Intorno a una traduzione italiana di Tempeste d’Acciaio di Ernst Jünger. Elementi per una biografia intellettuale
Maurizio E. Serra, Intorno a una traduzione italiana di Tempeste d’Acciaio di Ernst Jünger. Elementi per una biografia intellettuale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 37, no. 18, settembre/dicembre 2014
Un giorno di primavera a Berlino, alcuni anni fa, al terzo piano di una casa «casa occupata» di Potsdamer Straße a due passi dal muro, che giovani oppositori della speculazione urbana stanno rimettendo in sesto con piglio un po’ dogmatico. Dalle ringhiere fine-secolo pendono ad asciugare gli indumenti in varie tonalità di arancione dei seguaci di una setta religiosa. Dentro, barattoli di vernice, strumenti musicali, stoviglie da lavare. In un angolo, una pila di libri: il primo è Annährungen (Approcci), l’itinerario fra le droghe e nell’estasi di Ernst Jünger [1895-1998].
Gli inquilini ignorano che alla loro età, più di mezzo secolo prima, Jünger, sopravvissuto alla Grande guerra con una dozzina di ferite gravi e la massima decorazione tedesca, l’Ordre pour le Mérite, dava alle stampe tutt’altro breviario, In Stahlgewittern (Tempeste d’acciaio). Acclamato agli esordi dall’ala più radicale dei reduci, lo scrittore ha raccolto e continua a raccogliere, nel lunghissimo autunno di un’esistenza che sfiora la soglia di un’ironica mitologia, l’omaggio di hippies, verdi e alternativi di varia estrazione, venuti a bussare all’eremo di Wilflingen.
Il contrasto è suggestivo, ma non deve trarre in inganno.
Malgrado qualche tentazione oracolare, Jünger non è stato il vero capofila dei primi, né può essere considerato oggi il patriarca o il consolatore dei secondi. Dall’alto dei suoi novantacinque fertilissimi anni, contempla con occhio freddo e intento, come ha sempre fatto, la stratificazione della vita. Dalla flora e dalla fauna, dalle pietre e dagli insetti, emerge l’uomo sospinto dalla forza imparziale dell’esistere. Roseau pensant alla maniera pascaliana, in bilico sul ciglio dell’abisso, pronto ad essere ghermito dalle sabbie mobili o dalle macchine di fuoco, quasi portato a rimpiangere, nei momenti di abbandono e di rapimento, il respiro naturale del cosmo.
L’attualità non aiuta a chiarire le cose. Lo si è visto nel 1982, quando Jünger fu insignito del Premio Goethe della città di Francoforte, riservato a coloro che hanno speso la vita per la causa della pace. Ci fu chi gridò allo scandalo, minacciando d’impedire a forza la manifestazione, con non poco divertimento dell’interessato. La cerimonia si svolse poi in buon ordine e consentì all’editore Wolf Jobst Siedler di riassumere alla tribuna il duplice quesito che sale dall’opera di Jünger. Da una parte, la ricerca di un principio di unità che impedisca alla storia degli uomini di «scadere a zoologia»; dall’altra, le pulsioni di un «anarca» (termine preferito al più sommario anarchico) che dell’ambiguità ha fatto il mezzo d’ogni conoscenza.
Niente modelli, dunque, nessun galateo spirituale per l’olocausto nucleare o ambientale che incombe sul nostro futuro.
«Non mi si prenda per una guida, ma per una mappa del terreno. Noi non soffriamo d’un’assenza ma di una sovrabbondanza di guide». Jünger ripete spesso questa frase. In cinquanta e più volumi, egli ci lascia molte cose in eredità, tranne una: lo jüngerismo. Non è il caso di inventarlo al suo posto.
Quegli equivoci che hanno accompagnato tutto il suo percorso, non senza che egli vi abbia contribuito con un certo compiacimento, nacquero proprio da In Stahlgewittern, quest’opera prima che parve, nel 1920, un appello alla rigenerazione delle virtù teutoniche in vista di un’immancabile rivincita. In realtà, l’autore, nato nel 1895 ad Heidelberg nella framiglia di un probo farmacista, avrebbe potuto esclamare come Stefan George, il cantore della «Germania segreta», allo scoppio delle ostilità, che l’Impero guglielmino non era la forma dell’ideale tedesco, ma era pur sempre una forma.
Per l’adolescente fuggito prima del conflitto ad arruolarsi nella Legione straniera (evento molto rivisitato, che durò poche settimane), l’etica delle armi rappresentava il rimedio al conformismo paterno. Non era un’eccezione, tra le fila dei «moderni barbari» che fiorirono ovunque nell’Europa di allora. Ma Jünger mostrò lo stesso entusiasmo alla fine della guerra, al punto di descrivere quei cinque anni di sacrifici come la fucina di uomini e di combattenti «sempre più lucidi e determinati».
Il fronte aveva plasmato con il soldato lo scrittore. Molti anni dopo, Jünger confesserà di non aver mai letto tanto come in trincea, tra due attacchi, a cominciare da Sterne e Ariosto. È lì che apprende ad osservare, con la stringatezza del testimone che può diventare vittima da un momento all’altro, l’epifania della guerra: la carne verdastra, «simile a quella del pesce», di uno dei primi cadaveri; l’ordine delle selci bianche sul bordo della strada; l’attrazione della terra, a cui restare avvinti nel pericolo come alla madre.
È il battesimo della famosa e famigerata oggettività che avrebbe sedotto e intimidito schiere di lettori, fra cui spicca l’umbratile Gide: annotazioni rapide e vibranti, schegge di una bomba incendiaria che illuminano per un attimo il campo di battaglia.
Ecco i feriti calpestati dai commilitoni che avanzano a ranghi serrati, le mischie di prima linea senza prigionieri, le razzie della soldataglia ubriaca, figure grottesche agghindate con ombrelli e cappellini da donna, i «dodici campanili fatti saltare in una sola mattinata» che tanto indignarono la pubblica opinione in Francia e nel Belgio. Ecco l’evocazione del nemico freddato, il cui taccuino rivela «nomi e indirizzi di tante ragazze di Londra», il tè con i bravi ragazzi borghesi, che ospitano le truppe dell’uno e dell’altro schieramento; la dolcezza di una fanciulla nuda, appena intravista; le sobrie allusioni ai compagni caduti e agli amatissimi fratelli, tutti arruolati, fra i quali spicca il poeta Friedrich Georg, che meriterebbe oggi un po’ dell’attenzione che rivolgiamo ad Ernst.
L’oggettività parve a molti critici atonia morale, edonismo del sangue, solidarietà con «l’istinto del cacciatore e l’ansia della preda», e fece delle Tempeste un prototipo del revanscismo, quasi un precursore del nazismo. La questione è più complessa: il libro fu lodato da Hitler all’epoca in cui sperava di arruolare Jünger tra i suoi fidi, ma violentemente avversato dai bardi del regime, in specie della corrente völkisch o nazionalpopolare.
È probabile che nell’immediato dopoguerra, rimasto nell’esercito prima di passare a studi di scienze e di filosofia a Lipsia e a Napoli, Jünger aspirasse a prendere la guida di una vasto movimento di sensibilizzazione contro la Repubblica di Weimar, ostile alle riparazioni e alla logica della sconfitta. Ma, nell’arcipelago della cosiddetta rivoluzione conservatrice, il suo ruolo apparve sempre più quello di un isolato. Alle Tempeste seguirono altri ricordi di guerra e libelli estetizzanti di sapore insurrezionale, al di là dei quali maturava il germe della Desinvoltüre, che sarebbe diventata il motto, forse il limite, della sua maturità.
A cavallo degli anni Trenta, mentre la nuova generazione si riarma, tramonta in Jünger l’uomo d’azione, il capopopolo, ed emerge il viaggiatore, il collezionista, l’esteta pagano. Una svolta che non appartiene – ictu oculi – alla tradizione del decadentismo centroeuropeo, ma sorge dalla consapevolezza che i tempi nuovi spettano all’Arbeiter, il lavoratore o l’operaio, descritto in un saggio del 1932: l’uomo con cui Jünger non riesce a identificarsi come vorrebbe, l’apice e il termine della sua umanità guerresca.
Per sua e nostra fortuna, fu una vittoria dello scrittore sul novello Cesare.
Con Der Arbeiter Jünger non apriva ma chiudeva un ciclo.
L’idea che l’uomo moderno perda la propria autonomia, la centralità della storia, con lo sviluppo della tecnica, non era sorta con la Grande guerra, ma dalla Grande guerra aveva tratto impulso.
Il Tramonto dell’Occidente di Spengler si era chiuso nel segno della marcia parallela del denaro e della macchina: due spauracchi del futuro moralismo nazista e del ritorno ai valori collettivi nel senso più deteriore. Un riformatore come Rathenau, avversato da Spengler (attratto semmai dal rivale capitalista di Rathenau; Hugo Stinnes) aveva osservato, prima di cadere sotto i colpi dei «proscritti» jüngeriani, che Mechanisierung e Spezialisierung, sarebbero diventate l’alfa e omega delle «forze dell’anima e dell’intelletto» in un’epoca segnata dall’implacabile ripartizione del lavoro e della produzione. Hitler, come aveva pronosticato sin dal 1931 Ernst Niekisch, il filosofo nazionalbolscevico amico di Jünger, era destinato a rivelarsi come il capo in grado di ridurre la paura della modernità, tutta tedesca ma non solo tedesca, al suo dato primitivo e consolatorio.
Si arriva così, in estrema sintesi, al nodo delle relazioni tra Jünger e il nazionalsocialismo: né opposizione né concessioni, rifiuti di ogni incarico e prebenda, lealtà alla patria e nulla più, in applicazione di una celebre sentenza della vigilia: «Non ci si può occupare oggi della Germania in mezzo ad una consorteria, occorre farlo da soli, come l’uomo che avanza a colpi di ascia nella foresta, sperando che altri nel folto della boscaglia siano intenti alla stessa opera».
Jünger non è passato neppure dalla breve fase di adesione al regime di un Benn. In compenso, non ha lesinato critiche (dopo la guerra) a chi, come Thomas Mann, parlò dai microfoni americani per invocare la diaspora dei tedeschi. Nella pattuglia dei grandi intellettuali rimasti in patria, figura tra coloro che meno si sono compromessi col regime; ma ha saputo giocare bene le sue carte.
All’irrompere del nuovo conflitto, Jünger torna alla «forma» onorevole della divisa: scelta non priva di riflessi pratici, dal momento che l’esercito garantiva protezione, entro certi limiti, a chi era entrato in rotta di collisione col Terzo Reich, come dimostrerà il caso del «pornografo» Benn.
Protezione che si rivelò opportuna, dopo la pubblicazione delle Scogliere di marmo (1939), allegoria oggi molto invecchiata del dissolvimento di uno Stato totalitario, che parve allora – e verosimilmente fu – il massimo dell’audacia. Ammirevolmente tradotto in Italia da Alessandro Pellegrini, il libro indispettì i più giovani, come Giaime Pintor.
Nella produzione di Jünger, le Scogliere inaugurano quel filone visionario da cui verranno Heliopolis (1949), Ritorno a Godenholm (1952) ed altri ancora, fino all’ultimo grande romanzo dello scrittore, Eumeswil (1977). Malgrado il fascino di molte pagine, si stenta a considerarla la parte migliore dell’opera. Dialoghi e personaggi sono di rado credibili e brillano più del riflesso di un’intelligenza perentoria che non di luce propria.
La guerra segna la maturazione del diarista, partito dalle Tempeste per giungere agli esiti di Approcci (1971) e di Settanta si cancella (1981), sino alle pagine che sgorgano tuttora mirabilmente dalla sua penna. Alle prese con la campagna di Francia, poi con la Parigi dell’occupazione, bella, discinta e umiliata, sempre femminile, in cui vanno e vengono Jouhandeau e Arno Becker, Sacha Guitry e Céline (che non ama), resistenti e borsaneristi, il diarista ci dona quel che il romanziere ci nega: niente pettegolezzi o quasi, ma uomini in carne ed ossa, meditazioni, frammenti di letture, descrizioni di luoghi, allusivi messaggi politici e sentimentali.
Un’arte vicina all’uso francese e inglese del journal, italiana nel gusto dell’avventura picaresca, tedesca nel disegno fermo e preciso. L’anarca si riavvolge in se stesso, nidifica, saggia il terreno, osserva, prende di rado posizione, attende tempi migliori. Lo stile si conferma nei volumi successivi, un mestiere tecnicamente perfetto, mai invadente, che toglie forza ma non curiosità all’istinto vitale. Potrà piacere o meno, ma è grande manierismo: la cifra, con ogni probabilità, di un Occidente sottratto al sound and fury di una guerra che non appartiene più all’uomo, di un dopoguerra che non lo rasserena, né placa le sue autentiche energie.
Nel folto della foresta antihitleriana, la tragica congiura del 1943-44 per salvare romanticamente la patria eterna, nasce La pace, riflessione che annuncia la scelta umanistica del dopoguerra. La morte del figlio Ernst nelle «cave di marmo» di Carrara ispira a Jünger una bellissima veglia funebre, ove lo scrittore confronta il destino di due ragazzi: quello sopravvissuto alle «tempeste d’acciaio» e quello caduto al primo scontro a fuoco.
Col 1945 si apre la terza stagione del suo itinerario, che è anche la più appartata, al punto che, fino a pochi anni fa, si poteva parlare di Jünger come di un sopravvissuto agli occhi del grande pubblico, in Germania e fuori.
A Wilflingen – ove vive immerso tra le sue collezioni nella foresteria del castello degli Stauffenberg, i martiri del fallito colpo di stato del 20 luglio 1944, e da cui parte per i suoi viaggi eruditi e maliziosi –, Jünger presta un’attenzione cortese ai visitatori e non trascura i corrispondenti lontani, magari sul retro di una riproduzione della trachydora jungeri o altro coleottero. L’inclinazione al sacro non cede in lui alle pulsioni profane dell’anarca. Finché vivrà l’una, vivranno le altre.
Sin dagli esordi, a onor del vero, Jünger si attiene all’impostazione stilistica che non lascerà più, e questa permane la lezione di fedeltà determinante nella sua varia e vasta opera: creare il massimo di associazioni ed evocazioni con il minimo ricordo alla Schwärmerei, al flou, all’indistinto poetico, o comunque si voglia chiamarlo.
Da lì giungerà a prediligere i testi di contenuto scientifico e concreto: prontuari, trattati di arti e mestieri, vocabolari etimologici, atlanti. Del resto, pure Gabriele D’Annunzio li amava, ma per tutt’altro uso. Circospetto verso musica e arti figurative, Jünger ammira la prosa dei grandi botanici come quella dei moralistes eretici, da Cellini ai viaggiatori inglesi del Sei e del Settecento. Solo Hölderlin, Rimbaud e Nietzsche sembrano guidare il suo cauto accostamento al nodo della sensibilità moderna.
Nelle Tempeste avvertiamo, dietro l’autocontrollo del combattente, il bisogno di far raffreddare e decantare un’intelligenza in agguato, intransigente, lirica; ed il lirismo sgorga in pagine come quelle ove, gravemente ferito una volta di più, il protagonista si sente sul punto di lasciar la vita, ne contempla la «forma intima» riconciliato col pulsare del mondo.
Qui il lettore non ha di fronte un soldato o un mistico, ma lo scrittore splendidamente agnostico, che sa cogliere per un attimo – e di più non potrebbe – il condensarsi dell’umana avventura. È un motivo che ritroveremo fin nell’estasi del drogato in Approcci: rassegna di esperienze allucinatorie, ma prima ancora messaggio di chi, chiamato a cogliere il flusso della vita e a dominarlo quanto può, lancia uno sguardo oltre la porta e non soccombe alla visione. Es genügt, basta così: l’intimazione è chiara, senza appello.
Nelle Tempeste il documento non sempre si eleva a rappresentazione, l’autocontrollo cede a volte all’autocensura, l’antipsicologismo rischia di evitare una retorica per crearne un’altra: partito preso, quest’ultimo, risolto con estrosa sensualità in un’opera singolarmente affine a questa, Giorni di guerra di Comisso.
Difetti in larga misura riscattati dall’amor proprio del protagonista, il quale dissimula l’ansia asperrima di non poter assistere alla vittoria, nonché dagli appetiti di un ragazzo di provincia, troppo colto e analitico per i suoi compagni: quel tanto di «rosso e grigio», come avrebbero dovuto intitolarsi le Tempeste, di matrice stendhaliana.
Jünger non si dimostrerà più così partecipe della storia di tutti, eroica e comune. Se l’anarca è sempre in dialettica feconda con l’umanista, il volontario del 1914 avrà rivelato all’artista, via via più consapevole dei suoi mezzi, il segno di un’irrecuperabile pienezza di vita.
Il rifiuto dell’autorità paterna, del positivismo, del clima ovattato di un’esistenza non predisposta agli imperativi della lotta per un ordine superiore, è la lezione delle Tempeste. Essa non verrà meno in seguito, nemmeno con la certezza che quell’ordine non esiste. A lungo andare, Jünger ha saputo venire a patti con la storia e le sue servitù. Al nume sacrificale del Poeta-Condottiero, egli ha preferito lo scriba delle Scogliere; o il barista-scienziato di Eumeswil, che serve da bere al tiranno per meglio tramandarne ai posteri la fine.
Le ultime cose dello scrittore, come Il problema di Aladino (1983), in cui non si tratta di campi di battaglia, ma dell’utopia di un cimitero universale, paiono riconciliarlo con i ‘valori’ del passato, con il mondo provinciale dei suoi avi.
Ma bisogna intendersi. L’anarca non è mai stato un nichilista puro: sa rassegnarsi alle convenzioni e coglie nelle pieghe del torpore altrui la prova della sua libertà. Che tratti del rapporto con il potere o dei paradisi artificiali, che discetti dello splendore di una crisalide o del sapore di un grand cru, Jünger non cessa di proclamare che esistono solo «approcci» all’assoluto. Il freno della scrittura non è il limite, bensì la salvaguardia di ogni esperienza.
Guai a pretendere di più. Nature ben più veementi e aggressive della sua – basti por mente a discepoli emancipati a forza come Eugen Gottlob Winkler o Klaus Mann – si sono avventurati oltre le colonne d’Ercole per non fare più ritorno.
All’inizio degli anni Sessanta, il breve saggio sullo Stato mondiale ci offrirà la chiave di volta di un mondo il cui ricatto atomico cancella i residui dell’«età omerica» e toglie per sempre alla guerra l’impulso a «far battere più forte il cuore degli uomini e degli dei».
La vittoria del pacifismo sorge dal fatto che il conflitto tecnologico è passato nel campo degli ‘assoluti’, che l’uomo non ha più il diritto di affrontare e stuzzicare onde averne, in cambio, uno scampolo di autonomia personale: «Un uomo può essere in armonia o in contrasto con le forze del suo tempo. È secondario. In ogni circostanza egli può dimostrare come ha saputo crescere, e con ciò dimostra la sua libertà. Come restare fedele a se stesso: è il suo problema. È anche la pietra di paragone della poesia».
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