Tra Leopardi e Dante, due lezioni
Monica Fabbri, Tra Leopardi e Dante, due lezioni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 15, ottobre/dicembre 2012
La noia è un gran brutto affare per un professore. “Mi riprometto di cambiare ogni anno percorso, programma ecc.ecc.” Buoni propositi, certo. Ma la lotta per la sopravvivenza si impone sovrana non solo ad Acitrezza e la ‘creatività tecnologica’ dei file accumulati servirà senz’altro a qualcosa nella rincorsa affannosa di spiegazioni, verifiche e programmi. Poi accadono incontri che ti ridestano il gusto, quel pizzicore di ricerca mai sopita, che ti fa spalancare gli occhi sui testi degli autori e i volti imploranti dei tuoi ragazzi. Un professore universitario di storia dell’agricoltura lo scorso anno si è accorto che gli studenti copiavano. Bella scoperta! Capita anche a te nell’alto dei cieli accademici. Ha deciso allora di cambiare metodo. Ha preso la raffigurazione del quadro del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti e glielo ha piazzato sotto gli occhi. “Che cosa vedete?” Dopo dieci minuti di inevitabile imbarazzo (del tipo, il prof. è impazzito e non ha voglia di spiegare), i più eruditi copioni hanno avanzato prestigiose ipotesi critiche e da lui sono stati immediatamente zittiti. “Non cosa vi hanno detto di vedere! Che cosa vedete voi!?”All’improvviso, ridestati da un lungo torpore, le giovani promesse agrarie si sono sbizzarrite e hanno visto tutto, anche quello che il professore non era riuscito a scorgere. All’esame non hanno copiato. Incredibile dictu. Vuoi vedere che funziona?
Sono entrata nell’attuale III B del classico (si tratta di una quinta, siamo classici e dunque gentilianamente nostalgici) e, dopo una ferrea ripresa del Manzoni, si passa a Leopardi. Titubante ma certa dell’esperienza fatta dall’illustre collega, ho preso l’Infinito e gliel’ho piazzato sotto gli occhi. Così. Ex abrupto. Senza le mie introduzioni a lungo elaborate. Senza puntualizzare la poetica, il genere dell’idillio (la storia di Teocrito e compagnia bella). Gli ho detto: “Lo so che è una poesia che avete sentito e letto tante volte anche alle medie, ma vorrei che ci aiutassimo a non darla per scontata, perché qui si esprime il cuore di un poeta cha amo tanto”. Mi ascoltavo. Ma davvero lo amo Leopardi, ogni anno, con la stessa intensità? Capivo che la domanda era diretta anche a me. Che cosa vedo qui tra le pieghe di versi, che conosco a memoria, di cui ormai per esperienza riesco a riconoscere ogni singola figura retorica, ogni lettera o virgola, di cui ho imparato approfondimenti critici che ogni anno dono agli studenti e vedo comparire nelle tesine? Parte Noemi, che come sempre usa una sfrenata fantasia: “Leopardi vede cose lontane, infinite, spazi immensi. Addirittura mi sembrano deserti”. “Rifletti: li vede davvero?” “Certo”. Come darle torto: è un’immensità tangibile, concreta, è diventata ‘questa immensità’. Cerco di riportarla sul testo, chiedendole da dove si origina la visione che il poeta fa trasparire. Non riesce a scorgere la siepe. Era una delle tante parole dell’idillio, priva di senso. Quando ci arriviamo, sconcertata dice: “Ma non è possibile, vede tutto l’infinito con gli occhi coperti da una siepe!” E mi sovvengono le parole di M. Luzi, che commentano l’itinerarium leopardiano, quel dolce naufragio dal finito all’infinito, tanto diverso dal cupo percorso di Giovanni Pascoli che nella poesia Nebbia de I Canti di Castelvecchio implora la nebbia impalpabile e scialba di nascondergli le cose lontane e di fargli vedere solo la siepe. Qui ritorno ad essere la canonica insegnante, anche perché non vorrei si perdessero dietro ad elucubrazioni perditempo, e gli chiedo di sottolineare i termini romantici. Partono spediti: “interminati, immensità sovrumani (e qui i più secchioni, docentium consolationes, citano il titanismo)”. Finché Sara, con una vocina appena percettibile, pronuncia: “Quiete”. “Be, ecco, Sara, quiete non è un termine propriamente romantico. Ricordi lo Sturm un Drang, la tempesta…” Mi ferma imperterrita: “Ma, prof, è una quiete che sa di infinito”. Sara è così, sintetica, essenziale e discreta. Ma tenace. Allora l’ascolto e coinvolgo tutti: “Cercate nel testo perché quella quiete sa di infinito”. Dopo un silenzio carico d’attesa, Lorenzo esclama: “Lo so. E’ profondissima, è una quiete profondissima. In latino profondo si dice altus, è qualcosa di vertiginoso come il mare dell’ultimo verso. Ti viene da esplorarla e non da stare fermo, in pace”.
Proprio così: basta un superlativo vicino per rendere un termine diverso da ciò che abitualmente significa. Allora mi vengono in mente le parole di San Agostino che mi hanno sempre commosso e un verbo che non ritornava nella mia traduzione: Cor meum inquietum est, donec requiescat in te. Non ho mai voluto tradurre quel requiescat con riposa, perché mi sembrava non bastasse. Ora intendo meglio la traduzione: Dio, “lo gran mar dell’essere”, come direbbe Dante, è una profondissima quiete, dove il “naufragar è dolce”. E allora: “Il mio cuore è inquieto, finché non trova piena soddisfazione in te”. Cioè in una quiete profondissima.
“Sì che dal fatto, il dir non sia diverso”.
Il verso 12 del canto XXXII dell’Inferno è una vera e propria dichiarazione di poetica. Nella ghiaccia di Cocito, prima di affrontare la descrizione del fondo del baratro, dove sono punite le anime più perverse, il poeta esorta le Muse ad assisterlo nella parola, poiché non sa e non riesce a dire (il topos dell’ineffabile: ciò che si vuole narrare, non è esprimibile).
“che non è impresa da pigliare a gabbo
Descrivere fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo:
ma quelle donne aiutino il mio verso”.
Il poeta sembra voler riflettere in maniera esplicita sulla lingua, sulla capacità di comunicare che, a questo punto del viaggio, viene messa fortemente in discussione. Già nel canto precedente la figura del gigante Nembrot è emblematica: egli, con la sua superba pretesa di raggiungere Dio per mezzo della Torre di Babele, causa la dispersione dei linguaggi. La lunga e appassionata meditazione di Dante sul linguaggio umano, sul suo nascere e il suo svolgersi, documentata nel De vulgari eloquentia (I, I-IX) dava a Nembrot un posto primario, da qui nasce quella figura smarrita testimone, forse più tragico dello stesso Lucifero, della conseguenza che deriva all’uomo dal voler misurarsi con Dio. Prima un’unica lingua, quella d’Adamo, poi, dopo il suo gesto, la confusione, l’incomprensione; lui stesso accoglie i pellegrini con un accozzo si sillabe prive di significato:
“Raphael mày amèch zabl almì”
Cominciò a gridar la fiera bocca
Virgilio si rivolge a lui con parole adirate:
E s’l duca mio ver lui: “Anima sciocca,
tienti col corno e con quel disfoga,
quand’ira o altra passion ti tocca
…
Poi disse a me: “Elli stesso s’accusa;
questi è Nembrot, per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lascialo stare; e non parliamo a voto.
Colpisce soprattutto l’esortazione finale, cioè di non sprecare inutilmente le parole sul responsabile di ‘caotiche favelle’. Ma cosa si nasconde tra le pieghe di questi versi? Andiamo ad esaminare il canto XXXIII, il più celebre del trittico finale, ma anche dell’intera Divina Commedia, perché narra la drammatica vicenda del conte Ugolino, morto nella Torre della Fame con figli e nipoti (Dante, non a caso, ci dice che sono tutti i suoi figli). Nelle ormai note letture dantesche spesso si estrapola questa narrazione dai toni foschi e cupi, che invece deve essere inserita nel contesto più ampio delle riflessione linguistica. Intanto sono due le parole chiave ricorrenti: bocca (“la bocca sollevò dal fiero pasto”) e parlare (“parlare e lagrimar vedrai insieme”; un verso simile viene pronunciato anche da Francesca da Rimini che è il primo personaggio dell’Inferno dantesco, quasi a voler abbracciare idealmente l’ultimo, il conte Ugolino). Il dramma di un padre che vede morire di digiuno ad uno ad uno i suoi figli è reso ancora più violento dal fatto che egli non è in grado di rivolgere loro nessun conforto: non riesce a parlare, è diventato di pietra.
“Io non piangea, sì dentro impietrai;
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! Che hai?
Perciò non lacrimai, né rispuosi io…”
La parola, svuotata di senso, non esce neppure di fronte al grido implorante di Gaddo: “Padre mio, ché non m’aiuti”. Si è pur riconosciuto che il grido di questo figlio chiede in realtà un conforto morale non del cibo. Ma la vera tragedia del conte Ugolino è nel non poter dare allora quel conforto; non che di speranza divina, neppure di dolcezza e di amore umano. Soltanto quando sono tutti morti il conte Ugolino grida disperato i loro nomi:
“Già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai poi che fur morti;
poscia più che il dolor potè il digiuno”.
Perché è così terribile questo racconto? C’è qualcosa di più che una morte per fame. La terribilità della storia sta di fatto nella mancanza di ogni luce, di ogni speranza; ciò appare in quell’uomo che non riesce a parlare, che, pur amando i propri figli non riesce a dar loro alcun segno d’amore, tanto che i suoi gesti e sguardi li spaventano. Il suo cuore è serrato e buio come quella torre. Che il poeta sia attento alla lingua è ancora evidente nel secondo e celeberrimo verso dell’invettiva:
“Ahi Pisa, vituperio delle genti
del bel paese là dove il sì suona”.
Il linguaggio si può usare appieno ed ha significato solo se è fondato dall’amore, solo se all’origine esiste un senso unitario. Altrimenti lo si utilizza senza dire niente come fa il confuso Nembrot. Quel verso 12, allora, del canto XXXII diventa l’unica certezza sul valore della lingua, le parole devono essere fatti e niente più. Il fatto, ciò che accade, è il segno luminoso di Dio, di colui che è il fondamento di tutto.
“Sì che dal fatto, il dir non sia diverso”.
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