Bibliomanie

Quattro poeti dell’Arcadia luso-brasiliana
di , numero 29, aprile/giugno 2012, Traduzioni, inediti e rari,

Come citare questo articolo:
Matteo Veronesi, Quattro poeti dell’Arcadia luso-brasiliana, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 17, aprile/giugno 2012

In genere l’Accademia dell’Arcadia viene presentata e studiata come movimento tipicamente, anzi esclusivamente, italiano. In realtà, essa costituì, dopo il petrarchismo (che ebbe nel Camoens lirico un esponente di valore assoluto, di un’essenzialità lirica e concettuale adamantina, forse accostabile, sul piano europeo, solo allo Shakespeare dei sonetti o a Maurice Scève) e sulle orme di esso, e prima del simbolismo e del modernismo, una sorta di grande codice, di comune esperanto, di ponte ideale, transoceanico, fra il mondo culturale italiano e quello lusofono, tanto portoghese, quanto brasiliano (la reale esistenza di un’Arcadia brasiliana, in passato messa in dubbio, è ormai certa; anche se il paesaggio stilizzato e idealizzato del petrarchismo arcadico, se era lontano dalla realtà storica dell’Europa settecentesca, e così pure della stessa Grecia antica, ancor più remoto e straniato appariva rispetto a quello, ancor più impervio, delle Minas Gerais, dove, come affermava il caposcuola dell’Arcadia brasiliana Cláudio Manoel da Costa, il cimento del poeta diveniva simile all’«ambiziosa fatica di cavar minerale dalla terra che ne ha snaturato i colori»).
Si potrebbe ipotizzare, anzi, che l’Arcadismo costituisse il primo, se non l’unico, legame diretto fra un movimento culturale prettamente italiano e uno brasiliano, dato che romanticismo, simbolismo, modernismo, avanguardia, postmoderno sono movimenti globali accomunati da antecedenti comuni, specie inglesi e francesi, e spesso non precisamente definibili.
Pur se all’interno di un sistema di costanti, di motivi ricorrenti, di topoi, di loci communes, che costituiscono i fondamenti e le coordinate e le linee di forza di quel vero e proprio sistema letterario che fu l’Arcadia, ciascuno degli autori qui presentati (esiguo specimen di un movimento ben più vasto) presenta caratteristiche sue proprie, e non prive, perlomeno, di una sorta di originalità mediata e riflessa, che affiora dall’attraversamento del modello.
Secondo una sensibilità già quasi preromantica, pur se all’interno di una visione tipicamente classicistica, il paesaggio diviene stato d’animo, risonanza visiva ed acustica (nella forma oscillante del riverbero, dell’onda ripercossa) della vibrazione e della frequenza interiori: così i monti fanno eco (come in Petrarca, come in Leopardi) ai lamenti del poeta, la lontananza stessa ha una sua voce infame e crudele, voce (l’eco è imago vocis) che si popola di immagini, simulacri, fantasmi, desideri, rimpianti; gli alberi sono incarnazioni di antiche anime dolenti (con un possibile influsso, nella rivisitazione del mito classico, di un originario animismo, proprio dello spirito amerindio come di tutte le culture primordiali).
Leggendo, poi, Barbosa du Bocage, ci si trova di fronte ad un misconosciuto, o poco noto, genio visionario, una sorta di Poe o di Hoffmann avant la lettre, se proprio non si vuole fare il nome di Baudelaire. Una mente che vuole “saziarsi di orrori”, salvarsi dall’orrore e dall’angoscia proprio conducendoli fino a quel limite estremo oltre il quale essi si dissolvono, non potendo più reggere la propria stessa torturante intensità, e si sciolgono e acquietano in una notturna pace.
Il sonetto Ó retrato da morte! Ó Noite amiga, se da un lato rinvia inequivocabilmente al celebre sonetto del Della Casa O sonno, o della queta humida ombrosa, dall’altro sembra far presagire Foscolo. E ancora a Foscolo, oltre che al Leopardi di Ad Angelo Mai, con il potente e ferale «clangor de’ sepolti», fa pensare il sonetto Lusos heróis, cadáveres cediços, sinistro e scolpito, che rivisita motivi barocchi e sepolcrali (di “Barocco in Arcadia” parlava, con apparente ossimoro, Carlo Calcaterra in un saggio importante), infondendovi un sentito, monumentale sdegno patriottico.
Infine, il Caramurù di José de Santa Rita Durão costituisce un singolare esempio di poema, per così dire, epico-arcadico. Il poema non era, perlopiù, un genere praticato dagli Arcadi, che privilegiavano, sul modello del Petrarca volgare, la poesia lirica; ma un analogo esempio di poema riconducibile al classicismo settecentesco può essere offerto dalla Henriade di Voltaire. Al pari di quest’ultimo, e di Tasso prima di lui, il poeta del Caramurù guarda, com’è lecito attendersi, e come affiora fin dal proemio, al modello virgiliano; ma tassiana, e dantesca, è l’idea di una Musa celeste, cristiana e non pagana, o forse, in senso più alto e più profondo, mistico-metafisica, al di là di paganesimo e cristianesimo, ma con, in sé, qualcosa dell’uno e dell’altro, nella comune ansia spirituale.
Ad ogni modo, il Caramurù (che Eugène Garay de Monglave, nella sua edizione francese, in tre tomi, del 1829, volle trasmutare, e snaturare, in un romanzo in prosa, secondo lo spirito del primitivismo romantico) celebra, al di là delle sue molte pesantezze narrative e gonfiezze retoriche, la sintesi fra lo spirito portoghese e quello brasiliano, l’interna armonia, al di là della politica coloniale (ma certo in un’ottica ad essa favorevole), fra la madrepatria e quella sorta di sua estensione, di sua proiezione arcaica, preculturale, metastorica, che il Brasile sembrava rappresentare.
Le ottave in cui la principessa amerindia, andata in sposa al conquistatore, trova, in estasi mistica, una rispondenza fra la sua innata, primordiale, archetipica spiritualità, e le verità della religione rivelata, offrono la più piena rappresentazione di questa superiore armonia. La poesia ritrova, pur nel razionalismo e nella precettistica del classicismo, la sua forza primordiale e ontologica. Il colto si fonde con l’originario, il il mito del buon selvaggio con le sottigliezze teologiche risolte, dantescamente, in sfolgorio d’immagini.
Infine Tomás António Gonzaga è importante, per il lettore italiano, soprattutto perché il suo testo forse più celebre fu tradotto da Ungaretti, ne Il deserto e dopo, con stilemi suoi tipici, con unità metriche scolpite e sonanti, scomposte e ricomposte, ed essenze lessicali assolute, sempre ai limiti dell’aulicismo e del latinismo (“da cinte zone di copiosi fiumi”; “suscitare / brillanti grani d’oro”), in accordo con la sua poetica più matura.
Ma era, forse, anche una profonda e segreta comunanza e prossimità di significati e di radici ad avvicinare i due poeti; che guardavano entrambi, infine, ad un Petrarca mediato dal tardo Cinquecento e dal Seicento, filtrato e anche deformato dai contorcimenti, e dalle prismatiche scomposizioni, del manierismo e del concettismo. Attraverso il Tasso, dice Ungaretti introducendo il Gonzaga, “l’Arcadia ereditò anche la pazzia”. Nei suoi versi “irrompe, dalla finestra che come un prezioso specchio veneziano è sfarzosamente stretta in un’impazzita cornice rococò, restando remotissima, la visione d’una natura selvaggia”.
A questa “follia”, o meglio a questa ingegnosa e capziosa bizzarria da barocchetto e da rococò contribuiva anche il persistere, in pieno settecento (come risulta evidente dal sonetto É gentil, é prendada a minha Altéia), di una logica aristotelico-scolastica, fondata sulle antitesi, le dissociazioni logiche, le combinazioni sillogistiche, perlopiù scorciate in entimema, secondo uno stile di pensiero che si ravvisa, a tratti, in Góngora come nei metafisici inglesi, e che al mondo luso-brasiliano arrivava forse attraverso la mediazione della Scuola di Coimbra.
“E in breve al fondo del vostro silenzio / Si fermeranno, Cose consumate: / Emblemi eterni, nomi, / Evocazioni pure”, aveva scritto Ungaretti in Memoria di Ofelia d’Alba; e ancora, più da vicino, proprio negli anni brasiliani, in Tu ti spezzasti: “E la recline, che s’apriva all’unico / Raccogliersi dell’ombra nella valle, / Araucaria, anelando ingigantita, / Volta nell’ardua selce d’erme fibre..”: anche là, oggetti ed esperienze e percezioni trasmutati in simulacri verbali, inganni, vivificanti illusioni postmortali (“Imortal sobre o céu reinando mora”); com’è forse proprio ed essenziale, fra natura e cultura, primitività e sofisma, di ogni poesia.

Cláudio Manoel da Costa

Para cantar de amor tenros cuidados,
Tomo entre vós, ó montes, o instrumento;
Ouvi pois o meu fúnebre lamento;
Se é, que de compaixão sois animados:

Já vós vistes, que aos ecos magoados
Do trácio Orfeu parava o mesmo vento;
Da lira de Anfião ao doce acento
Se viram os rochedos abalados.

Bem sei, que de outros gênios o Destino,
Para cingir de Apolo a verde rama,
Lhes influiu na lira estro divino:

O canto, pois, que a minha voz derrama,
Porque ao menos o entoa um peregrino,
Se faz digno entre vós também de fama.

Per cantare soavi amorosi pensieri
prendo fra voi, o monti, lo strumento;
potete udire il mio funebre lamento
se mai vi animi la compassione;

già voi vedeste che ai feriti echi
del tracio Orfeo anche il vento ammutoliva;
della lira di Anfione al dolce tono
scosse si rivolgevano le rocce.
Io so bene che d’altri ingegni il Fato
per cingere d’Apollo il verde lauro
estro divino nella lira infuse:

il canto, poiché deborda la mia voce,
perché almeno lo intoni un pellegrino,
anche si fa tra voi degno di fama.

*****

Sou pastor; não te nego; os meus montados
São esses, que aí vês; vivo contente
Ao trazer entre a relva florescente
A doce companhia dos meus gados;

Ali me ouvem os troncos namorados,
Em que se transformou a antiga gente;
Qualquer deles o seu estrago sente;
Como eu sinto também os meus cuidados.

Vós, ó troncos, (lhes digo) que algum dia
Firmes vos contemplastes, e seguros
Nos braços de uma bela companhia;

Consolai-vos comigo, ó troncos duros;
Que eu alegre algum tempo assim me via;
E hoje os tratos de Amor choro perjuros.

Sono pastore; non lo nego; le mie cavalcature
sono quelle che vedi; vivo lieto
di condurre per il fiorente prato
la dolce compagnia delle mie mandrie;

lì mi ascoltano i tronchi innamorati
in cui si trasmutò l’antica gente;
ciascun d’essi patisce la sua doglia
così come io ascolto i miei pensieri.

Voi, o tronchi, dico, che un un tempo
saldi vi contemplaste, e sicuri
fra le braccia della creatura amata;

con me, duri tronchi, consolatevi;
che lieto un tempo anch’io sì mi vedevo;
e ora piango d’Amor gli strali infìdi.

*****

Este é o rio, a montanha é esta,
Estes os troncos, estes os rochedos;
São estes inda os mesmos arvoredos;
Esta é a mesma rústica floresta.

Tudo cheio de horror se manifesta,
Rio, montanha, troncos, e penedos;
Que de amor nos suavíssimos enredos
Foi cena alegre, e urna é já funesta.

Oh quão lembrado estou de haver subido
Aquele monte, e as vezes, que baixando
Deixei do pranto o vale umedecido!

Tudo me está a memória retratando;
Que da mesma saudade o infame ruído
Vem as mortas espécies despertando.

È questo il rivo, la montagna è questa,
e questi i tronchi, e son queste le rocce;
e sono questi gli stessi albereti,
questa è la stessa selvatica foresta.

Tutto colmo d’orrore si palesa,
rivo, montagna, tronchi, e macigni;
che dei nostri amorosi dolci intrighi
fu lieta scena, ed ora è tetra urna.

Quante volte ricordo ch’io ascesi
quel monte, e le volte che, scendendo,
lasciai la valle umida di pianto!

Tutto mi ridipinge la memoria;
che della stessa distanza il suono infame
vien le defunte parvenze ridestando.

Manuel Maria Barbosa du Bocage

Lusos heróis, cadáveres cediços,
Erguei-vos dentre o pó, sombras honradas,
Surgi, vinde exercer as mãos mirradas
Nestes vis, nestes cães, nestes mestiços.

Vinde salvar destes pardais castiços
As searas de arroz, por vós ganhadas;
Mas ah! Poupai-lhe as filhas delicadas,
Que Elas culpa não têm, têm mil feitiços.

De pavor ante vós no chão se deite
Tanto fusco rajá, tanto nababo,
E as vossas ordens, trémulo, respeite.

Vão para as várzeas, leve-os o Diabo;
Andem como os avós, sem mais enfeite
Que o langotim, diámetro do rabo.

O Lusi eroi, cadaveri vetusti,
dalla polvere alzatevi, ombre esimie, sorgete,
saggiate le vostre mani imbalsamate
su questi vili, cani, mezzosangue.

Venite a salvare da questi nobili rapaci
le ricche messi da voi conquistate;
ma preservatele per le tenere figlie
che non han colpa, ma mille dannazioni.

Per la paura davanti a voi s’inchinarono
torvi re, sultani cupi
e vi ubbidirono, rispettosi e tremuli.

Inutili anche ai campi, se li porti via il Diavolo;
andiamo come gli avi, senza più altro ornamento
che una ruvida pelle intorno ai fianchi.

***********

Ó retrato da morte! Ó Noite amiga,
Por cuja escuridão suspiro há tanto!
Calada testemunha de meu pranto,
De meus desgostos secretária antiga!

Pois manda Amor que a ti somente os diga
Dá-lhes pio agasalho no teu manto;
Ouve-os, como costumas, ouve, enquanto
Dorme a cruel que a delirar me obriga.

E vós, ó cortesãos da escuridade,
Fantasmas vagos, mochos piadores,
Inimigos, como eu, da claridade!

Em bandos acudi aos meus clamores;
Quero a vossa medonha sociedade,
Quero fartar meu coração de horrores.

O simulacro della morte, o Notte amica,
per il cui buio tanto si sospira!
Testimone silente del mio pianto,
dei miei dolori segretaria antica!

Poiché comanda Amore che solo a te li affidi,
da’ loro tenero asilo nel tuo manto;
Ascoltali, come suoli, ascolta, mentre
Dorme quella crudele che mi rubò la mente.

E voi, cortigiani delle tenebre,
fantasmi vaghi, striduli rapaci,
Voi come me nemici della luce!

A stormi accudite i miei lamenti;
chiedo alla vostra sinistra compagnia
di saziare il mio cuore di terrori.

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Meu ser evaporei na lida insana
Do tropel de paixões, que me arrastava;
Ah!, cego eu cria, ah!, mísero eu sonhava
Em mim quase imortal a essência humana.

De que inúmeros sóis a mente ufana
Existência falaz me não doirava!
Mas eis sucumbe a Natureza escrava
Ao mal que a vida em sua origem dana.

Prazeres, sócios meus e meus tiranos!
Esta alma, que sedenta em si não coube,
No abismo vos sumiu dos desenganos.

Deus, ó Deus!… Quando a morte à luz me roube,
Ganhe um momento o que perderam anos.
Saiba morrer o que viver não soube.

Evaporò il mio essere nell’insano travaglio
del calpestio incalzante di passioni;
ahimè, cieco e misero sognavo
quasi immortale in me l’essenza umana.

Di quanti innumeri soli la mente abbacinata
non m’indorava la fallace esistenza!
Ma ecco soccombe la Natura schiava
al male che condanna la vita fin dal grembo.

Piaceri, compagni miei, e miei tiranni!
Quest’anima, che da se stessa uscì, bramosa,
Nell’abisso vi gettò dei disinganni.

Dio, o Dio… Quando la morte mi rubi la luce,
abbia un istante colui che anni persero.
Sappia morire, chi non seppe vivere.

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José de Santa Rita Durão

Da Caramurù, canto I, 1- 4

De um varão em mil casos agitados,
Que as praias discorrendo do ocidente
Descobriu recôncavo afamado
Da capital brasílica potente;
Do filho do trovão denominado,
Que o peito domar soube à fera gente,
O valor cantarei na adversa sorte,
Pois só conheço herói quem nela é forte.

Santo Esplendor, que do Grão Padre manas
Ao seio intacto de uma Virgem bela,
Se da enchente de luzes soberanas
Tudo dispensas pela Mãe donzela
Rompendo as sombras de ilusões humanas,
Tudo do grão caso a pura luz revela;
Faze que em ti comece e em ti conclua
Esta grande obra, que por fim foi tua.

E vós, príncipe excelso, do céu dado
Para base imortal do luso trono;
Vós, que do áureo Brasil no principado
Da real sucessão sois alto abono:
Enquanto o império tendes descansado
Sobre o seio da paz com doce sono,
Não queirais designar-vos no meu metro
De pôr os olhos e admiti-lo ao cetro.

Di un eroe in mille casi tempestosi
che alle plaghe viaggiando d’Occidente
scoprì la baia celebrata
della potente capitale brasiliana;
di colui che di figlio del tuono ebbe il nome,
che una gente selvaggia osò domare,
canterò il valore nell’avversa fortuna,
poiché soltanto è eroe chi in essa è forte.

Santo Splendore, che dal Gran Padre emani
nel Grembo intatto di Vergine bella,
se da fiumana di sovrane luci
tutto dispensi per la Madre pura,
spezzando le ombre delle illusioni umane,
tutto del grande evento rivela, in piena luce:
fa’ che abbia inizio in te e in te finisca
questa grande opera, che fu tua infine.

E voi, principe eccelso, dal ciel dato
eterno fondamento al Luso trono;
voi che dell’aureo Brasile nel principato
siete della successione il dono eccelso:
mentre serbate l’impero acquietato
con dolce suono, nel grembo della pace,
vogliate degnarvi nel mio verso
di porre gli occhi, e ammetterlo allo scettro.

Da Caramurù, canto VII, 14-16, 21-22.

Brilha no aspecto um ar do afeto interno;
Mas, em funda abstração com doce calma,
Bem se lhe vê pelo semblante externo
Que ocupa em grande objeto a feliz alma.
Vê-se nela arraiar do lume eterno,
Que no céu goza quem já logra a palma,
Admirável vislumbre, que suspende
E infunde um pio afeto em quem o atende.

Assim por longas horas abstraída
Deixava o caro esposo na ansiedade,
Se era sono, em que estava suspendida,
Se era efeito da cruel enfermidade;
Ora suspeita que perigue a vida,
Ora na celestial tranqüilidade,
Crê que do claro empíreo habitadora
Imortal sobre o céu reinando mora.

Até que, a si tornada docemente,
Corre a turba coa vista em grato giro;
E, como quem esta aura ingrata sente,
Rompe os longos silêncios dum suspiro.
« Oh! doce (disse), oh! pátria permanentel
Que escuro ar parece que respiro!
Feliz quem contemplando o céu formoso,
Vive no seio do celeste esposo!»

Splende nel volto l’orma dell’interno affetto;
ma, in profondo meditare, con soave calma,
ben si lascia vedere dall’aspetto
quale sublime oggetto la felice anima invada.
Si vede in lei raggiare, dell’eterno lume,
che gode in cielo chi già vinse la palma,
mirabile barlume, che estasia
ed infonde in chi tocca un pio sentire.

Così, per lunghe ore rapita,
lasciava il caro sposo nell’angoscia,
se fosse sonno, ciò in cui stava sospesa,
o effetto di crudele malattia;
ora sospetta che sia a rischio la vita,
ora nella celestiale quiete
crede che, del chiaro empireo abitatrice,
Muoia immortale, regnando sopra il cielo.

Fino a che, in sé tornata dolcemente,
corre la turba con lo sguardo, in grato giro;
e come chi quest’aria ingrata senta,
rompe il lungo tacer con un sospiro.
“Oh dolce, disse, o perpetua patria!
Che oscura aria par quella che respiro!
Felice chi, contemplando la celestiale meraviglia
vive nel seno del celeste sposo!

(…)

“Vi, nao sei se era impulso imaginário,
Um globo de diamante claro e imenso
E nos seus fundos figurar-se vário
Um país opulento, rico e extenso;
E, aplicando o cuidado necessário,
Em nada do meu próprio o diferenço:
Era o áureo Brasil tão vasto e fundo,
Que parecia no diamante um mundo.

Fixo os olhos atenta no estupendo
Milagroso espetáculo que via
E em três léguas de boca vi correndo
Por doze de diâmetro a Bahia.
Seis rios pelo golfo discorrendo,
Engenhos, povoações que descobria,
Eram como ornamentos da cidade,
De que se ergue no plano a majestade.”

“Vidi – né so se fosse immaginario effluvio –
un globo di diamante chiaro e immenso,
e nei suoi fondi figurarsi vario
un paese ricchissimo ed enorme;
e, concentrando su di esso il pensiero,
in nulla dal mio stesso lo distinguo:
era l’aureo Brasile, così profondo e vasto,
simile a un mondo scolpito nel diamante.

Fisso lo sguardo, intento, nello splendido
miracoloso spettacolo che ai miei occhi appariva,
e in ampia entrata, in vasta insenatura
vidi d’intorno volgersi Bahia.
Sei rivi, fluenti per il golfo,
nature, popolazioni che scoprivo,
erano come della città ornamenti
di cui regna la maestà, sulla pianura”.

Tomás António Gonzaga

É gentil, é prendada a minha Altéia;
As graças, a modéstia de seu rosto
Inspiram no meu peito maior gosto
Que ver o próprio trigo quando ondeia.

Mas, vendo o lindo gesto de Dircéia
A nova sujeição me vejo exposto;
Ah! que é mais engraçado, mais composto
Que a pura esfera, de mil astros cheia!

Prender as duas com grilhões estritos
É uma ação, ó deuses, inconstante,
Indigna de sinceros, nobres peitos.

Cupido, se tens dó de um triste amante,
Ou forma de Lorino dois sujeitos,
Ou forma desses dois um só semblante.
È gentile e preziosa, la mia Altea;
le grazie, la modestia del suo volto
ispirano al mio cuore più piacere
che vedere il mio grano quando ondeggia.

Ma contemplando di Dirce il soave portamento,
a nuova tirannia mi vedo esposto;
Ah, quant è più aggraziato, più armonioso
della pura sfera, di mille astri profluvie!

Prenderle entrambe con serrati lacci
è un’azione, o dei, incostante,
indegna di cuori nobili e sinceri.

Cupìdo, se hai pietà di un triste amante,
o forma di Lorino due soggetti,
o forma di loro due un solo aspetto.

***

Ainda que de Laura esteja ausente,
Há de a chama durar no peito amante;
Que existe retratado o seu semblante,
Se não nos olhos meus, na minha mente.

Mil vezes finjo vê-la, e eternamente
Abraço a sombra vã; só neste instante
Conheço que ela está de mim distante,
Que tudo é ilusão que esta alma sente.

Talvez que ao bem de a ver amor resista;
Porque minha paixão, que aos céus é grata
Por inocente assim melhor persista;

Pois quando só na idéia ma retrata,
Debuxa os dotes com que prende a vista,
Esconde as obras com que ofende, ingrata.

Sebbene da Laura sia lontano,
dura la fiamma nel cuore innamorato;
poiché il suo sembiante è figurato,
se non negli occhi miei, nella mia mente.

Mille volte m’illudo di vederla, e eternamente
abbraccio l’ombra vuota; in quel momento soltanto
conosco ch’ella è da me distante
e che è solo illusione ciò che l’anima sente.

Forse al ben di vederla amor s’oppone;
sì che la mia passione, grata ai cieli,
resti così migliore, perché pura;

ché quando solo nel mio pensiero figurata
abbozza i pregi con cui rapisce la vista,
cela le opere con cui ingrata offende.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2012 Matteo Veronesi