Bibliomanie

Licia Giaquinto, Cuore di Nebbia. Intervista di Mauro Conti
di , numero 14, luglio/settembre 2008, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Mauro Conti, Licia Giaquinto, Cuore di Nebbia. Intervista di Mauro Conti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 14, no. 14, luglio/settembre 2008

Conosco Licia Giaquinto fin dai tempi, anni ’70, dei reading di poesia bolognesi organizzati da Niva Lorenzini. Vi partecipavano le avanguardie di allora, poeti o artisti come Giuseppe Conte, Cesare Viviani, Edoardo Sanguineti, Tomaso Kemey, Milo De Angelis o quella meteora anarchica della poesia italiana di cui si conosce ancora pochissimo, ma molto amata anche dal gruppo di persone, come Lucio Vetri e Anna Maria Andreoli, che stavano attorno a Luciano Anceschi e alla rivista Il Verri, di nome Adriano Spatola.
Bellissima ragazza, Licia, con due occhi grigio perlacei da lupa, quando faceva i suoi interventi, metteva un’anima, una passione particolare ogni volta, e, se capitava di ascoltare o leggere le sue poesie, c’era da restarne incantati. Io non avevo mai incontrato un’artista come lei capace di usare le parole simili alla brace, alla lava, alla materia incandescente scagliata dal vulcano, e c’era una completa identità di suono e senso nel suo declamare, c’erano dei vocaboli, una lingua così stupefacenti che sembravano provenire dalle viscere perigliose dell’inconscio, di un comune ricettacolo, che poi erano l’espressione più semplice e immediata, lo specchio di quel particolare sentimento del tempo di una Bologna che non c’è più, di una primavera della nostra vita e del sentire che oggi ormai risultano dimenticati.
Non sarei mai stato capace di farmi avanti per conoscerla se non me la avesse presentata Lino, il proprietario della mitica edicola di via del Pratello, luogo di incontro di scrittori di fama mondiale, assieme al consiglio di leggere il di lei nuovo romanzo, Cuori di nebbia.
Ho letto il romanzo, oltre duecento pagine tutte d’un fiato, in un pomeriggio, e le ho chiesto di parlarmene.
In fondo le emozioni più individuali hanno bisogno di uscire all’aperto, di essere condivise in quanto creano dentro di noi una risonanza, una sfida che ha bisogno di misurarsi con l’estensione nello spazio, che poi è una specie di ionizzazione, per dirla con le parole, due in tutto, di un celebre spettacolo di Adriano Spatola con il quale, tra, l’altro Licia ha pubblicato un libro di poesie verbo-visuali.

Licia, da dove viene questo romanzo, come ti è venuto in mente di misurarti con il genere noir?

Da dove arrivano i romanzi è misterioso come tutto ciò che riguarda la vita dell’inconscio.
C’è questa specie di palude in cui affondano tutte le nostre esperienze, lì si scompongono e ricompongono e acquistano dimensioni e caratteri diversi, per manifestarsi all’improvviso senza che le si possa riconoscere a prima vista come proprie.
Sto dicendo che i romanzi, per me, hanno la stessa natura dei sogni.
Con la differenza che la mente di chi scrive è vigile, e allora ciò che affiora viene filtrato, composto, reso organico. La mente cosciente dominata da Apollo, che io chiamo il dio dei punti e delle virgole, funziona come una sorta di ordinatore. Sistema e regola , esclude e verifica quanto emerge dall’ebbrezza del caos.
Ma può succedere che l’ordinatore sia troppo vigile, e allora la scrittura è frenata. Viene fuori ciò che si sa già. Non c’è nessuno spazio per la creatività, che è l’incontrollato, ciò che sfugge alla mente vigile. Lo scarto dalla norma.
Chiunque si sia cimentato con lo scrivere conosce bene la differenza tra la scrittura che avanza come se non ci fosse sforzo, e si allinea con naturalezza sulla pagina, e quella asfittica, spezzettata, senza alcun ritmo e dovuto a una costruzione solo mentale. Perché il ritmo è dovuto alla naturalezza del respiro che accompagna la narrazione.
Il tiro con l’arco nella pratica zen contempla identità di bersaglio, braccio, freccia e arco. Il bersaglio lo si colpisce prima ancora che la freccia venga scoccata, perché è un tutt’uno con il braccio, l’arco e la freccia.
Questo non vuol dire che la scrittura debba essere automatica.
Bisogna cercare di mettersi in ascolto, di eliminare i blocchi. Lasciare che le vie di comunicazione con l’inconscio non siano intasate.
Credo che ciascuno di noi abbia sperimentato nel dormiveglia la capacità di vedere chiaramente laddove durante il giorno non riusciva a scorgere che ombre.
Molti scienziati hanno confessato che alcune delle loro scoperte più importanti sono avvenute nello stato di dormiveglia. E questo perché la mente vigile era assopita.
In ogni caso il romanzo non si fa in stato di trance. Presuppone continui interventi. Bisogna dare forma a ciò che sembra informe. Non si deve aver paura di tagliare e buttar via ciò che non serve, come nella raccolta del grano si scartano fiordalisi e papaveri, nonostante la loro bellezza.
E ciò che serve o no lo decide la mente vigile.
In sostanza è una sorta di gioco a rimpiattino quello che si istituisce fra la parte di noi che fa affiorare le storie dall’inconscio e quella che sistema ciò che affiora.
Per quanto riguarda il noir, è solo per caso che questo romanzo lo sia. Proprio per quanto ho detto sopra, quando scrivo non penso di misurarmi con nessun genere. Ho semplicemente una storia che preme, che vuole uscire allo scoperto, che mi chiede di essere raccontata.
Cuori di nebbia l’ho iniziato nei mesi successivi a un episodio che mi è capitato lungo la via Emilia.
Stavo andando a Sassuolo a comprare delle mattonelle, quando un tir, che correva a velocità folle, in una curva ha sbandato, e per poco non si è schiantato contro la mia macchina. Il soffio di un angelo benefico mi aveva spostato più in là dello spazio minimo indispensabile a non finire schiacciata.
Un contadino mi aveva invitata a bere un bicchier d’acqua nella sua casa.
Poi era arrivata la moglie che aveva cominciato a sparare a zero contro i camionisti, che correvano come pazzi, e contro le puttane che stazionavano giorno e notte lungo la via Emilia. Mi era sembrato, mentre parlava, che sparasse a zero anche contro suo marito.
È stato il primo personaggio del romanzo: Mirella.

La cosa che colpisce di questo lavoro è stata la tua grande capacità mimetica, la capacità di calarti tra le pieghe di una realtà di cui, forse, non avevi una diretta esperienza?

Poiché ogni personaggio parla in prima persona la mimesi è fondamentale. Un contadino emiliano semianalfabeta non ha lo stesso modo di parlare e di pensare di una prostituta russa, che ha imparato l’italiano in una ricca e colta famiglia italiana, dove da bambina ha passato le estati, in seguito alla tragedia di Cernobyl.
La realtà in cui si svolgono i fatti la conosco molto bene.
Per anni ho insegnato nelle scuole serali delle 150 ore nei vari paesi della pianura. Gli studenti erano operai , contadini, casalinghe, braccianti . Mi raccontavano le loro vite, e io che sono estremamente curiosa assorbivo ogni parola, ogni gesto, ogni particolare di un luogo come una carta assorbente assorbe un liquido.
E poi, forse perché ho trascorso la mia infanzia in una terra, l’Irpinia, piena di boschi, sono affascinata dalla pianura. Soprattutto d’inverno. Mi piace girare lungo il Po o nel bosco della Mesola quando ogni cosa è avvolta dalla nebbia.

Manzoni diceva che uno scrittore non si può fare mallevadore dei suoi personaggi, ma indubbiamente dentro un romanzo tanti aspetti riflettono il nostro sé più profondo. Tu cosa pensi: il romanzo è un riflesso della tua essenza o qualcosa di totalmente altro?

Se accettiamo il dato di fatto che l’io non è un monolite compatto ma la risultante di una miriade di tasselli, e che è il prevalere di alcuni di essi a determinare un individuo con certe caratteristiche piuttosto che altre, allora- parafrasando Rimbaud- accettiamo il fatto che ogni io potrebbe essere un altro, e quindi che l’autore vive in tutti i personaggi dei suoi romanzi.

Mentre leggevo Cuori di nebbia mi venivano in mente molti altri romanzi. È un pregio questo, di cui bisogna dartene atto. La vera letteratura si mette sempre in un rapporto di dialogo con la tradizione che la precede. In primo luogo la struttura del racconto mi faceva venire in mente Il mio nome è Rosso, del premio Nobel Oran Pamuk.
Sempre a proposito di modelli a me veniva in mente il Tondelli di Altri libertini, ma so che illustri critici hanno accostato il tuo lavoro all’opera di scrittori giovani come Ammanniti…
Un altro riferimento poi è Basile, Lu cunto de li cunti, da cui, tra l’altro, devi aver preso qualcosa, un po’ perché è come te campano, la grande stagione del barocco campano con la sua magia, il mistero delle favole straboccanti di immaginazione, di fatti immaginosi.


Si dice che chi legge un romanzo in realtà lo riscriva. E lo fa secondo le proprie esperienze, letture ecc.
Quando a Recanati ho visto la siepe che escludeva lo sguardo di Leopardi all’infinito, sono rimasta delusa. L’avevo immaginata completamente diversa. Ma questo è il fascino della poesia e della letteratura. Che ognuno possa costruirsi il proprio poema o romanzo a partire dagli elementi che lo scrittore o il poeta ci offre nella sua opera. Il massimo di tale possibilità è data dalla Torah che secondo la kabbala ha tante facce quante erano gli ebrei che si trovavano ai piedi del monte Sinai quando Dio la diede a Mosè.
Comunque non ho letto il libro di Pamuk, e quello di Tondelli l’ho letto molti anni fa.
Per Basile c’è un discorso a parte da fare.
Il paese dove sono nata era un serbatoio di storie.
Da bambina, ho passato molte ore delle mie giornate seduta sui gradini davanti alle case, o vicino al camino ad ascoltare le donne che raccontavano le stesse storie che Basile aveva raccolto secoli prima nel suo Cuntu de li cunti, proprio in paesi dell’Irpinia e del Sanno simili al mio.

Vorrei che tu parlassi di Emilia Romagna, di Bologna. Dove siamo, dove stiamo andando, perché questo degrado?

Poco tempo fa ho visto un film : Zona, si chiama. E’ ambientato a città del Messico. C’è un gruppo di persone molto ricche che vivono per motivi di sicurezza in una Zona protetta. Tutto intorno ci sono milioni di poveri che si arrabattano per sopravvivere.
Un giorno un gruppetto di ragazzi di strada riesce a penetrare nella zona protetta. Il film mostra tutto l’orrore di cui sono capaci ricchi e poveri. I primi per mantenere il loro privilegi, i secondi per accedere al paradiso che vedono ogni giorno in televisione o per la città, ma che un dio malvagio ha loro vietato, costringendoli a vivere all’inferno.
Mi sembra che questo film sia una metafora del nostro mondo occidentale ,e mostri bene dove siamo, dove stiamo andando, e il motivo principale del degrado.

Ora parliamo di te. So che sei impegnata su più fronti artistici.
Quante ora scrivi al giorno? Sei una scrittrice metodica, regolare, oppure aspetti le ispirazioni e i loro capricci?


Non ho metodo né regolarità nello scrivere, poiché mi occupo di molte cose piuttosto impegnative. Ho però molta disciplina che si manifesta nel dedicare ogni momento libero alla scrittura tralasciando svaghi, amici, passeggiate, shopping, palestre ecc .

È possibile vivere di letteratura, oppure non c’è alcun legame tra la vita pratica del letterato e la vita activa, cioè quella della contemplazione, dello spirito, della creazione?

Per quanto mi riguarda non riesco a vivere di solo letteratura. Sia dal punto di vista economico, che psicologico. Penso che impazzirei o diventerei un insopportabile narciso. Ho bisogno di vivere intensamente nella realtà.

Cosa stai preparando di bello per il futuro?

Sto scrivendo una storia che in qualche modo mi riporta indietro. Ai temi e alle terre del mio primo romanzo “Fa così anche il lupo”.

Cosa ti aspetti da Cuori di Nebbia?

Che qualcuno lo faccia vivere leggendolo.

Ci puoi dire in poche righe cosa c’è in Cuori di nebbia?

Ci sono i vivi e ci sono i morti a raccontare in prima persona come sono andate le cose lungo la via Emilia una notte d’inverno.
Vittime, assassini e testimoni forniscono pezzo dopo pezzo intrecciando le loro voci come in un gioco a incastro la propria versione dei fatti ed espongono alla luce in una sorta di confessionale l’intima verità della loro esistenza.
Quando la tessitura della trama sarà completata e si conosceranno le molteplici conclusioni, emergerà il quadro di una Padania popolata da una umanità in cui il confine tra bene e male, patologia e normalità è labile come i contorni di casolari, alberi , strade, quando sulla pianura cala la nebbia.

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