Bibliomanie

Max Loreau, Poesie/Poèmes, a cura di Adriano Marchetti
di , numero 31, ottobre/dicembre 2012, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Riccardo Campi, Max Loreau, Poesie/Poèmes, a cura di Adriano Marchetti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 12, ottobre/dicembre 2012

Per gli happy few che, in Italia, hanno il privilegio di conoscere e frequentare l’opera poetica, nonché filosofica, di Max Loreau, il volumetto curato da Adriano Marchetti costituisce un dono prezioso – e non solo per i lettori italiani: il volume, infatti, contiene la traduzione, con testo originale a fronte, di alcuni testi poetici che l’autore non diede mai alle stampe, e che, dunque, fino a oggi, sono rimasti inediti anche in francese. È lecito supporre che egli, con il rigore e l’intransigenza che contraddistinsero ogni sua scelta esistenziale e intellettuale, li reputasse troppo intimi e personali, o magari superati dai successivi sviluppi della propria ricerca poetica.
I primi cinque componimenti della raccolta, non datati ma risalenti agli anni Sessanta, letti retrospettivamente, appaiono tuttavia come una sorta di preludio, per nulla episodico (checché ne pensasse l’autore medesimo), alla produzione del decennio successivo, che vide la pubblicazione, in rapida successione, di alcuni dei suoi testi creativi più importanti, ovvero Cri. Éclats et phases, le Nouvelles des êtres et des pas e i Chants de perpétuelle venue (rispettivamente nel 1973, 1976 e 1978, tutti apparsi presso Gallimard). Se in essi il tono dominante, le immagini, gli accenti e le cadenze del verso libero sono ancora quelli della poesia lirica novecentesca, e non si distinguono per originalità, il lettore avvertito non faticherà però a riconoscervi il primo nucleo dei temi con cui Loreau si confronterà nelle sue opere maggiori. Malgrado il loro lirismo, che egli saprà in seguito controllare e perfino reprimere, immagini ricorrenti come quelle dello sguardo o del volo (la prima poesia della raccolta s’intitola I tuoi occhi, la terza L’occhio e l’uccello) assumono, già in questi primi tentativi poetici, un significato che trascende il loro carattere di topoi tradizionali della poesia lirica: esse, piuttosto, sono figure che alludono a una diversa idea di poesia che Loreau intende come apertura originaria al mondo, la quale è, al contempo, slancio e smarrimento. Ciò che Loreau cercava, e cercherà per tutta la vita nell’«abbacinamento» della poesia, è – dichiara in «Aeroliti d’abbacinamento..» – «la fioritura delle forme pure / sempre incompiute / qui pervenute come un canto che si dissolve / senza che mai si spezzi il filo / in fondo ad occhi così simili / al tempo meditante». In questi primi tentativi, l’occhio e il volo sono ancora oggetti per nuove variazioni letterarie, certo, ma il loro insistente, quasi ossessivo ritornare da una poesia all’altra rivela che queste immagini agiscono nel testo come figure metaforiche del compito proprio che Loreau attribuirà alla poesia in quanto tale: «Ecco perché la sua pupilla imparziale, / amante del garbo e dei segreti illuminati, / non smette di sbocciare / nella sua notte di mormorii, di scansioni nascenti, / spiccare il volo / verso il più grande spalancamento», come si legge in un altro componimento, intitolato «Sordo al mondo…». Non si deve dimenticare che chi scriveva queste liriche era un filosofo che aveva grande dimestichezza con la fenomenologia di Husserl, e che avrebbe scritto, una ventina d’anni più tardi, un monumentale studio sulla Genesi del fenomeno, ma che, nello stesso tempo, nutrirà sempre la convinzione che poesia e filosofia fossero «gemelle alla sorgente», come suona titolo di un breve testo di poetica del 1978: questo significa, secondo Loreau, che poesia e filosofia non soltanto traggono (e non possono non trarre) origine da un’unica sorgente – il linguaggio –, ma soprattutto che esse sono, ciascuna con i propri mezzi, modi per afferrare e dare forma, nel suo sorgere originario, al fenomeno, ovvero al mondo sensibile.
Al di là dell’ovvia importanza che questi componimenti lirici presentano come testimonianze per ricostruire criticamente i primi sviluppi del lavoro creativo di Max Loreau, il loro estremo interesse, oggi, risiede in particolare nel fatto che essi rivelano come l’esigenza della scrittura poetica nascesse in lui da un profondo bisogno – diciamo pure: da un’esigenza personale – di esprimere il senso di «abbacinamento» del soggetto al cospetto di un mondo che sorge alla luce insieme allo «occhio» che ne contempla, stupefatto, la nascita, sempre nuova – esperienza che Loreau, in questi componimenti, esprime in maniera ancora imprecisa, forse, ma chiara: «estasi / di ricaduta in ricaduta / di ripresa in ripresa / fertile», ovvero, come scrive in un altro testo: «Scaturisci, cadi, cadi, apriti, mondo…». È questa l’esperienza fondamentale (nel senso forte, filosofico del termine) cui, nei decenni successivi, la poesia di Loreau cercherà ostinatamente di dare forma, e che le forme della poesia lirica trasmessegli dalla tradizione si dimostreranno, ai suoi occhi, sempre meno capaci di dire adeguatamente, costringendolo a trovare nuove soluzioni per la propria scrittura.
Molto opportunamente è stata inserita in questa raccolta la suite in cinque movimenti Avec le temps (anch’essa inedita in italiano, ma originariamente apparsa nel 1986 nel volume Florence portée aux nues). In essa, è ormai chiara la direzione che ha preso la ricerca di Loreau: nel seguire il moto del sole, dal suo sorgere fino alla notte, è la poesia stessa che diventa movimento, ossia ritmo, che scandisce le fasi del venire alla luce (in questo caso, letteralmente) del mondo sensibile: «A poco a poco / indivise / perplesse / le cose / che si rivestono di sensibile». Per dire questo «cominciamento», la poesia si appropria del linguaggio della filosofia e lo piega alle proprie esigenze: «Ogni essere è / forma che emana da suo proprio intimo, / dalla propria sorgente rinchiusa / che si dispiega, / monade / rifulgente di tutta la sua luce / verso tutta la luce / infinita, / nel suo centro / in nessun dove». Ma la poesia di Loreau è «filosofica» non solo per questo motivo (in definitiva estrinseco), ma perché, come si diceva un attimo fa, il suo oggetto stesso coincide con quello di una filosofia che si voglia una «fenomenologia dell’origine». In questa suite poetica, il sorgere del sole, il mattino, il meriggio, il tramonto, la notte non sono più oggetti da descrivere e rappresentare (una volta di più, dopo che un’intera tradizione poetica lo ha fatto – spesso mirabilmente – per secoli): la poesia di Loreau, qui, rinuncia a immagini, topoi e stilemi della lirica, e si fa, in senso letterale, ritmica del tempo, dinamica del divenire, del sorgere e tramontare, perché, in lui, la poesia ambisce piuttosto, con il ritmo che le è proprio, a farsi essa stessa movimento ascendente, progressiva illuminazione, e, allo stesso modo, progressiva discesa, declino, oscuramento. Come Loreau scriveva nel 1978, ormai certo di quelli che sono i compiti precipui della poesia, essa «dice quella stessa sorgente, facendo in modo che essa scorra e rimanga quel gorgoglio che sorge, si annulla in se stesso, e che, quanto più cresce, tanto più si perde – si nutre delle proprie ombre», e in ciò essa si distingue dal discorso propriamente filosofico.
L’ultimo testo della raccolta (fortunatamente strappato all’oblio cui, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto essere abbandonato) esprime questo compito – o forse dovremmo dire: questa aspirazione – della poesia di Loreau nella maniera più esplicita, tanto esplicita che, forse, all’autore dovette apparire addirittura eccessivamente programmatico, quasi didascalico, a causa del suo esplicito carattere meta-letterario. Ma, proprio per questo, si tratta di un testo che costituisce una delle migliori chiavi per accedere al nucleo della riflessione e della prassi poetica di Max Loreau. Fin dal titolo, Lettres, esso introduce al cuore della questione: la poesia, la scrittura è innanzitutto linguaggio afferrato nel suo farsi, nel suo costruirsi come discorso, lettera dopo lettera, tratto per tratto, nel gesto della mano che tiene la penna tra esitazioni, ripensamenti, interruzioni e slanci euforici, ma che non teme oscurità e fallimenti. Questo testo espone precisamente questo processo: è questo processo, una «pulsione ostinata che preme / da spaccatura in sorpresa / da rima in cesura e crisi / a scandire lacerti sconnessi, / riprendersi in pezzi». Il linguaggio della poesia, a differenza di quello compatto e cogente della filosofia, è questo ritmo, questa «tensione infranta in minuscolo e frantumi / in disegno balbuziente che ricama / stende il largo / e tende lo spazio / lancia tratti / s’infrangono / e lancia / e». Il testo termina (o, piuttosto, s’interrompe) in questa aposiopesi, aperta sull’infinito del mondo che si dischiude in scrittura, e che sorge insieme, e grazie, alla scrittura stessa nel suo farsi faticoso e inebriante. Tale è l’essenza della poesia quale Loreau la concepisce, «una poesia in cui il linguaggio dicendo ciò che si produce si produca esso stesso come ciò che vi si produce […] una poesia in cui il linguaggio sia omogeneo a ciò che si rivela», come scriverà in un testo in prosa che Loreau medesimo definisce «capitale», e che molto pertinentemente è stato posto dal curatore a introduzione della raccolta.

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