Bibliomanie

Sulla violenza nel secondo dopoguerra. Alcune tracce interpretative
di , numero 39, maggio/agosto 2015, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Mirco Dondi, Sulla violenza nel secondo dopoguerra. Alcune tracce interpretative, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 8, maggio/agosto 2015

Si tratta di un tema che ancora negli anni Zero del XXI° secolo è stato al centro di un intenso dibattito pubblico, totalmente piegato a esigenze di legittimazione (e delegittimazione) politica, anziché essere rivolto a un reale approfondimento.

Le comunità spaccate
Il dopo liberazione italiano appartiene al più ampio contesto europeo di uscita dal conflitto mondiale. Ovunque sia giunta l’occupazione delle armate dell’Asse, le comunità si spaccano – non in parti uguali – tra chi collabora con gli invasori e chi vi si oppone.
Il regolamento di conti con i collaborazionisti nazifascisti conosce una prima fase extragiudiziale ed una successiva fase, regolamentata da precise procedure a garanzia degli accusati.
In ciascuna comunità nazionale ci sono storie di divisioni e tensioni che precedono l’inizio dell’occupazione. L’arrivo delle armate naziste accentua e rende quasi irredimibili le spaccature interne a ciascun Paese: la Francia e il Belgio, nella seconda metà degli anni Trenta, hanno subito il condizionamento dei movimenti fascisti che sono diventati un indispensabile puntello per gli occupanti.
L’attività di collaborazionismo si è esplicata in parte come risorsa militare al fianco dell’occupante, ma soprattutto come disaggregante interno fornito di un occhio speciale nell’individuare oppositori ed ebrei che non possedevano i nazisti. Ne discende l’identificazione dei collaborazionisti come traditori, non più degni di appartenere alla comunità nazionale e, di riflesso, alle più piccole comunità locali.
La spia incarna ed enfatizza la figura del traditore: dalle sue esclusive informazioni giungono gli arresti dei renitenti alla leva e, non di rado, anche le indicazioni per condurre i rastrellamenti contro le formazioni partigiane. Nel ricorso alla delazione la guerra diventa totale, fuoriuscendo dall’ambito militare e attraversando la vita dei civili. La delazione è avvertita come il crimine più odioso: è uno tra i reati più perseguiti dai tribunali regolari italiani costituiti dal maggio 1945 con il nome di Corti Straordinarie di assise. Allo stesso modo, il setacciamento delle spie è stata un’operazione condotta in tempo di guerra dalle formazioni partigiane e punita con la morte.
La caccia al delatore segna i giorni successivi alla liberazione. La delazione si ritorce contro chi l’ha usata, ma rischia anche di essere un’arma di accusa indiscriminata.

Guerra e terrore ai civili
Con oltre 10.000 civili caduti in episodi di stragi perpetuate dai nazisti e, in minor misura dai fascisti, si è assistito a una guerra condotta contro i civili colpendo sovente soggetti inermi come donne, bambini e anziani. Solo raramente le stragi sono avvenute per rappresaglia, in risposta a un’azione partigiana. Si è invece praticata, come nel caso di Marzabotto, la “pulizia” del territorio, per lasciare terra bruciata alle brigate partigiane.
Di notevole impatto è stata, nei paesi e nelle città, l’esposizione del nemico morto che i nazisti sanciscono con un bando del 12 agosto 1944. La pratica era già iniziata prima ed è stata puntualmente attuata da nazisti e fascisti che hanno lasciato, anche per giorni, i corpi dei nemici uccisi nelle vie e nelle piazze affinché la popolazione potesse vederli. Sono azioni che attestano la rinuncia dei nazisti, ma ancora di più dei fascisti, a cercare di guadagnare il consenso della popolazione. Non potendo ottenere il favore dei civili, si punta a terrorizzarli per inibirne ogni iniziativa.

Liberazione e vacanza di potere
I giorni successivi alla liberazione sono, ovunque in Europa, caratterizzati da violenze fuori controllo, eseguite da attori diversi: le formazioni partigiane, alle quali nelle principali città del Nord Italia gli anglostatunitensi lasciano alcuni giorni prima della completa smobilitazione, e i civili la cui violenza è quella più imprevedibile e non facilmente arginabile. Sorge un desiderio di incomposta giustizia nel momento in cui, d’acchito, le parti si invertono.
La seconda guerra mondiale si conclude formalmente con la resa delle truppe naziste l’8 maggio 1945, ma all’interno dei vari Stati il conflitto non termina immediatamente. La ragione sta nella sopravvivenza del nemico interno, in armi o fra i civili, con la conseguenza che la guerra conosce un lento spegnimento, inerzia che caratterizza tutti i conflitti civili.
Lo stesso vale per la resa dei tedeschi in Italia che avviene il 2 maggio, ma le truppe naziste, soprattutto in Veneto, continuano a macchiare il proprio cammino con diverse stragi. Ci sono 129 episodi di uccisioni plurime tra il 24 e il il 30 aprile, 10 episodi tra il 1° e il 2 maggio, 6 episodi dopo la resa, tra il 4 il 20 maggio1.
La transizione da un regime all’altro si traduce in una situazione di sostanziale vacanza di potere anche se, dal punto di vista formale, le forze del Cln si sono insediate nelle città. Diverse esecuzioni partigiane, legate alla fase insurrezionale, maturano in tribunali improvvisati più spesso denominati tribunali del popolo o, a Sesto San Giovanni e in altre zone tribunali di fabbrica. A Mignagola di Carbonera, nel trevigiano, un comando partigiano si insedia nella cartiera Burgo e qua instaura il tribunale che giudica prigionieri delle Brigate nere e della Gnr. Opera, anche se non formalmente, fino all’8 maggio ed elimina tra gli 83 e i 108 uomini2.
Manca alle nuove autorità antifasciste la capacità di controllare il territorio, con il momentaneo disfacimento delle vecchie forze di polizia.
Il governo del territorio diventa la preoccupazione prioritaria dei questori e prefetti nel nord Italia nominati dal Cln e formalmente entrati in carica nel giorno della liberazione. Nelle relazioni prefettizie di maggio e giugno il richiamo alla difficoltà di controllare il territorio compare, unitamente a un quadro di grave disagio sociale. Anche nella Francia dell’estate del 1944 si riproduce la stessa difficoltà di insediamento e si intima a “tutte le autorità improvvisate” di “fermarsi”3.
A maggio, nelle campagne bolognesi, sono i dirigenti del Partito comunista che battono il territorio spiegando che non sono più ammesse uccisioni di fascisti.

Rispetto alla Francia, il controllo del territorio e il ristabilimento dell’autorità si misura, in alcuni momenti, con le forze di occupazione anglostatunitensi alla cui gratitudine, per il decisivo contributo offerto nella vittoria bellica, subentra l’insofferenza anche per gli atteggiamenti, che i partigiani giudicano troppo accondiscendenti, nei confronti dei fascisti. A Bologna il rapporto tra le truppe inglesi e i partigiani vicini al Pci è pessimo.
I britannici mirano a censire gli organigrammi delle formazioni comuniste o presunte tali e, pochi giorni dopo la liberazione, arrestano comandanti partigiani per ottenere nomi e ragguagli, ma i metodi sono violenti e non mancano episodi di tortura4. Per ristabilire la fiducia nella popolazione, e soprattutto per mostrare l’attiva presenza della nuova autorità, i Cln informano tramite la stampa e i manifesti, sugli arresti operati, invitano la cittadinanza a fornire prove in vista degli imminenti processi. Nell’improvvisazione del momento si ricorre a pene simboliche nei confronti di fascisti noti, ma non macchiatisi di reati. A Vicenza, un noto primario di ospedale, viene costretto a pulire le latrine pubbliche; in diverse località, i fascisti sono impiegati per rimuovere le macerie. È un rituale di abbassamento che risponde all’esigenza immediata di giustizia, ma che circoscrive la pena per il punito garantendone l’inviolabilità. Da questo punto di vista è più complesso il noto rituale europeo delle donne rasate a zero, un castigo per le relazioni instaurate con il nemico straniero. Apparentemente è una categoria di contenuta pena popolare, ma oltre al pubblico scherno, il taglio dei capelli si paga sul corpo e su una visibilità additata nel tempo.
Non mancano, per contrappasso alla pratica nazista e fascista, esposizioni di corpi del nemico morto, come accaduto a Torino per il federale Giuseppe Solaro e, soprattutto, a Milano quando il 29 aprile sono esposti in Piazzale Loreto i corpi senza vita di Benito Mussolini, Claretta Petacci e di alcuni tra i principali gerarchi della Rsi: il segretario del Partito Fascista repubblicano e comandante delle Brigate nere Alessandro Pavolini, il ministro dell’Interno Paolo Zerbino, il ministro della Cultura popolare Ferdinando Mezzasoma. L’esposizione dei morti in piazzale Loreto risponde a più obiettivi che vanno al di là della pur sentita vendetta per l’esposizione dei 15 antifascisti milanesi, avvenuta nella stessa piazza il 10 agosto 1944. È il Comitato di liberazione che ha autorizzato l’esposizione dei corpi e lo fa con l’intento di affermare la propria autorità, mostrando di essere in grado di colpire i fascisti così da ridurre le iniziative di gruppi non autorizzati. Né si può negare che questa manifestazione abbia risposto a più esigenze: un rituale catartico per stemperare gli spiriti più bollenti, una purificazione pubblica per esorcizzare la passata adesione di molti al fascismo.

L’ira dei civili
Le cronache della liberazione nelle città delle Nord tendono ad assomigliarsi. Le testimonianze partigiane sono concordi nel rammentare il grande aiuto fornito dai civili, ma è una cooperazione non esente da segnalazioni inattendibili. Spesso sono i civili a mostrare un accanimento maggiore dei partigiani nei confronti dei fascisti. Molta rabbia della popolazione è legata alla precedente impotenza, alla dolorosa impossibilità di reagire ai soprusi subiti. Con la pratica della guerra ai civili, la popolazione è stata ostaggio permanente. Un partigiano della campagna reggiana osserva che “tra il popolo, prima ancora che tra i partigiani, si pensava che se non si faceva giustizia dal basso, la giustizia stessa non sarebbe più venuta.”5 Anche dai documenti degli ufficiali di Pubblica sicurezza, ciò che colpisce della dinamica insurrezionale è il ruolo della popolazione, assurta a una dimensione di primo piano, tale da lasciare in sottofondo la pur sempre determinante presenza partigiana, come mostra questo stralcio redatto da un funzionario della Questura di Firenze sulla liberazione di Bologna:

“Data la fuga precipitosa dei nazisti, rimanevano in città molti fascisti repubblicani e collaboratori del nemico occupante, che non avevano il tempo di allontanarsi. Pertanto oltre un migliaio di questi venivano sommariamente giustiziati dal popolo che si rovesciava nelle strade alla loro caccia”6

A Milano, uno dei giorni più intensi della lotta contro i fascisti è giovedì 26 aprile. Il concorso popolare nella caccia al fascista è determinante: molti cittadini che avevano vissuto nel silenzio e nel timore, con il crollo dell’apparato coercitivo nazifascista diventano improvvisamente attivi. Prende corpo il motivato timore del cardinale di Milano, Alfredo Ildefonso Schuster, il quale durante i giorni della dura occupazione nazifascista si chiedeva, con preoccupazione, quale sarebbe stata, un giorno, la reazione popolare,7 considerando inevitabili altri lutti e ulteriori violenze.

Le situazioni non sono omogenee: c’è anche il conto degli italiani con sé stessi di fronte all’adesione al fascismo, la salita dell’ultimo momento sul carro del vincitori. Per questa categoria di persone la pubblica espressione di rabbia altro non è che scaricare pubblicamente il proprio passato fascista nell’indignazione contro una spia o contro un collaborazionista.
Giorgio Pisanò, paracadutista della Decima Mas, poi senatore della Msi, nelle sue memorie ricorda il clima di distanza che i milanesi fanno avvertire ai militi della Rsi, ma soprattutto descrive l’ira dei civili valtellinesi durante i 9 chilometri di marcia dei prigionieri fascisti da Ponte Valtellina a Sondrio: “Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di botte”8.

La violenza insurrezionale fra progetti e realtà
Almeno i 2/3 degli uccisi per motivi politici all’indomani della liberazione matura nella fase insurrezionale tra la liberazione e la prima decina di maggio.
Il momento successivo alla liberazione non è toccato in molte memorie partigiane che tendono a chiudersi con il giorno della liberazione. Autocensura e difficoltà a misurarsi con una situazione cruenta sembrano mettere in discussione la disciplina appresa in brigata. Il partigiano giellista Roberto Battaglia poi autore della prima opera d’impianto storico sulla Resistenza, ricorda che uccisione e vendetta erano continuamente sottratte al criterio del singolo9. Nei giorni della liberazione la questione etica è sovrastata da quattro spinte più forti:
– la liquidazione dei fascisti per garantire il rinnovamento del Paese;
– la paura che il fascismo possa tornare;
– il desiderio di vendetta;
– il clima di esasperazione collettiva che spinge all’azione.

La relazione tra allontanamento dei fascisti e nuovo corso è, fra le altre, quella di natura più politica e strategica. Rimanda a una visione che è, a un tempo, difensiva e aggressiva. Alla vigilia della liberazione, i vertici del Pci ammoniscono che non si deve ripetere un altro 25 luglio10, in allusione alla caduta del regime fascista nel ’43, alla sostanziale assenza di violenze antifasciste nei giorni successivi e alla ricomparsa del fascismo repubblicano di Salò.

Giorgio Agosti, scrivendo all’amico Dante Livio Bianco nel settembre 1944 lo avverte che gli antifascisti devono procedere autonomamente nel “creare il maggior numero di fatti compiuti (liquidazione spietata di fascisti e di collaborazionisti, e liquidazione radicale di istituzioni e di posizioni)”11. L’atto di forza è congiunto alla creazione di nuove istituzioni ragione per cui, i partigiani più politicamente consapevoli, fanno coincidere la liberazione – vista come premessa al cambiamento – con una riduzione dell’impeto violento. Ne è prova, in questo caso, proprio il comportamento di Giorgio Agosti che viene nominato dal Cln questore di Torino. Agosti, nella fase insurrezionale, salva la vita a un commissario di polizia che ha a lungo perseguitato la sua famiglia arrivando a nasconderlo in casa sua.

Giorgio Amendola, tra i massimi responsabili delle Brigate Garibaldi, ma innanzitutto politico – nel 1945 è già nel Comitato centrale e nella Direzione del Pci – a Torino commissiona il 1° maggio, al partigiano giornalista Davide Lajolo, appena giunto alla redazione piemontese de “L’Unità”, un articolo che invita i partigiani a consegnare le armi. Lajolo ne è scarsamente convinto, ma accetta. Qualche giorno prima, Amendola aveva invitato Lajolo a tornare allo status di civile: “Domani, via il mitra, la divisa e la barba. Comincia un altro periodo”. Alla sicurezza di Amendola corrispondono diversi gradi di incertezza fra i partigiani. Lajolo è quello che prima di tutti e più di tutti si adegua, Massimo Rendina anche lui comandante partigiano garibaldino e giornalista, il 15 maggio è in redazione, ma in divisa e con il mitra a portata di mano. Non smobilita il partigiano “D’Artagnan” che raggiunge Lajolo in redazione per esprimergli il suo dissenso sull’articolo che invita i partigiani a deporre le armi: “Ricordati che noi non abbiamo ancora smobilitato” e per essere ancora più chiaro aggiunge con asprezza: “Stai attento adesso che ti sei vestito in borghese di non diventare come quelli che stavano nascosti mentre noi rischiavamo”12.

In pochi passaggi, le memorie di Lajolo delineano lo spettro di atteggiamenti che attraversano l’universo partigiano:
1. la fiducia, tipica soprattutto in coloro politicamente più formati, che capiscono come l’ultimo indispensabile passaggio verso il cambiamento (la giustizia verso i criminali fascisti e la riforma dello Stato che garantisca l’impianto di un regime democratico) richieda una strategia dialettica di composizione e costruzione del consenso che non può più giungere ricorrendo alle armi.
2. Il partigiano che passa alla vita civile, ma non abbandona il mitra, incarna l’atteggiamento più diffuso: una fiducia condizionata agli eventi. L’arma è ritenuta utile per difendere quanto conquistato, nella consapevolezza che il fascismo è battuto, ma non definitivamente sconfitto, al punto che potrebbe riemergere.
3. Il partigiano che disobbedisce all’ordine del Cln e continua la guerra contro i fascisti.

Una violenza prevista e ritenuta fisiologica
Alla luce del conflitto e dell’articolato quadro sociale del dopoguerra, le uccisioni di fascisti nelle relazioni prefettizie della seconda metà del ’45 sono segnalate senza particolari punti di preoccupazione e inquadrate nel più generale fenomeno di violenza e illegalità che attraversa il Paese. Non di rado le annotazioni rimarcano la lacerazione prodotta dalla guerra civile e per l’Emilia-Romagna più di una relazione fa risalire le radici del conflitto a un periodo più lungo, riagganciandolo, specie con quanto succede nelle campagne, agli anni nei quali la violenza squadrista ha piegato le leghe sindacali e impedito l’applicazione dei patti colonici ottenuti nel 1920.
L’inevitabilità della violenza postbellica contro il nemico fascista è riconosciuta anche dalle componenti moderate del Cln. Il 22 giugno 1945 Alessandro Coppi, nell’assemblea della Dc modenese, giustifica le esecuzioni di fascisti in quell’iniziale dopoguerra, ma teme l’apertura di un altro fronte di guerra commentando l’uccisione di due antifascisti Antonio ed Ettore Rizzi – padre e figlio – con quest’ultimo che era stato anche partigiano nelle brigate Italia organizzate dalla Democrazia cristiana13. Tra giugno e luglio, oltre ai Rizzi, nel modenese sono uccisi altri 2 esponenti democristiani, membri dei Cln di Medolla e Nonantola.
Un anticomunista conclamato come Raffaele Cadorna, voluto a capo del Comando volontari della libertà dagli alleati, nel 1965 sostiene la richiesta di grazia per il partigiano della Volante rossa milanese Eligio Trinchieri affermando che “i reati da lui commessi nel dopoguerra siano in buona misura da addebitarsi alla atmosfera di illegalità e di violenza necessariamente sviluppatasi durante la lotta clandestina.”14

Azioni all’interno delle carceri
In ordine cronologico a Cesena (9 maggio, 17 soppressi), a Solesino nel padovano (10 maggio, 6 morti), a Ferrara (8 giugno, 13 morti), a Carpi (15 giugno, 14 uccisi) e a Schio nel vicentino il 6 luglio che si segnala come l’episodio più sanguinoso con 54 morti, di cui 17 donne. Casi analoghi si verificano in Liguria a Finalborgo e a Oneglia.
Le azioni sono eseguite da partigiani che penetrano nelle prigioni e individuano le persone da eliminare. Il contesto è simile: il desiderio di vendetta, un’esasperata acredine che percorre il partigianato e la comunità. Il riflesso più diretto di questo clima si trova a Cesena quando, alcuni giorni prima, tre militi fascisti erano stati linciati dalla folla. Gli episodi di giugno e luglio risentono maggiormente del timore che i prigionieri vengano liberati e che la giustizia ufficiale non possa perseguirli. Da questo punto di vista, Schio è l’episodio più emblematico. Durante il processo contro gli uccisori, il capo degli agenti di custodia, Giuseppe Pizzin, fascista repubblicano fino al 29 aprile, dichiara che “in quei giorni lo stato d’animo della popolazione era molto eccitato contro i detenuti politici, tanto che qualche sporadica dimostrazione era avvenuta anche nelle adiacenze del carcere con grida minacciose verso i prigionieri”.15 Questo giudizio coincide con la tesi della difesa che sostiene che il delitto è culminato nella suggestione della folla.16 Alcuni giorni prima dell’eccidio, il 27 giugno 1945, torna a Schio un reduce da Mauthausen che comunica che nel campo di concentramento hanno trovato la morte undici uomini del paese. La popolazione manifesta chiedendo giustizia e “epurazione completa”. La situazione giunge al punto limite quando giunge la notizia che buona parte dei detenuti sarebbero stati liberati poiché su di loro non pendono accuse specifiche.17 Per quelle morti il paese non si ferma: si balla come al solito e al passaggio delle bare non vengono nemmeno fatte fermare le giostre.
I partigiani che hanno condotto queste azioni, si sono sentiti legittimati a compierle, in rapporto alla pressione e all’assenso della comunità. Non si tratta di un clima isolato. A giugno, la paura che la giustizia non arrivi è espressa anche da un Cln di fabbrica delle Officine meccaniche Virta a Milano: “la massa dei lavoratori proletari chiede che […] la giustizia sia inflessibile e che l’Italia venga purificata col piombo…”18. Una soluzione giudiziale e garantista è ancora distante dalla percezione di ampie fasce di popolazione toccate dalla guerra.

Omicidi e lotta di classe
La deliberata uccisione di persone non fasciste non giustifica l’affermazione che i partigiani si siano mossi nel dopoguerra per perseguire obiettivi rivoluzionari, spenti a più riprese e non senza energia, dal Pci.
Dall’estate del 1945 all’agosto del 1946 tra modenese e reggiano sono compiuti 12 omicidi nei confronti di persone non fasciste (don Umberto Pessina) o adirittura apertamente antifasciste. Tra questi, una testimonianza molto successiva afferma che il direttore delle Reggiane Arnaldo Vischi (ucciso il 31 agosto 1945) è stato assassinato da un comunista per motivi personali. I lavoratori socialisti delle Reggiane condannarono l’azione attribuendola a “metodi di lotta” “superati dopo l’avvenuta Liberazione”. Per quanto gravi, questi episodi restano circoscritti.
Supera invece il centinaio, il numero di proprietari terrieri uccisi in Emilia-Romagna, ma in questo caso il coinvolgimento di larga parte delle vittime con il fascismo appare evidente. Può trattarsi sia del fascismo delle origini con i finanziamenti allo squadrismo sia del fascismo di Salò. Diversi proprietari terrieri non avevano ucciso, su molti di loro s’addensano sospetti di delazione. Quasi tutti sono stati coinvolti nello scontro sindacale del 1919 – 20 o in quelli successivi del 1944 – 46. Sin dal 1919 il mancato disciplinamento del conflitto ha autorizzato il ricorso ai mezzi più estremi: sfratti per i mezzadri, bastonature, uccisioni, bando per gli antifascisti con obbligo di lasciare il paese. È una resa dei conti che, nel 1944, comincia ad avere il suo rovescio e finisce per prendere di mira quei proprietari che mantengono un atteggiamento intransigente nelle nuove trattative sindacali. Vecchi rancori e conflitti di classe si presentano in un groviglio inestricabile.

Un discorso in parte analogo alle uccisioni dei proprietari terrieri può essere fatto per le soppressioni dei religiosi, legate a due ordini di motivi: la presa di posizione a favore della Rsi (la soppressione del parroco di Amola nel bolognese appare legata a una sua delazione) e/o il ruolo centrale – di classe – assunto dal parroco in quanto proprietario terriero o in appoggio ai proprietari terrieri.

Il più ampio quadro sociale del dopoguerra
Ogni guerra conosce un difficile percorso di uscita, con il problematico reinserimento dei reduci dal fronte, l’immiserimento della popolazione, l’inevitabile aumento delle forme di violenza e di delinquenza. Si tratta di fenomeni che nella primavera del ’45 si ritrovano amplificati, nel caso dell’Italia, dalla dissoluzione dell’autorità statale, dalla presenza di un esercito occupante e da emergenze abitative e alimentari che hanno prodotto, già nel corso del conflitto, la piaga del mercato nero, i cui effetti continuano ad avvertirsi nel 1946. Gli effetti distruttivi sull’edilizia riversano la loro conseguenza nella distruzione degli impianti industriali – che contribuiscono a mantenere alti livelli di disoccupazione – e lenta è la ripresa, dovuta alla carenza di risorse dello Stato e al grave danneggiamento delle infrastrutture viarie.
In un contesto di assenza di norme sociali, prodotta dal complesso di questi fenomeni e dalla svalutazione del valore della vita umana, le azioni delinquenziali, anche quando riguardano furti e rapine, tendono a debordare nella soluzione armata: è estremamente facile venire in possesso di un’arma e non ci sono particolari preclusioni a usarla19.
Nelle città, come nelle campagne, ci sono zone franche per la delinquenza. L’oscurità serale favorisce gli agguati, la distruzione delle reti telefoniche, l’assenza di telegrafi e le strade dissestate impediscono interventi tempestivi. La delinquenza appare come la strada più facile. Ci sono partigiani che diventano banditi, come le bande del parmigiano nel parmense specializzate in attacchi ai caseifici, banditi che si spacciano per partigiani, come ricorda nelle sue memorie il prefetto di Reggio Emilia Vittorio Pellizzi, o reduci di fronti contrapposti che si mettono in società: è il caso della banda Casaroli al centro delle cronache nazionali fino al 1950. A questo quadro articolato concorre anche la presenza di militari alleati, sbandati e non, dediti a traffici e rapine. Una vicenda particolare è quella dei soldati del II° corpo d’Armata polacco, il cui incerto destino nei primi mesi del dopoguerra (dimenticati dall’Inghilterra, restii a tornare nella Polonia comunista) favorisce il comportamento deviante di una parte dei suoi componenti. Non è trascurabile la piaga dell’infanzia rimasta abbandonata e della delinquenza giovanile spesso organizzata in bande dedite a furti.
Approfittando dell’isolamento dei paesi, ancora più evidente per quelli montani, gruppi misti di ex partigiani tengono in scacco per ore interi paesi. L’esile obiettivo politico adotto dai processati è oscurato dall’intento più marcatamente depredatorio delle azioni. Nel bolognese accade a Gaggio Montano il 16 novembre 1945 dove 15 uomini – partigiani e balordi locali -uccidono 5 persone (uno è un antifascista), rubano dalla cassa di una banca e in abitazioni private. A Savigno, l’11 dicembre del ’45, sono 50 le persone (con diversi ex partigiani) che bloccano il paese. Come a Gaggio, i banditi disarmano prima i carabinieri, passano da due banche e in abitazioni private, senza uccidere. Dei 23 incriminati, 20 sono compresi tra un’età di 20 e 25 anni20. Un caso in parte analogo avviene a Cologna ferrarese il 22 marzo del 1946.
La banda più strutturata si trova a Castelfranco Emilia, nel modenese, rimane attiva fino ai primi mesi del 1946 ed è composta da una ventina di partigiani che dapprima compiono azioni contro i fascisti collaborazionisti, poi colpiscono il “nemico di classe”, eliminando dei proprietari terrieri, ma costellano la loro azione anche con furti e rapine21.
La delinquenza comune comincia a regredire sensibilmente nel 1947 pur restando superiore al 1939.

Come la guerra fredda cambia la percezione del fenomeno
Se non ci fosse stata la guerra fredda, la violenza successiva alla liberazione sarebbe entrata nell’ordinaria tragicità di una guerra che si sconta anche nel suo immediato dopoguerra.
L’ineluttabilità della violenza si nutre di precisi significati. La pressione ambientale nei confronti di un’azione di soppressione conferisce legittimità ai suoi autori, almeno sino all’inizio dell’estate del ’45. Una legittimità che preesiste al diritto. Le Corti straordinarie di assise entrano in funzione nel maggio del 1945, ma non possono che procedere caso per caso mentre è lunga la lista di coloro che attendono il processo. Allo stesso modo, anche le forme di violenza simbolica esprimono i codici della comunità. La capacità delle autorità e delle nascenti forze politiche si misura nel riuscire a mantenere la violenza dentro a precisi contorni: in diversi casi la violenza simbolica ha evitato uccisioni. Ci sono invece confini che sfuggono nei numerosi, quanto accidentali e non prevedibili, episodi di linciaggio che attraversano le Penisola, specialmente dal Centro al Nord. Il linciaggio è l’espressione più istintiva e inarginabile dell’esasperazione della comunità.
Ciò che sino al termine del ’45 poteva apparire fisiologico, inevitabile, in larga parte comune agli altri dopoguerra europei, con la guerra fredda assume nuovi significati, tesi a delegittimare il nuovo nemico comunista. La rilettura degli avvenimenti si inserisce su un tessuto democratico ancora fragile e su una mentalità non ancora pienamente liberata dal fascismo.
Nei nuovi significati, la violenza postbellica perde la pluralità dei suo autori (civili, partigiani di diversi colori) finendo per essere riconvertita unicamente in una violenza di marca comunista. Le prime esorbitanti cifre false sui morti del dopoguerra (300.000) sono funzionali a rendere più credibile la minaccia comunista contro la democrazia.

Note

  1. Elena Carano, Oltre la soglia. Uccisioni di civili nel Veneto 1943 – 45, Padova, Cleup, 2007, pp. 493 – 507.
  2. Elena Carano, Dopo la liberazione. Violenza sui fascisti e dopoguerra difficile nell’“Emilia rossa” e nel “Veneto bianco”, Tesi di dottorato, Università di Modena e Reggio Emilia, 2007, capitolo 3, § 3.
  3. Kieth Lowe, Il continente selvaggio, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 142.
  4. Angela Maria Politi, Luca Alessandrini, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in Guerra, Resistenza e dopoguerra, Bologna, Istituto storico provinciale della Resistenza, 1991, p. 67.
  5. Giuseppe Carretti, I giorni della grande prova. Appunti per una storia della Resistenza a Cadelbosco, Reggio Emilia, Tecnostampa, 1964, p 175. Sempre nel reggiano segnalazioni di soppressioni incontrollate provengono dalle memorie del prefetto azionista di Reggio, Vittorio Pellizzi, Trenta mesi, s.l., s.e., 1954, p 14; Guerrino Franzini, Storia della Resistenza reggiana, Reggio Emilia, Anpi, 1966, pp 770-771.
  6. Acs, Min. Inter. Gab. 1945-46, b 203, f 11.060, Promemoria sulla situazione generale della città di Bologna, 5 maggio 1945. Si tratta di un riscontro impressionistico non confermato dalle successive rilevazioni come dimostrato nel paragrafo 1 di questo capitolo “Il flusso della violenza”.
  7. Archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Documenti Cvl, cartella controspionaggio, lettera del cardinale Schuster a don Corbella, 21 settembre 1944, citato da G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit, p 485.
  8. G. Pisanò, Io fascista 1945 – 1946, Milano, Il Saggiatore, 1997, p. 71
  9. Roberto Battaglia, Un uomo, un partigiano, Torino, Einaudi, 1965, p. 201.
  10. Claudio Pavone, La guerra civile, in P. P. Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-45, p. 408.
  11. Lettera di Giorgio Agosti a Dante Livio Bianco, 4/9/1944 in G. Agosti, L. Bianco, Un’amicizia partigiana, cit, p 235. Ivi, carteggio Giorgio Agosti – Ugo Guarnera, p. 57.
  12. Davide Lajolo, Ventiquattro anni, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 14-18.
  13. La Democrazia cristiana modenese nella sua prima assemblea…, in “Democrazia”, 22 giugno 1945.
  14. Documento del 22 aprile 1965 riportato da Cesare Bermani, Storia e mito della Volante Rossa, Milano, Nuove Edizioni Internazionali, 1996, p 156.
  15. “Correre d’Informazione”, 11 settembre 1945.
  16. Ernesto Pietriboni, Partigiani e folle nella criminalità, in “Rivista Penale”, 1945, pp 341-344. L’autore è stato tra i difensori degli imputati.
  17. Sulla mancanza di capi d’accusa per una parte dei prigionieri: Il processo per l’eccidio di Schio, “Corriere d’Informazione”, 7 settembre 1945. Verbali del Cln provinciale di Vicenza, seduta del 3 agosto 1945, in Politica e amministrazione nella Vicenza del dopoguerra, cit, p 100: “Il governatore [alleato] ha fatto notare la responsabilità delle autorità locali le quali da molti giorni avevano nel cassetto l’ordine di scarcerazione di parecchi detenuti che vennero poi trucidati.”
  18. Archivio Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Fondo Comitato liberazione nazionale alta Italia, busta 41, fascicolo 14.
  19. Enzo Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 72.
  20. Archivio Parri Emilia-Romagna, Fondo Casali, busta 35, fascicolo 18.
  21. Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso, Roma Sapere2000, 2007, p. 142.

tag: ,

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2015 Mirco Dondi