Ricordando il Novecento di Ezio Raimondi
Stefano Chemelli, Ricordando il Novecento di Ezio Raimondi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 15, luglio 2018/giugno 2019
Incrociare nella vita un grande maestro vuol dire, di fatto, cambiare il Senso del proprio destino. Lo sanno tutti coloro che hanno ricevuto questa inestimabile fortuna, e lo percepiscono, di là dai necessari limiti temporali e spaziali, attraversandone l’aurea luminosa, riflettente il significato di una presenza (forse) senza fine.
Quando nel 1999 Ezio Raimondi (1924-2014) tornò in terra sudtirolese – in un cammino di conoscenza mai domo, iniziato nel magistero bolognese nascente nel lontano 1955 – a Bressanone si tracciava quella parabola di dodici anni che lo avrebbe portato a chiudere sulle parole di Dante e di Mandel’ ŝtam, in un’aula di lusso straripante di emozione, perché il senso di quel luogo donava il significato di un’esistenza unica, un sentiero accademico mai così lontano dall’Accademia…
Esempio, magistero, discrezione, produttività, riservatezza sono frecce intatte che Ezio Raimondi ha lanciato negli “spazi interstellari” di una parola e di una scrittura che resteranno nel tempo, frantumato e precario ma intelligente, risoluto, volitivo, persino violento, nel suo lavoro quotidiano, nel suo pensiero e nella sua scrittura.
Tasso, Leopardi, Manzoni, Nabokov, Tocqueville, Hofmannsthal Gadda, Broch: sono solo otto nomi otto che peschiamo nella straordinaria sintesi di un secolo novecentesco, che Raimondi dilata sezionandole in tre parti nei due volumi condotti della “sua” Letteratura italiana per Bruno Mondadori.
Sono pagine che erano costate a lui una fatica particolare, perché aveva distillato in modo ancor più accessibile (diremo desanctisiano, in senso scolastico) un sapere circoscritto a un solo secolo, già con le Poetiche della modernità (Garzanti), con Novecento (nella duplice versione Carocci) e Letteratura (Clueb), per non ricorrere agli incunaboli ultimi dedicati all’Etica del lettore (il Mulino), a Un teatro delle idee (Rizzoli), alle Voci dei libri (il Mulino), a Camminare nel tempo (il Mulino), veri lasciti testamentari quanto un “docufilm” in HD girato in presa diretta al Goldener Adler di Bressanone il mattino alle 9 del 10 dicembre 2010, prodotto dalla FONDAZIONE MUSEO STORICO del TRENTINO, per la regia di Lorenzo Pevarello.
Erano gemme, gli ultimi fuochi di una intelligenza copiosa, umanistica e scientifica, di un’umanità di altissimo grado che migliaia di studenti hanno incamerato per sempre nella loro traiettoria di vita.
Vita intangibile, dono blindato e sigillato con l’apertura insaziabile della propria personalissima curiosità, della singola fallacia di allievi perennemente in affanno: “… la letteratura del Novecento conclude il capitolo che si era avviato negli anni del Romanticismo, con l’apertura ad una modernità che era tutt’uno con l’Europa e che aveva in Manzoni e in Leopardi le grandi voci di un’anima nuova, individuale e insieme collettiva”.
I cambi di paradigma sono per Raimondi gli snodi, le fratture, le molteplicità di quegli intrecci dissonanti che aveva addirittura discusso di persona con Braudel più volte, con Kuhn a New York, nel vigore interpretativo non solo di tutta la scuola ermeneutica tedesca ma pure intriso nelle pagine folgoranti di Pierce, scoperte in un inverno glaciale a Manhattan tra luci in tralice, con tutta la forza percettiva della sensazione acuta, creativa.
La Storia per Raimondi è sempre stata non solo Storia della Letteratura e Storia del Teatro, ma storia a partire dalle formidabili indagini di Ranke e di tutto quel filone germanico svizzero austriaco che ha sempre considerato l’uomo di cultura ma anche l’uomo antropologicamente dato. E come dimenticare l’occhio sempre vigile sopra Delio Cantimori, il vero maestro, fra gli altri, di Renzo De Felice.
Ma Storia per Raimondi era anche la lezione indimenticabile di Bergson e di Ortega, del dialogo possibile e impervio tra le generazioni, il problema del tempo e dello spazio, della simultanea metamorfosi che metteva in discussione anche quella piccola parte di verità che si poteva solo faticosamente sedimentare come labile certezza, ma reale.
“L’apparizione dell’ultima generazione dell’Ottocento, che è anche la prima del nuovo secolo, coincide con la metamorfosi dei programmi e delle forme espressive, tra lirica e romanzo, tra totalità e frammento, tra costruzione e montaggio”.
Si badi che le forme della totalità non sono che pseudonimi della globalizzazione imperante, eccitante a tal punto da far scattare nuove forme di identità, più ampie, flessibili, socioeconomiche, non soltanto sovraniste.
E come obliare il magistero di un altro insigne europeo come Gianfranco Miglio, uno studioso siderale nel neofederalismo non solo europeo che viene da lontano, da “ragioni forti”, come ci raccontava Raimondi, dall’Europa pure di Curtius, quella medievale dei suoi statuti.
Fatta l’Italia, sono gli italiani da edificare: “Nello scrutare il passato, non può non venire alla luce un paesaggio franto e scosceso, dominato dal discontinuo e dal negativo. Tanto più difficile, diventa definire dei programmi e delle tendenze, per riconoscere come ciò che è stato fatto si trasfonda e si integri in ciò che resta da fare.” Molto.
Globalizzazione e cosmopolitismo non escludono molteplicità e complessità, anzi gli spazi culturali in senso lato esplodono nella loro biodiversità. La singolare profondità dei nuovi simulacri digitali frantumano ogni certezza, ma al contempo richiamano un desiderio avvertito di percezione e interpretazione, che esigono un nuovo modo di indagare l’istante del presente, ma indagare vuol dire prendere sul serio ogni persona –avrebbe detto Raimondi – anche attraverso la parola ricca della letteratura. Cultura dell’uomo è vita vera, esperita e peritata nel faccia a faccia, ossia nel modo più onesto, efficace, diretto, esemplare. Quello della scuola che spesso ha reso fallace la sua missione culturale.
Indagare e esplorare la parola dell’uomo vuol dire entrare nel testo vitale delle esperienze, degli incontri, come Hugo von Hofmannsthal ha dettato per tempo.
Gadda, Broch, Musil, emblemi della complessità perché umanisti e ingegneri, letterati e scienziati, adeguati a usare tutto lo spazio dello scibile con una voce plurima, diversificata, creativa, multiforme. Capaci di sorprenderci, stupirci, solo se sappiamo osservare con attenzione la parola difficile e complessa delle nostre contraddizioni quotidiane. Capaci di costruire un disegno di immaginazione plausibile, dettagliato, sfumato, alchemico. Dobbiamo citare Eliade, Culianu per entusiasmarci? Amore per lo studio, vita moltiplicata, amplificata, polifonia, rischio e incertezza: questo ci ha insegnato Raimondi. Cogliere i luoghi della sorpresa dove ci aspetta la vita: ove è custodita la metamorfosi e l’anticonformismo del nostro ethos quotidiano.
Essere liberi: la persona libera va verso il bene comune, ma è la singolarità che va coltivata. E la felicità della scrittura può indicare una via possibile di esistenza impregiudicata e pure spregiudicata. Pure nel dramma, nel teatro delle nostre idee, nella prosa e nella poesia, in quella saggezza interrogativa che risulta un difficile approdo, un sentiero precario, un viaggio verso una responsabilità viva. Accogliendo chi è diverso da noi nel rispetto di regole condivise. La vita delle forme è l’amore per le forme, che è sostanza. L’amore anche per l’immaginazione. La dignità e la giustizia, la giustizia e la dignità: Manzoni ci insegna meno di Mann, ma gli italiani questo hanno. Se ne ricordino… E si ricordino di Ezio Raimondi!
tag: critica letteraria, filologia, raimondi, storia del teatro
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