non fu teologo e che l’opera sua ha una pienezza umana e artistica che supera gli schemi teologici, non è men vero che, proiettando in un piano teologico la sua opera poetica, si ricavano schemi schiettamente giansenistici. Valga un esempio, che mi vien suggerito dalla lettura dell’opera del Ruffini18: La Pentecoste (da cui il Crispolti voleva dedurre l’ortodossia manzoniana19) ribolle di motivi condannati dalla costituzione Unigenitus. L’inno è in sostanza un inno alla Grazia. Non va dimenticato che teologicamente lo Spirito è il contenuto della Grazia, il dono di Dio, la forza santificante che si sovrappone al difetto dell’umana natura: insomma lo Spirito è la designazione concreta, la Grazia la designazione astratta d’una stessa realtà. L’inno, che al dir del Carducci è l’esaltazione d’ogni umano valore e d’ogni santo affetto, deriva però questi valori da un fatto storico, da un atto speciale. Prima del dono dello spirito non si può parlare né di bene né di virtù, ma di splendidi delitti, secondo il motivo agostiniano-portorealista. La stessa Chiesa,
Compagna del suo gemito
Conscia dei suoi misteri,
la Chiesa, figlia immortale della vittoria del Cristo, fuori dell’assistenza della grazia, dei doni dello spirito è destituita d’ogni pregio.
In tuo terror sol vigile
Sol nell’oblio secura
Stavi in riposte mura, …
è in sostanza, una variazione dell’esempio classico addotto dai giansenisti: di Pietro che rinnega perché gli vien meno la Grazia. In proiezione teologica, emergono quindi talune proposizioni quesnelliane condannate dalla bolla Unigenitus, la XIX per esempio:
La volonté, que la grâce ne prévient point, n’a de lumières que pour s’égarer, d’ardeur que pour se précipiter, de force que pour se blesser: capable de tout mal, et impuissante à tout bien.
La proposizione VI ribadiva, in sede storica, lo stesso concetto:
Quelle différence, ô mon Dieu, entre l’Alliance judaïque et l’alliance chrétienne! L’une et l’autre a pour condition le renoncement au péché et l’accomplissement de votre loi; mais là vous l’exigez du pécheur en le laissant dans son impuissance; ici vous lui donnez ce que vous lui commandez, en le purifiant par votre grâce.
E l’inno manzoniano riecheggia:
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;
Che lento poi sull’umili
Erbe morrà non colto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto,
Se fuso a lui nell’etere
Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite
E infaticato altor.
Infine, l’inno allo Spirito che s’irradia tutto in carità, si proietta nello schema teologico della LI, della LIV e della LV proposizione.
La foi justifie quand elle opère: mais elle n’opère que par la charité.
C’est la charité seule qui parle à Dieu: c’est elle seule que Dieu entend.
Dieu ne couronne que la charité: qui court par un autre mouvement et un autre motif court en vain.
E il Manzoni concorda sostanzialmente: lo Spirito, che è amore, carità, è tutto; esso solo commenda presso Dio il fedele, colle opere d’amore: echi giovannei non più accetti al cattolicesimo gesuitico.
Chi continuerà a compenetrare l’opera manzoniana con la storia religiosa avrà modo d’apprezzare adeguatamente il grande contributo recato anche in questo campo dal Ruffini.
***
Tornando sul Manzoni20
Benedetto Croce
Ho letto che in Inghilterra ha avuto grande fortuna una nuova traduzione inglese che è stata fatta ora dei Promessi sposi, e mi sono ricordato che, circa settanta anni fa, una bella signora svedese, che era stata a lungo a Londra e con la quale m’incontrai in uno stesso albergo delle vicinanze di Napoli, conversando mi raccontò che, essendosi recata da un libraio, assisté allo spettacolo di una signora inglese che entrò furiosa e depose o piuttosto gettò sul banco un libro, dicendo: «Mi avete dato un libro illeggibile, noiosissimo». Ed essa andata via, la signora guardò di che libro si trattasse e vi lesse sopra: MANZONI, I promessi sposi.
è da augurare che la critica letteraria europea cominci a fare ammenda della fredda stima in cui ha tenuto l’opera del Manzoni, che è nel numero delle opere capitali della letteratura europea nel secolo passato. Per parte mia, soglio rileggere questo libro periodicamente e ne traggo sempre commozione e conforto, e sempre rinnovata ammirazione per la perfezione della sua forma. Può sembrare strano che io dica ciò, avendo altra volta stampato che i Promessi sposi sono una bellissima «opera oratoria»21; ma veramente debbo confessare che quella impropria parola nacque da un errore o piuttosto da una grossa distrazione nella quale incorsi nel criticare il giudizio corrente e che fu anche del De Sanctis22, che i personaggi del Manzoni si distinguano in concreti e realistici come Renzo e don Rodrigo, astratti e ideali come Lucia e fra Cristoforo, e intermedi come don Abbondio; ed io affermai per contrario che il Manzoni usava lo stesso metodo per costruire gli uni e gli altri, e volevo dire che gli uni e gli altri erano prodotto della stessa fantasia artistica, cosa che mi sembra sempre verissima.
Ma quanto all’«opera oratoria», sarei impacciato nell’assegnare l’origine del mio errore, perché vi ebbe parte lo zelo di irreprensibilità cattolica del Manzoni e l’osservazione dello Scalvini, che i Promessi sposi non si svolgessero sotto libero cielo ma sotto la volta di una chiesa; per non dire delle vivaci critiche del Settembrini che in verità non ebbero molto potere su di me. Comunque, da ciò venne che concepii l’idea di una sorta di fusione nell’opera del Manzoni tra Poesia e Oratoria; dal che avevo il dovere di guardarmi più che altri, per la feroce insofferenza da me sempre manifestata per la confusione nella quale artisti e critici incorrevano della Poesia con l’Oratoria. Ma dire l’origine di un errore o di una distrazione è sovente assai difficile, e tale è nel mio caso. Pel quale debbo confessare che sono rimasto molto mortificato tra me e me quando vi sono tornato sopra, ancorché nessuno me n’abbia rimproverato come io meritavo.
Dopo questo ben chiaro mea culpa, alcune correzioni, come è naturale, sono da introdurre in ciò che ho scritto del Manzoni per questa parte, e ne lascio la non difficile cura agli intelligenti lettori.
Piuttosto, sarà da soggiungere qualcosa sul sentimento cattolico del Manzoni: cioè, che esso risponde a una concezione morale della vita quale anche un non cattolico ma di alto animo fa sua. E forse in ciò è la vera origine della diffidenza che la Chiesa cattolica ebbe verso il Manzoni, nel quale non trovava nessuno dei motivi che servivano alla sua politica. Della qual cosa si avvide presto Carlo Cattaneo, che disse che la Chiesa cattolica assai volentieri avrebbe bruciato sul rogo Alessandro Manzoni. E anche di recente abbiamo udito borbottare contro il Manzoni, poco cattolico, che nel suo romanzo aveva messo insieme una monaca incestuosa, un frate omicida, e un parroco vigliacco, e si era mantenuto tacitamente giansenista in tutta la sua vita. Il vero è che precipuo pregio dei Promessi sposi è la sincerità, sempre rigorosamente osservata dal suo autore, che non mostrò di farsene un vanto e la praticò con semplicità di movimenti.
Note
- Jacob Burckhardt (1818-1897) è stato indubbiamente uno dei maggiori storiografi europei dell’Ottocento. Radicalmente avverso alle tendenze prevalenti nella società industriale dell’epoca, così come agli idealismi e agli storicismi allora in auge, l’insigne studioso svizzero andò via via sviluppando un metodo storiografico noto come Kulturgeschichte (storia della cultura, ove cultura va inteso nel senso di civiltà). Diede alle stampe parecchi volumi, fra cui L’età di Costantino il grande (1852), e – celeberrimo in tutt’Europa – La civiltà del Rinascimento in Italia (1860): si tratta di un autentico classico, tuttora imprescindibile per chiunque desideri occuparsi di storia moderna. Fra le opere postume, giova menzionare la Storia della civiltà greca e, soprattutto, le amare, attualissime Considerazioni sulla storia universale. Nel saggio anteposto alla propria traduzione – che qui riproduciamo – di un’importante e, per certi aspetti, sorprendente lectio burckhardtiana consacrata ai Promessi sposi, Ezio Raimondi (1924-2014) ha scritto fra l’altro: «In ultima analisi, si ha l’impressione che la conferenza sul romanzo manzoniano, costruita com’è tra senso della storia e intuizione dell’individuo, tra gusto del pittoresco e amore classico della misura, tra speranza della giustizia e sospetto della rivoluzione, solleciti il Burckhardt in alcune delle cose che gli stanno più a cuore: per non parlare poi del problema della riforma cattolica, del destino dell’uomo contemporaneo, o anche del ricordo dell’antico paese italiano e dei suoi fermenti moderni. Certo, lo schema che ci resta non è molto. I ragionamenti sono ridotti al minimo, talora in poche battute generiche, come accade sempre nei fogli d’appunti che attendono, per riempirsi e animarsi di sfumature, una voce viva, un’intelligenza che parli dinanzi a un’aula di uditori. E questo spiega anche perché non vi si trovi quasi affatto eleganza di scrittura, finezza di intarsio stilistico. A guardar bene, si tratta soltanto di una specie di riassunto dei Promessi sposi, composto a segmenti, di episodio in episodio, e siglato appena da qualche aggettivo di convenienza, da qualche rapido parere critico. Il Burckhardt non discute con nessuno: l’unico testo che ha presente, a parte il Ripamonti, è il Commento storico ai Promessi sposi, o la Lombardia nel secolo XVII del Cantù, come si vede subito da certi particolari che ne trae intorno alla persona dell’Innominato, e come si deduce anche dalla strana ipotesi che egli formula sui due Borromeo e sulle pestilenze del 1579 e del 1630, i cui elementi risalgono senz’alcun dubbio alle note storiche del Cantù. E tuttavia gli appunti del manoscritto di Basilea sono preziosi: dopo Goethe e prima di Hofmannstahl, non c’è un altro scrittore di lingua tedesca che abbia dato al Manzoni un riconoscimento così alto, così ricco di implicazioni e di umori. Una volta poi che si sia rinunciato al saggio letterario, anche la struttura enumerativa dello schema finisce coll’avere i suoi vantaggi, poiché consente di seguire, un po’ di lontano, il ritmo stesso della lettura, di cogliere i nodi essenziali della sospensione o dello stupore (l’incontro di Fra Cristoforo con don Rodrigo, la vita di paese, la notte dell’Innominato, la peste…), di ricomporre insomma l’immagine minuziosa e attenta con cui il più grande romanzo italiano si rifrange nella mente liberissima di uno storico di puro, disinteressato intelletto. “…Non è la storia di Renzo e Lucia, ma un frammento di storia universale”. E il fatto che di lì a qualche mese, passando da Basilea a Zurigo, Jacob Burckhardt, reduce dalla lettura dei Promessi sposi, incontrerà il nostro De Sanctis, conferisce alle pagine del “Vortrag” manzoniano un interesse supplementare, cui non è detto che non si mescoli anche, probabilmente, il piacere dell’immaginazione. Manzoni, Burckhardt e De Sanctis: un colloquio da intuire, una possibilità da non escludere, interrogando la “traccia” di una lezione pronunziata a Basilea nella primavera del 1855» (E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 2000).
- G. Gentile, Alessandro Manzoni (1923), in Id., Manzoni e Leopardi. Saggi critici, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 3-30.
- Almeno nella sua prima forma, intitolata Sposi Promessi (N.d.A).
- Critico e scrittore di alto profilo culturale e morale, stimato collaboratore della “Nouvelle Revue Française”, Benjamin Crémieux (1888-1944) fu uno degli intellettuali francesi più attenti e sensibili alla civiltà letteraria italiana del suo tempo: basti tener presente che, specie negli anni venti e trenta, fu proprio lui a rivelare al pubblico di Francia l’opera di Svevo e, soprattutto, quella di Pirandello. Ebreo, viene arrestato nel ’43: morirà nel campo di concentramento di Buchenwald il 14 aprile 1944. Le pagine che qui riportiamo sono tolte dal suo intelligente e fortunato Panorama de la littérature italienne contemporaine, Paris, Kra, 1928.
- In italiano nel testo.
- Celebre circolo romantico francese, animato, fra gli altri, da Théophile Gautier e Gérard de Nerval.
- Si allude, variatis variandis, ai rappresentanti del cenacolo romantico francese testé citato.
- Igino Ugo Tarchetti, nato nel 1839 e morto nel 1869, dopo una vita di stenti. I suoi versi sono stati raccolti postumi con il titolo Disjecta (N.d.A.).
- Emilio Praga (1839-1875), pittore e poeta. Opere in versi: Tavolozza, Penombre, Fiabe e leggende, apparse fra il 1862 e il 1870 (N.d.A.).
- Arrigo Boito (1842-1918) è noto soprattutto come musicista, compositore del Mefistofele e del Nerone; è autore di versi giovanili: Re Orso (1864) e Il libro dei versi (1877) (N.d.A.).
- «Ell’era così fragile e piccina / che, più che amor, di lei pietà sentia…». Giosue Carducci, a capo del gruppo toscano, del sonetto scriveva: «Io dico che l’ammirazione [per questa poesia] è una miserabile prova del rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava “scrofola romantica” aveva condotto la gente.» Come avrebbero potuto mai allearsi contro il manzonismo il gruppo milanese e quello toscano? (N.d.A.).
- Adolfo Omodeo (1889-1946) ha da essere considerato, per più ragioni di vario ordine, uno dei maggiori storiografi italiani del primo Novecento. I suoi contributi spaziarono dal Cristianesimo primitivo a talune delle più originali espressioni dell’Ottocento italiano ed europeo: invero, la sua densa ed intensa parabola di studioso mirò essenzialmente a indagare le origini del Cristianesimo, Giovanni Calvino e, più in generale, la Riforma ginevrina, Joseph de Maistre, Carlo Alberto di Savoia, Gioberti, Cavour, nonché altre figure decisive nella cultura europea del XIX secolo. Quanto al saggio manzoniano del 1931 che qui trascriviamo, conviene precisare che, molti decenni or sono, fu compreso in una raccolta di suoi scritti uscita postuma a cura di Luigi Russo (A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951).
- Cfr. il mio saggio Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino 1941, pp. 23 sgg., 39 sgg. [e ora nel presente volume, a pp. 80-149] (N. d. A.).
- F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, 2 voll., Laterza, Bari, 1931 (N.d.A.).
- Cfr. Ruffini, op. cit., I, 7 (N.d.A.).
- Op. cit., I, 88 sgg. (N.d.A.).
- Ibid., I, 225 (N.d.A.).
- Cfr. op. cit., I, 228 sgg. (N.d.A.).
- Cfr. la confutazione dell’interpretazione del Crispolti da parte del Ruffini, op. cit., II, 342 (N.d.A.).
- Queste importanti (e intelligenti) osservazioni su Manzoni furono vergate dall’insigne, eclettico, fecondissimo umanista di Pescasseroli (1866-1952) pochi mesi prima della dipartita; rappresentano a ogni modo – forse non per caso – una retractatio sensibile rispetto alle posizioni espresse in precedenza circa il romanzo; post mortem, sono state raccolte nel volume B. Croce, Alessandro Manzoni, Bari, Laterza, 1958, pp. 125-28.
- V. sopra, specialmente pp. 105-11 (N.d.A.).
- Scritti vari inediti o rari, ed. Croce, I, pp. 154 sgg. V. anche la nota a p. 82 (N.d.A.).
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