Bibliomanie

Riforma e timori. Scarne riflessioni a posteriori
di , numero doppio 46/47, luglio 2018/giugno 2019, Note e Riflessioni,

Riforma e timori. Scarne riflessioni <em>a posteriori</em>
Come citare questo articolo:
Pietro Bolognesi, Riforma e timori. Scarne riflessioni a posteriori, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 12, luglio 2018/giugno 2019

La celebrazione dei 500 anni dalla Riforma protestante del XVI secolo poteva essere una grande occasione di riflessione. Perché un evento del genere contribuì in maniera così forte a forgiare una nuova civiltà?
Cosa ci fu di così strategico da incidere in maniera così profonda in coloro che si aprirono alla Riforma? Il 2017 poteva offrire l’occasione di una riflessione profonda non solo in chiave religiosa, ma anche in chiave culturale.
Le celebrazioni risentono sempre del clima culturale del tempo e quelle che si sono succedute al 1517 (1617, 1717,1817, 1917) sono state l’inevitabile riflesso del condizionamento dei vari periodi.
Cos’è accaduto nel 2017? Sembra evidente che,in campo religioso,si siano ingrossati alcuni filoni convogliati poi in un fiume unico. C’è stato l’affluente della neutralizzazione praticato dal cattolicesimo romano; quello della relativizzazione incarnato dal protestantesimo storico; quello della banalizzazione vissuto dal protestantesimo risvegliato.
Questi diversi affluenti sono sfociati nel gran fiumedel superamento confessionale richiesto dal nostro tempo. Le provocazioni e le differenze sono state artificiosamente ricomposte e in qualche misura superate. I temi della Riforma sembrano essere diventati più familiari, ma anche insipidi:più vicini, ma anche più estranei.
La cultura italiana non sembra essere sfuggita a questo processo relativistico, oggi forse ineludibile quanto irreversibile. Pur conoscendo l’enormità dei cambiamenti riconducibili a quell’evento, non sembra essersene interessata più di tanto. Sembra anzi che abbia preferito continuare a fare i conti con altre questioni. Non stupirà allora, se a osservare dall’esterno, la cultura italiana lasci un senso di fiacca e fetore.
Si potrebbe pensare a una pigrizia mentale dovuta alla necessità di concentrarsi sui propri interessi. Ora una cosa è essere ossessionati dalla tranquillità, un’altra sapere che una pace artificiosa non è vera pace. Viver tranquilli nella vanità del nulla è un viver modesto. Ogni vero pensare richiede vigore e gli uomini toccati da quella Riforma mostrarono una fibra che non può non farpensare. Ilpensiero uscì dalle coscienze, dagli studi, dalle biblioteche e dai salotti per scenderenelle piazzee parlare –potenzialmente –a tutti. Divennecosìcambiamento e trasformazione.
Si potrebbe d’altro lato pensare che una certa frigidità sia da attribuire all’indifferenza per il bisogno di salvezza dell’uomo. La cultura attuale non sembra preoccupata d’una tale necessità. Ha altre faccende in mente. Ma non è imprudente lasciare la riflessione di quel che accadde sul piano culturale ai tempi della Riforma solo alla gente di chiesa? Si è sicuri che non sia una forma di malsano snobismo? Non si tratta di rivestire del prestigio del sapere e della potenza dialettica una confessione religiosa o un’altra, ma di porsi dinanzi a una questione dal sapore così radicale e estremo senza presunzione e senza sufficienza.
Si potrebbe infine pensare che l’estraneità dipenda dal timore d’essere inquietati da quel Soli Deo gloria cui la Riforma rimandò. Tra Riforma e Umanesimo ci fu sicuramente una certa affinità, ma anche un’inquietante diversità. La Riforma nutrì una riverenza per la conoscenza pari a quella dell’Umanesimo, ma pure una diffidenza per le potenzialità umane. Per essa, al centro del sapere non c’era l’uomo, ma Dio.
La Riforma fu estremamente audace nel sondare le Scritture, ma nel medesimo tempo definitivamente radicale nel mettere in discussione le capacità dell’uomo. Scelse di sottomettersi all’autoritàdi Dio rivelato nella Bibbia. Chissà se il mantenimento della distanza nei confronti della Riforma non sia dovutoanche alla paura per l’inquietudine che la Parola può suscitare. Peccato. Sarebbe una triste reticenza non solo triste, ma oscena,perché nasconderebbe all’esposizione della Parola che fa vivere.
Che la Riforma del XVI secolo possa aver sbagliato qui e là è palese, ma non per questo si può pensare che le istanze di fondo sollevate possano essere trascurate o liquidate sic et simpliciter.
Anche dopo il cinquecentesimoanniversario vi è forse l’opportunità di una riflessione davvero a tutto campo. Il torbido potere dell’autogiustificazione, che teme d’impegnarsi poiché non sa umiliarsi,potrebbe essere messo da parte. Potrebbe sollecitare, invece,quella decisione e quel vigore che, talora, fanno dell’erudito unsaggio.

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