Bibliomanie

Maria Canella, Sergio Giuntini, Ivano Granata (eds.), «Donna e sport» Milano: Franco Angeli, 2019, pp. 679, euro 50
di , numero 55, giugno 2023, Letture e Recensioni, DOI

Maria Canella, Sergio Giuntini, Ivano Granata (eds.), «Donna e sport» Milano: Franco Angeli, 2019, pp. 679, euro 50
Come citare questo articolo:
Marco Giani, Maria Canella, Sergio Giuntini, Ivano Granata (eds.), «Donna e sport» Milano: Franco Angeli, 2019, pp. 679, euro 50, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 30, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10850

Esce finalmente, dopo una lunga gestazione, questa monumentale raccolta di saggi che vuole porsi – ed ha tutte le carte in regola per farlo – come il nuovo testo di riferimento storiografico per quanto riguarda la storia dello sport femminile in Italia.
Dopo una Prefazione (pp. 9-10) di Ivano Granata che narra la storia dell’opera, Maria Canella e Sergio Giuntini individuano, nell’Introduzione (pp. 11-15), alcuni snodi cronologici fondamentali: gli stentati inizi dello sport femminile europeo di inizio Novecento (sport olimpico incluso, visto il veto di Pierre de Coubertin); la specifica ma contradditoria svolta italiana rappresentata dal Ventennio fascista, con un regime che da una parte spinse le giovani donne a praticare lo sport ma dall’altra ciclicamente si trovò a frenare (su pressioni conservatrici) le proprie “fughe in avanti”; la sorprendente mancanza di politica sportiva femminile dell’Italia del Secondo Dopoguerra, frutto anche di un totale disinteresse del femminismo nostrano (a differenza di quello statunitense e di quello francese) rispetto alle possibili energie emancipazioniste che l’attività sportiva sarebbe stata in grado di sprigionare; la conseguente mancanza di una seria storiografia italiana dello sport femminile, che, dopo un’iniziale e promettente stagione (anni Ottanta e anni Novanta), non ha generato una vera e propria scuola, lasciando così spazio a narrazioni di taglio giornalistico spesso incapaci di uscire fuori dal particolare biografico ma soprattutto di far dialogare l’evento o il personaggio sportivo con un più ampio orizzonte storico-sociale.
La raccolta è divisa in cinque sezioni storico-tematiche, ossia «Le origini: dall’Unità al fascismo» (pp. 17-165), «Le pioniere» (pp. 167-254), «Le discipline» (pp. 257-408); «L’immagine della donna sportiva» (pp. 409-521), «Tra emancipazione e discriminazione» (pp. 525-649). Segue un «Indice dei nomi» (pp. 651-679) fondamentale, vista l’attuale penuria di strumenti di consultazione per le biografie delle sportive italiane.
Impossibile e forse anche inutile, in questa sede, provare a riassumere i 28 saggi che compongono «Donna e sport», o anche solo citare per esteso tutti i titoli, o tutti i nomi degli autori e delle autrici: piuttosto, sarà utile provare a individuare alcuni interessanti macrotemi che attraversano tutta la raccolta.
Prima di tutto, c’è quello dell’importanza del fattore geografico: lo sport femminile è stato infatti accolto e sostenuto prima di tutto in alcune realtà urbane dell’Italia centro-settentrionale, faticando al contrario molto di più nel Meridione e nelle periferie del Regno prima, e della Repubblica poi. Se nel primo saggio Carla Bonello illustra la ricchezza strabiliante delle iniziative sorte a Torino (partendo all’arrivo in città, nel 1833, di Rodolfo Obermann), giustamente definita «capitale storica della ginnastica e dello sport femminile italiano», nel secondo siamo condotti da Elena Tonezzer nelle terre irredente pre-1919, ove ginnastica ed escursionismo erano non solo focolai di nazionalismo italiano, ma pure moderatamente aperti alle presenze femminili. Si segnala in quest’ottica l’attenzione della raccolta alle sportive italiane dei confini, come la triestina Ada Frenellich (saggio di Marta Boneschi) e la bolzanina Paula Wiesinger (saggio di Elio Trifari).
Un secondo macrotema è quello del rapporto fra sport femminile e sport maschile: nel quarto saggio Marco Impiglia racconta ad esempio l’interessante esperimento svoltosi a inizio Novecento a Roma, laddove alcuni membri dell’attiva e numerosa comunità inglese di Roma decisero di giocare a field hockey ‘hockey su prato’, trovandosi però subito di fronte ad un problema pratico, ossia la difficoltà cronica nel trovare un numero sufficiente di giocatori: pensarono così di aprire le iscrizioni anche alle donne (prima le connazionali e le americane, le quali poi invitarono le loro amiche italiane), tanto che nel 1905 fu un comitato misto di gentleman & ladies a fondare il Rome Hockey Club (RHC). Oltre alla collaborazione fra sportivi e sportivi, vediamo qui addirittura in azione la rottura di un tabù nazionale, ossia la promiscuità: persino il caso del doppio misto a tennis è superato a destra, giacché in quel caso «una rete separava le coppie e non era possibile il contatto fisico» (p. 111). Per questo motivo l’autore, tracciando un’analogia col korfball olandese (1902), vede nel RHC «un esperimento di ingegneria sociale, un passo avanti sulla via dell’eguaglianza tra i due sessi», permesso sicuramente dall’«elevato standard di educazione» dei giocatori e delle giocatrici; l’alone emancipazionista per le italiane viene confermato da una fonte statunitense del 1907, saggiamente riportata per intero in lingua originale, la quale, dopo aver descritto l’«indolent temperant» delle «Italian girls» in confronto alle loro amiche anglo-americane, spiega al lettore di Physical Culture che in Italia è in vigore una «impossibility for unmarried men and women to be comrades». Un altro elemento a favore della tesi “sociale” di Impiglia è legata alla fine dell’esperimento romano, occorrente nel 1911 della Guerra in Libia, in occasione della quale molti giocatori vennero chiamati sotto le armi: il militarismo, il nazionalismo e poi il fascismo, infatti, con la loro carica maschilista di certo non avrebbero visto di buon occhio questo rivoluzionario esperimento.
Con l’aggettivo “sociale” abbiamo già individuato la terza caratteristica della raccolta, che è appunto l’attenzione a questa dimensione, che rende interessante «Donna e sport» anche agli storici che non si occupino solo di sport, ma che possono interrogare quest’ultimo alla ricerca di qualche interessante elemento su chi lo praticava, e in generale sulla storia del nostro popolo. Molti saggi forniscono ad esempio interessanti indizi su una questione che è tornata a galla solo negli ultimi anni grazie al successo mediatico del calcio femminile nel Belpaese, ossia: come e quando si sono sviluppati gli stereotipi che ci fanno tuttora bollare certi sport come “femminili”? È ad esempio secondo una precisa prospettiva storiografica che Sergio Giuntini decide di affrontare la storia del basket, «unico fra i grandi giochi sportivi diffusi nella nostra penisola», che «abbia radici femminili», sfruttate e propagandate dal regime fascista; in un altro saggio Luigi Saverio Battente mostra poi la lenta perdita di “femminilità” delle cestiste italiane nella percezione dell’opinione pubblica del Secondo Dopoguerra, – un dato questo confermato, statistiche alla mano, da Eugenia Porro nel suo pezzo di taglio sociologico. Se ogni disciplina ha bisogno, per essere definitivamente “lanciata”, di un’eroina, Gherardo Bonini la identifica, nel caso del nuoto, con Novella Calligaris, «forse la prima stella dello sport italiano femminile dell’era televisiva», capace, come Panatta nel tennis e Mennea nell’atletica, di scatenare l’emulazione, facendo affluire nelle piscine non solo ragazzi ma pure ragazzi affascinati dalle sue gesta.
Un quarto aspetto ricorrente di «Donna e sport» è il confronto con l’estero, utile non solo – come ovvio – per comprendere meglio i fenomeni italiani in una chiave comparativa e intercettarne ad esempio influenze se non proprio importazioni, ma pure – sul piano storiografico – per relativizzare imprese spesso ingigantite dalle protagoniste o dai cronisti locali. Così fa ad esempio Gherardo Bonini, laddove svela l’idiosincrasia fra la propaganda a favore del nuoto da parte del regime fascista (che puntava molto sulla diffusione di questa disciplina fra le italiane anche per motivi eugenetici) e l’assoluta pochezza, in campo internazionale, delle pur acclamate nuotatrici agonistiche azzurre di area adriatica, incapaci di mietere quelle medaglie olimpiche ed europee di cui il regime sentiva tanto bisogno. Ivano Granata dedica invece il suo saggio alle performances delle azzurre alle Olimpiadi di Roma 1960, facendo comprendere al lettore la distanza abissale che intercorse fra le dignitose gare delle italiane e quelle inarrivabili delle americane e delle australiane nel nuoto, delle sovietiche nella ginnastica.
Un quinto tema è quello delle lunghe durate dello sport femminile italiano, assai più numerose di quanto si pensi. Così, se Mercedes Palandri, studiando l’ideologia sportiva cattolica, sottolinea la continuità fra gli strali di papa Pio XI (1922-1939) contro le gare pubbliche femminili ed un testo del 1950 firmato da Livio Luigi Tedeschi, Alessio Ponzio indaga una vicenda che, ponendosi a cavallo di una delle cesure fondamentali della storia dello sport femminile italiano, prova a scardinare la presunta “ripartenza da zero” post-1945. Che fine fecero le celebri e le celebrate allieve dell’Accademia femminile di Orvieto? L’Italia repubblicana, infatti, non riconoscendo gli anni scolastici della RSI, doveva decidere cosa fare con chi aveva dovuto interrompere gli studi (anche di educazione fisica) nel 1943. Ripercorrendo le varie discussioni parlamentari, Ponzio mostra le paure di molti circa l’immissione nella scuola democratica di insegnanti che erano state per anni sottoposte ad una ri-programmazione ideologica che non poteva essere cancellata con un colpo di spugna.
Un sesto aspetto per cui «Donna e sport» risulta strumento utile è l’attenzione tributata anche a discipline sportive la cui versione al femminile è poco conosciuta al grande pubblico e/o poco presente negli studi, come l’equitazione pre-1915 (saggio di Felice Fabrizio), o il rugby, nato solamente a fine anni Settanta (saggio di Elvis Lucchese).
Fra i lavori che provano a rimettere in discussione vulgate storiografiche date ormai per assodate, si segnala quello di Sarah Morgan nel suo «Lo sport femminile nell’epoca fascista». Facendo da una parte reagire la bibliografia in lingua inglese con quella ormai classica in lingua italiana, e dall’altra evitando di focalizzarsi esclusivamente sulle istituzioni deputate alla pratica sportiva femminile (ONB, OND, Accademia di Orvieto, etc.) o sulle biografie delle singole sportive, la studiosa individua campi di ricerca per ora lasciati un po’ in penombra, come ad esempio cosa accadde negli ultimi anni del regime, allorquando ci fu un incremento della visibilità del mondo sportivo femminile italiano che andrebbe indagato a fondo. Analogalmente, Gustavo Pallicca riesce nel non facile compito di scrivere un profilo biografico non scontato su Ondina Valla: lo fa decidendo di concentrarsi sull’adolescenza, e poi sulla prima parte della carriera dell’atleta bolognese, fornendo così un interessante spaccato dello sport scolastico della Bologna arpinatiana.

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