Per Fosca. Verso una fenomenologia del romanzo breve
Sarah Tardino, Davide Monda, Per Fosca. Verso una fenomenologia del romanzo breve, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 4, luglio 2018/giugno 2019
Il velo, il viso e gli strani capelli,
i capelli d’abisso e di fuliggine
negri cotanto da parer cerulei!
Il velo, il viso e gli strani capelli…
(Giovanni Camerana)
Fosca di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869) rappresenta con ogni probabilità, nel vario ed eterogeneo panorama della Scapigliatura di un’Italia ancora da farsi, un romanzo d’importanza tutt’altro che secondaria: se, da una parte, appare accogliere parecchi motivi dominanti in questo movimento culturale affatto sui generis, dall’altra si rivela – a ben vedere – tendenzialmente sovversivo persino nell’anarchico “canone” scapigliato, nonché proiettato, talvolta quasi visionariamente, verso tematiche, fermenti e temperie assai posteriori.
Uscito a puntate sulla rivista “Il pungolo”, apparve postumo, in volume, nel 1869: Tarchetti morì giovanissimo poco prima di completare il penultimo capitolo, tempestivamente redatto dal fraterno amico Salvatore Farina (1846-1918), che peraltro dall’autore – pure secondo la miglior filologia d’oggi – ne aveva ascoltato meticolosamente l’illustrazione degli elementi essenziali.
La vicenda – non banale né prevedibile, almeno in quel fragilissimo, caotico secondo Ottocento – è narrata in prima persona, avvalendosi dell’espediente manzoniano (ma non certo caro, si sa, soltanto al buon “Don Lisander”!) del ritrovamento di un manoscritto.
Come che sia, Giorgio – ufficiale dell’esercito e protagonista della diegesi forse solo all’apparenza – è diviso fra due donne: Clara, sposata e madre, una donna dolce, sana, bella, solare, nonché liberalmente salutare per il protagonista, che si trova in congedo per malattia, e Fosca che – nomen omen – è al contrario brutta, malata ma… fatale! Ci ritorneremo, beninteso.
Fosca, in primis, è la cugina del colonnello della guarnigione. Triste destino il suo: abbandonata dal marito, che si è rivelato un laido cacciatore di dote e che ha, di conseguenza, dilapidato non senza vergogna le sostanze della donna e della famiglia di lei, consunta dall’epilessia e provata dalla perdita del bimbo che doveva essere il frutto dell’amore coniugale, si rivelerà, a poco a poco, quasi la “vittima sacrificale” di una sorte inesplicabilmente avversa. Per di più, la donna ancor giovane è orfana: i genitori sono morti piegati (e piagati) dalle disgrazie della figlia, e il cugino, che si sente colpevole della sua condizione – in effetti, è stato proprio lui a presentare alla sventurata il marito scialacquatore e debosciato – l’ha presa con sé, evidentemente, per un malcelato senso di colpa.
In casa del colonnello, Fosca vive pressoché reclusa e inaccessibile, e tuttavia emana già in absentia un fascino sinistro sul protagonista che desidera vederla; quando finalmente la conosce, ecco come ella appare ai suoi occhi irrequieti e incuriositi:
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
L’inaudita bruttezza di Fosca, suo connotato fondamentale, è talmente straordinaria da rientrare nel novero dei fenomeni ineffabili: invero, essa è indicibile proprio come la più grande bellezza! Giova forse rammentare, fra il resto, che, salvo rare eccezioni, i capelli e gli occhi neri sono, nella letteratura romantica e lato sensu decadente, attributo imprescindibile della “donna fatale”. Ma la bruttezza disarmante di Fosca si concentra nel volto magnetico, e non discende dalla deformità dei tratti, bensì dall’effetto spietato che su questi ha avuto la malattia.
La difformità di Fosca è certo morbosa, sennonché i modi e i sentimenti della donna risultano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi, così alti e distinti da richiamare ancora la grazia e la flessuosità, da sembrare una disposizione naturale dell’animo più che un artificio dell’educazione. D’altronde, già nella sua prima, sconcertante apparizione, Fosca si presenta comunque una figura distinta ed elegante, elegante tout court: di là dai canoni di qualsivoglia bellezza, ella è, in una parola, una donna di ottimo gusto, provvista – rarissima avis – di un fascino tanto inedito quanto inquietante e irresistibile, almeno per Giorgio.
Il personaggio di Clara, al contrario, viene tratteggiato con toni delicati, morbidi e idilliaci. Evocati nella memoria del narratore come ricordi en plein air, gli incontri fra gli amanti si svolgono sempre all’aperto, nel fresco rigoglio della natura: il loro stesso rifugio è un luogo incantato e permeato di luce. Clara è “robusta” (ossia, diremmo oggi, sana e forte), al contrario di Fosca, che è scheletrica, è teneramente materna: non per caso Giorgio la paragona all’immagine della madre da giovane, e se la rappresenta in sogno con l’abito grigio della madre.
Ancora, la sua apparizione è, nella struttura del romanzo, un cammeo dai toni premanzoniani, ove spiccano coloriture linguistiche elette, sempre tenui e, talora, delicatissime, tanto da creare un contrasto stridente con la forza ombrosa e, perlomeno ictu oculi, respingente di Fosca.
Come quella di un ragno al centro della propria tela, la presenza di Fosca è sempre “chiusa”: basti por mente al chiuso della sua stanza di donna malata, al chiuso della carrozza donde osserva il mondo, tenendo in ostaggio il “suo” uomo nel piacere della tortura; ed è chiusa, infine, nell’inconscio del romanzo.
In estrema sintesi, se Clara è la rappresentazione oggettiva della pulsione edipica del protagonista, Fosca è invece l’esplorazione della sua pulsione di morte. E il desiderio di morte è tanto irresistibile da coinvolgere Giorgio in una relazione in cui gli elementi patologici costituiscono il motore del pathos, cioè in cui il pathos naturale e istintuale, che governa la relazione con Clara, viene fuorviato sino a diventare un giogo e ad essere, infine, dissezionato alla luce della ratio scientifica; questo procedimento sperimentale, al quale il protagonista non intende affatto sottrarsi, porterà i due protagonisti effettivi del racconto ad essere comunque uniti:
Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere più felice di lei. Perché nessun’altra avrebbe potuto amare più intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né sì assoluto, né sì profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negato la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella.
Oltre che la dualità estrinseca fra Clara e Fosca, dualità che riguarda la percezione intellettuale di Giorgio, c’è in Fosca una dualità intrinseca fra la bruttezza e l’intensità sentimentale, che investe, invece, la percezione emotiva del protagonista: Fosca è sterile ma istruita, affine all’uomo e, più che tutto, squisitamente sensibile. Il contrasto fra la donna sterile ma amata, capace di una complicità sororale, e la donna feconda ma non amata è antico come pochi: già lo si ritrova, a ben vedere, nelle fondative dicotomie veterotestamentarie fra Sarah e Agar, Rachele e Lia; qui è onnipresente una frattura tra bellezza e salubrità, fra amore (inteso come desiderio) e necessità di egoistica sopravvivenza genetica.
Nel mondo arcaico, la perseveranza di un amore profondo e assoluto – speculare dell’amor Dei – viene premiata con un reinserimento miracoloso nel ciclo naturale della procreazione. Nel mondo moderno – ma già in una certa Stimmung propria del mondo medievale – la frattura resta incurabile e, dunque, irreversibile: in verità, nel Medioevo esso rappresenta la porta d’accesso a un sovrasensibile teologicamente orchestrato e, dal Romanticismo in poi, ai dedali di un’interiorità psicologicamente scandagliata.
E la Scapigliatura, ancora estranea storicamente all’ingresso della psicanalisi nell’indagine del fatto letterario, assume come metro il gusto del fantastico, dell’orrido e del mostruoso, tipico delle letterature centro e nord europee: Fosca è un’originale dark lady, una femme fatale, una donna vampiro (donde viene, come si sa, il sostantivo vamp, che circola da oltre un secolo dal Canada al Giappone).
La donna vampiro riesce, attraverso la sua malattia, a risucchiare nel piacere del famelico e perverso possesso amoroso il cuore del protagonista fino a contagiarlo del proprio male.
Ma l’idea del dispotico possesso amoroso non certo è un’invenzione dei romantici: si tratta, in realtà, di un topos ben consolidato (almeno) sin dall’Antico Testamento e dai poemi omerici. Nell’immensa, ricchissima letteratura medievale d’Occidente e d’Oriente, poi, s’incontra spesse volte – anzi quasi ossessivamente – l’immagine del cuore dell’amato strappato, incendiato e divorato: anche solo quest’ultimo spargimento di sangue lungo ben oltre un millennio sembra dimostrare che il sinolo amore e morte – con il suo sparagmos emblematicamente cristiano – è fondativo nelle letterature occidentali.
In un saggio del 1892, dunque di circa vent’anni successivo al romanzo di Tarchetti, Augusto Cesari parla in questi termini della morte nella Vita Nuova di Dante:
Poi che Beatrice apparve la seconda volta a Dante il primo dì del maggio 1283 “vestita di colore bianchissimo”, e poi che per la sua “ineffabile cortesia” lo salutò “molto virtuosamente”, tanto che parve al giovane poeta “vedere tutti li termini della beatitudine”; come inebriato dal dolcissimo saluto, si partì egli l’Allighieri dalle genti e si ridusse “al solingo luogo d’una sua camera” a pensare di quella cortesissima. E pensando di lei ebbe una prima e angosciosa visione, che fermò nel primo sonetto della Vita Nuova, il quale ha forse, più che alcun’altra rima dantesca, del trovadorico e occitanico:
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le bracci’avea
madonna, involta ’n un drappo dormendo;
poi la svegliava, d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo
Qui nel sonetto che dové essere scritto subito dopo la visione, Dante vede Amore gire soltanto, non dice e non sa dove; ma nella narrazione in prosa scritta più tardi aggiunge: “e con essa mi parea che si ne gisse verso il cielo”; e in vero solo dopo la morte di Beatrice, doveva essere “manifestissimo anche a li più semplici il verace giudicio”, ciò è che nell’atto d’amore significava che Beatrice era per disparire troppo presto dalla veduta degli uomini, e per essere assunta “nel reame ove gli angeli hanno pace”. Così dunque con una visione di morte prossima comincia la Vita Nuova e l’amore e la poesia di Dante1.
I temi che il critico sottolinea nel testo dantesco e che ora interessano sono: l’origine trobadorica, in Dante, del tema dell’amore e della morte, quindi l’essere iscritto in un circuito letterario continentale, e la visione/premonizione di morte, che è incipit della poesia e dell’autobiografia di Dante.
Il dato biografico è intimamente legato a quello letterario. I termini d’ineffabilità, cortesia, inebriamento, già perfettamente codificati in ambiti romanzi, precipitano quasi simultaneamente in angoscia: l’angoscia è visionaria ed è la visione di un’andata senza ritorno: il fatto che alla fine lei muoia in Dante è l’elemento che garantisce la salvezza del protagonista/scrittore.
Non a torto gran parte della critica più accreditata attribuisce al romanzo di Tarchetti temi e modi che saranno sviluppati, nel ventennio successivo alla stesura del suo romanzo, dal “Decadentismo”.
L’idea che la Scapigliatura arrivi a sviluppare in extremis quei temi romantici di rivolta borghese che non avevano contagiato, di fatto, gli intellettuali italiani coinvolti nei valori cardinali del Risorgimento è tuttora condivisibile, ma non definisce appieno l’incapacità degli intellettuali italiani di studiare, comprendere e vivere davvero l’immensa ondata romantica europea che, ormai da anni, aveva travolto l’Occidente, dagli Stati Uniti a Mosca e oltre. A questo proposito, conviene meditare talune riflessioni di Tessari:
la contraddizione tra il mito politico dell’unità risorgimentale e la realtà dell’Italia “risorta” si allarga progressivamente, e questa frattura mette a nudo un diffuso stato di crisi, sociale e culturale. Il contadino del Meridione, che aveva creduto di lottare per la sua emancipazione dalla miseria e dalla servitù del latifondo, rivolge le armi contro i nuovi padroni piemontesi. L’intellettuale del Nord, che aveva creduto nel trionfo di tutti gli ideali romantici, si rifugia nella disperazione e tenta la strada d’una rivolta ideologica contro il predominio dei “banchieri” e dei “droghieri”2.
Ma, accanto a questo dato sociale, incontrovertibile, ce n’è uno eminentemente letterario: la difficoltà di una letteratura – di una grande letteratura, va da sé – di allontanarsi dai suoi canoni consolidati.
Elio Gioanola parla, a proposito della prosa tarchettiana, di un ritorno al “clima stilistico dell’Ortis”:
li scapigliati fanno avanguardia con un linguaggio addirittura premanzoniano e il loro pathos, inadattabile ai modi del realismo e al gran lombardo, ha bisogno dei soccorsi della prosa lirica leopardiana o foscoliana; leggere le pagine di un Tarchetti fa l’effetto di essere tornati, con colorature e intemperanze più vistose, al clima stilistico dell’Ortis3.
Ma, più che ad un modello foscoliano (già all’epoca, a onor del vero, un po’ appassito), la vicenda somato-psichica di Fosca, ossia di una vita “tutta e assolutamente interiore”, potrebbe compararsi a quella del romanzo progettato e mai scritto da Leopardi, la Storia di un’anima, di cui lascia un articolato, illuminante progetto nello Zibaldone.
Il romanzo imbastito dal grande recanatese, che era perfettamente in grado, fra il resto, di padroneggiare (e finanche trascendere!) la fervida temperie romantica della sua epoca, è la storia del tormento di un’anima, del tormento di un’anima straziata dalle patologie di un corpo, nonché, probabilmente, dalla suggestione infantile e prorompente del mondo esterno e, anzitutto, dal misterioso, infinito divenire della physis; si ponga mente, inoltre, ai profondi, inattingibili rumori della notte che si oppongono a una realtà esistenziale chiusa in una sorta di convalescenza domestica senza fine, o all’osservazione stupefatta degli affreschi sulle pareti della stanza compiuta da un bambino.
Leopardi, ovviamente, non poteva scrivere un testo del genere non solo perché raramente i poeti scrivono (buoni) romanzi, ma perché la sua Weltanschauung e la sua Stimmung prettamente classiche erano lontane mille miglia dal sentire e dal meditare romantici – e post-romantici. Insomma, egli sapeva bene quel che diceva allorquando si definiva un classico, a prescindere dalle necessità politiche risorgimentali presenti nella sua amplissima analisi letteraria e speculativa, nonché da taluni approdi in versi e in prosa pressoché necessari nella “biblioteca mentale” di ogni cittadino europeo degno di questo nome.
Sia come sia, questo approccio comunque classico tipico della letteratura italiana al tema di amore e morte è stato ben descritto dal dantista ottocentesco testé citato:
Dall’Alighieri al Leopardi, la poesia italiana presterebbe forse molta materia a ricercare come il desiderio di morte si esplichi e si trasformi pel variare del sentimento nei tempi; ma io non posso e non voglio estendere il mio studio oltre quel che mi bisogna4.
Dopo una (doverosa) riflessione su alcuni modelli italiani decisivi ben noti anche a Tarchetti, va sottolineato che il suo modello di donna morente rappresenta, senza ombra di dubbio, la complessa, inimitabile rielaborazione di figure, temi e problemi diffusi e difesi dal grande Romanticismo tedesco; altre suggestioni derivano, come da tempo indicato, dal vago piacere per l’orrido, il mostruoso e l’eccessivo evidente in tante pur rispettabili e, talora, celeberrime manifestazioni artistiche (dalla poesia all’architetettura) dello Zeitgeist tardo-ottocentesco. Fosca patisce, inoltre, l’incapacità di trovare un lessico espressionista e si ritrae così, provocatoriamente, in stilemi frusti e fuori moda. E si può persino ipotizzare un inconscio ricorrere a modelli letterari consolidati e difficilmente scalfibili.
Come già detto, per Tachetti la frattura dell’ineffabilità, lo sdoppiamento bene-male è un dato di fatto. Non c’è, in una parola, la donna intera, c’è esclusivamente la dualità netta cara ad Arrigo Boito, uno dei più longevi, attivi e innovativi protagonisti della Scapigliatura:
Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
son un caduto chèrubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l’ale,
verso un lontano ciel.
La donna degli scapigliati è anch’essa, come quella di Dante, chiamata a turbamenti ascensionali, ma le sue polarità sono ambivalenti: essa, come già rammentato, è insieme angelo e demone. Avvinto irreversibilmente dall’amore di Fosca, Giorgio/Igino non potrà non dire:
na cosa sovratutto – e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me – contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole.
Sul modello classico, da cui Tarchetti non si allontana troppo, cala allora la sovrapposizione stilistica romantica, negli esiti di maggiore coloritura psichica del testo; in tale direzione, rimane forse insuperata un’altra conclusione di Gioanola:
Il grande romanticismo tedesco aveva spalancato le porte dell’onirico, del magico, dell’istintuale, mentre il Manzoni, nella sua chiara intelligenza illuministica, latina, cattolica, aveva tradotto in storia, in socialità, in leggibile psicologia le abissali tentazioni trascendenti di quell’idealismo5.
E, in Tarchetti, l’onirico è il solo colore, e il Romanticismo ha per lui un valore esotico, come lo stile trobadorico in Dante.
Dunque Fosca è un romanzo d’impostazione classica contaminato da elementi romantici, che rimangono tuttavia – salvo rare eccezioni – coloritura formale più che sostanza espressiva. La lingua degli scapigliati, pur nei suoi esiti controversi e comunque problematici, tende costantemente a tale modello.
Non per caso questo movimento letterario affatto sui generis – che non sembra possedere, a ogni modo, né la profondità teoretica né la consapevolezza storica ed etico-civile necessarie per diventare una vera e propria corrente autonoma – offrirà i suoi frutti migliori o, per lo meno, più duraturi nei libretti d’opera di Boito; quanto al romanzo di Tarchetti in discorso, avrà, a sua volta, una grande fortuna prevalentemente in àmbito cinematografico.
La debolezza propria della Scapigliatura fa sì che i suoi testi si prestino efficacemente a divenire canovacci di un espressionismo sostenuto da un’altra fonte dinamica: soltanto la musica o le pellicole di qualità sarebbero in grado, in sostanza, di rappresentare adeguatamente quel contrasto che, sulla carta, conserva una veste formale de facto statica e scevra di profondità. Eloquente in tal senso, presumibilmente, è di nuovo un Gioanola ancor giovane:
Infatti il contrasto tra l’ “angelico” e il “demoniaco”, tra sublimazione e cieca obbedienza all’istintualità, che generava nel grande decadentismo europeo gli schemi conoscitivi dell’ambivalenza psichica, per cui bene e male non sono più aspetti contraddittori e reciprocamente superabili, ma termini di una compresenza inestricabile (basti pensare ai grandi personaggi dostoevskiani), è ancora per gli scapigliati una conflittualità etica di stampo tradizionale, per cui la scelta del “male”, con tutto il corredo del “maledettismo” a livello esistenziale e artistico (e il brutto, il deforme, il macabro), è polemica velleitaria opposizione al “bene” rappresentato dai valori borghesi (patria, famiglia, buona condotta, religione ecc.) […] Insomma, il dérèglement scapigliato non diventa via alla conoscenza di feconde alternative psicologiche e spirituali, ma brucia in un rogo di protesta sterile, esemplare ma sterile, portando al massimo ad una esasperazione del pathos fino ai limiti della follia (pensiamo a Tarchetti, soprattutto e, sul piano dell’esistenza, alla “pallida giostra dei poeti suicidi”, consumatisi in un giro brevissimo di anni)6.
L’idea del rogo di sterile protesta, che è poi l’accusa con la quale Carducci demolirà perentoriamente7 il movimento scapigliato, è una delle pulsioni di Fosca – e, beninteso, di Tarchetti.
Fosca, si sa, è consapevole di essere una derelitta destinata alla morte. Come è consapevole della sua bruttezza, dell’inganno che ha tessuto la madre sulle sue fattezza, dicendole da bambina di essere bella, è altrettanto consapevole della tragicità grave e irreversibile del suo stato, nonché dell’esito aspro, crudele, esiziale della sua sventura – d’altro canto, ne è ben consapevole anche Giorgio, il protagonista (apparente).
Eppure la donna si ribella alla sua condizione di sventura, pretendendo quell’amore che la sua storia crudele e la sua malcerta condizione sociale le hanno via via sottratto. Clara, al contrario, si piegherà – prevedibilmente? – alle convenzioni sociali.
Fosca no. Le sue urla, la sua protesta ardente e sterile, la sua estorsione di quell’amore che la vita le ha negato innescherà una serie di eventi funesti, tra i quali la sua stessa morte, ma la renderà degna, nel contempo, di quell’ammirazione – caratteristica, in tutte le tradizioni, dell’autentica “vittima sacrificale” – che condurrà l’onestà schietta del protagonista ad affermare:
Io pensai a Clara, alle menzogne che le avevano guadagnato il mio cuore, all’inganno bassamente concepito e stoltamente svelato… Oh! sì, Fosca soltanto aveva meritato il mio amore, ella sola mi aveva amato, ella che aveva sfidato il ridicolo, il disprezzo, la collera; ella che aveva rinunziato al suo orgoglio di donna, domandando per pietà ciò che le altre dànno per debolezza, per vanità o per vizio.
Ed ecco il capovolgimento finale a costituire, inaspettatamente, un pur languido e doloroso trionfo di Fosca: qui, come in molti classici dell’amore amaro, il trionfo della morte sulla donna amata e dell’amata sulla morte è un altalenante, poetico memento. Clara ha conquistato il cuore dell’uomo mentendo, ingannando e scoprendo con leggerezza la finzione; Fosca, viceversa, diventa paladina dell’infrazione delle regole sociali, affrontando derisione, disprezzo, collera e finanche prescindendo da un virtuoso amor proprio prettamente femminile. Siamo dinanzi, con ogni probabilità, a quell’orgoglio che rappresenta il piedistallo adamantino dal quale la musa a tutto tondo della classicità non scende – né forse è mai scesa.
Ancora, il romanzo di Tarchetti, oltre a preannunciare i temi estetici e simbolici che troveranno realizzazione nel (cosiddetto) Decadentismo, affronta altresì tematiche sociali e politiche prossime al Verismo: tutto ciò si manifesta non certo con l’infaticabile lucidità manzoniana, tanto millimetrica quanto insuperata, mirante al grande affresco storico e al minuzioso ricercare scientifico (giurisprudenza, economia, storiografia e filosofia autenticamente secentesche), bensì con le ponderate miniature del romanzo introspettivo, che risulteranno peraltro inedite e accattivanti per almeno un secolo.
Questa mescolanza di motivi e di temi non direttamente legati ai paradigmi della sua epoca e della sua provenienza hanno probabilmente determinato la lunga, invidiabile fortuna del romanzo. Ma la fortuna di Fosca non è solo questione letteraria. Non per caso, la maggior parte delle interpretazioni critiche dell’opera è tuttora di natura – essenzialmente – sociologica.
Come che sia, Fosca nel mondo contemporaneo ha vinto. Del morboso rimane solo l’estetica vuota – svuotata, cioè, di ogni idea intellettuale: l’estetica senza un senso del costume.
La letteratura di costume può essere indubbiamente, a fortiori nel Terzo millennio, una letteratura “alta”: si presta, fra l’altro, alla rappresentazione, ossia ad essere mediata, metabolizzata, restituita in qualche forma altra dallo scritto.
Nel secolo scorso, il fenomeno è stato evidente soprattutto nelle rielaborazioni cinematografiche di romanzi considerati “classici” – Fosca compresa, va da sé… I film rischiano sovente, d’altronde, di lasciare nella memoria collettiva una mera, vaga traccia dei libri reinventati, privandoli così dell’approfondimento psicologico che determina la letterarietà di un personaggio, nonché la sua capacità archetipica d’incarnare – parzialmente, beninteso – un’idea universale ed eterna.
Ma pure nel semplice, quotidiano costume – che è, in fondo, una forma monodimensionale dell’arte – Fosca ha vinto. Il modello della donna fatale, della femme fatale emaciata, volitiva, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, conscia, anzi quasi fiera delle proprie potenzialità: di fatto, questo tipo di donna, capace di sfidare le convenzioni sociali emancipandosi, una volta per tutte, dal ruolo tradizionale e rassicurante di madre comprensiva, ha avuto la meglio nell’inconscio collettivo – e, soprattutto, in quello femminile.
E la longevità di questo romanzo che, al di là del suo interesse storico, non assurge certo per intensità semantica, né stilistica, né teoretica ad emblema della letteratura italiana come il grande affresco epocale da Manzoni a De Roberto, è che il motivo di fascinazione che Tarchetti identifica costruisce mirabilmente nel personaggio di Fosca è il modello femminile dominante di una società che ha visto più volte movimenti di protesta senza costrutto.
I tentativi di emancipazione femminile, di metà Novecento, di grande portata simbolica e di scarso impatto semantico si consumano senza mutazioni sociali durevoli, dunque significative nel lungo periodo.
Nella prospettiva dello storico, la temperie di pura protesta senza approdo che Carducci tanto rimproverava alla Scapigliatura, è di fatto una costante antropologica ben verificabile. Ma qui a noi non interessa. Quello che ci riguarda è invece l’interesse che l’opera e la sua reale protagonista non cessa di suscitare nel lettore contemporaneo.
La morte e la malattia di Fosca non dischiudono alcuna dimensione ulteriore né cognitiva né affettiva, né fisica né metafisica. Giorgio è stritolato da quell’amore, almeno fino all’esito ultimo del romanzo nel quale Fosca muore e, con la morte, lo libera, ma… senza essere una Beatrice!
In verità, con la propria morte Fosca fa brillare il sublime della sua incarnazione sventurata: di là dalle pur ammirevoli, studiate variazioni, si resta sul limite di questo mondo dannatamente “creaturale”, non si varca alcuna soglia ontologica. Altra cosa saranno già le muse di D’Annunzio, connotate da una volitività vitalissima, per quanto sovente sensulisticamente esasperata e, in definitiva, strumentale.
Ma a noi, probabilmente, è più vicina e più somigliante Fosca, e da lei c’è dunque da imparare.
La sua magrezza è quella ossessiva delle indossatrici di fine Novecento, consumate non dalla miseria o dalla malattia, ma dalla sovrabbondanza ripugnante e dal desiderio di millimetrico controllo. Ma proprio quel controllo è drammaticamente sfuggito a un intelletto impoverito in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo economico, e molti movimenti femministi parlano a giusto titolo di una lotta sociale condotta sul corpo delle donne.
Come che sia, la rappresentazione che Tarchetti offre, in queste pagine, del corpo femminile è straordinaria. Di là dalla dicotomia straziante e ben resa fra Clara e Fosca, è l’affermazione d’identità tutta intellettiva e interiore che può essere solo della donna malata – e che richiede comunque un sacrifico estremo – a rendere questo testo un classico de race nella nostra letteratura.
Inoltre, la collocazione di una figura materna e salutare esclusivamente nell’alveo di una ben consolidata architettura sociale – anch’essa, però, deprivante e soverchiante – costituisce uno dei più moderni e accattivanti ritratti femminili che si possano trovare all’epoca. Secondo alcuni, addirittura, le icone della donna postmoderna non si discostano granché da quelle che il lungimirante, sensibilissimo Tarchetti tratteggiò a fine Ottocento. Come glossare adeguatamente affermazioni tanto perentorie? Conviene forse, per ora, sospendere il giudizio.
Ancora, la ricchezza straordinaria di questo testo abita certamente nel suo essere un affresco sociale tanto involontario quanto prezioso, che getta la sua prospettiva ben oltre il suo momento, ossia in un momento altro, e che del visibile fa esclusivamente il suo fulcro semantico.
Infine, la bellezza ineffabile e perturbante della nostra eroina tardoromantica rimane prigioniera dello sguardo col quale seduce e rapisce e, in qualche misura, ammonisce ancora: “Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi, che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente”.
ORIENTAMENTI BIOGRAFICI NOTI E MENO NOTI
Un aspetto di re merovingio avea […] un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche critico oggi lo chiamerebbe un “féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale proclamava al pari d’un altro sconfinato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi! (R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese, Milano, Treves, 1895).
Così appariva ai contemporanei il “pallido e romantico” Igino Tarchetti: il nome Ugo venne aggiunto dallo scrittore al suo, in omaggio ad un Foscolo cui si sentiva, per più ragioni di vario ordine, vicino.
Nato il 29 giugno 1839 a San Salvatore Monferrato (Alessandria), dopo gli studi classici si arruolò, ancora giovanissimo, nell’esercito, prendendo parte alle campagne contro il brigantaggio nel Sud Italia. Divenne poi addetto al commissariato militare fra Milano, Parma e Varese.
Proprio a Varese, nel 1863, conobbe Carlotta Ponti: donna candida (d’aspetto e d’animo), affettuosa e quasi materna, ella divenne il modello del personaggio di Clara; con lei Tarchetti ebbe una relazione sentimentale più epistolare che non vissuta; a ogni modo, in quel carteggio restano testimonianze utilissime per tracciare un “profilo interiore” dell’intellettuale e del suo ambivalente desiderio amoroso, intriso di negazione e giocato fra ostacolo ed estasi: “il vederti mi rende inquieto e direi quasi malato”, scrive Tarchetti a Carlotta, e ancora: “Evitiamo la sazietà, evitiamola, rendiamoci desiderosi l’uno dell’altro per una lunga privazione”.
Egli è, in quelle lettere, il perfetto modello (o quasi) dell’homme de lettres romantico, secondo il quale la passione amorosa è vocata alla tragedia:
Non vi ha affetto che non costi delle lacrime; e tanto più se questo affetto unisce degli sventurati come noi. Tu non ne versasti meno del tuo Ugo, credilo, o Carlotta, credilo, e quantunque tu mi ripeta ancor oggi con un’amara ironia che tu fosti la causa di tante mie sventure, posso ben assicurarti che io imparai da te a veramente piangere e a veramente soffrire. Felici coloro che piangono, perché non provano l’agonia del dolore segreto. Vi sono istanti in cui il cuore si frange, e gli occhi rimangono asciutti, l’uomo soffre e la donna piange. è mio destino che io non possa essere compreso, tu mi credi forse leggero, superficiale, tu non discendesti mai a scrutare in questo cuore che la sventura…
Nel 1864, ammalato di tisi, venne trasferito a Milano, ove entrò in contatto con gli esponenti di spicco della Scapigliatura e strinse, fra l’altro, un’intensa, fraterna amicizia con Salvatore Farina, che così lo descrive:
Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua idealità d’artista (S. Farina, La mia giornata. Care ombre,Torino, STEN, 1913).
In quegli anni, stese il pamphlet dal titolo Idee minime sul romanzo e il romanzo Paolina, pubblicati entrambi sulla “Rivista minima” nel 1865. Frattanto, maturò idee antimilitari e antiautoritarie, confluite, poi, nel romanzo Una nobile follia, pubblicato nel 1867.
Nel novembre del ’65, a Parma, ove si trovava per un incarico militare, conobbe, in casa di un suo superiore, una donna (Carolina o Angiolina) epilettica e moribonda, che esercitò peraltro su di lui un fascino irresistibile, tanto da accompagnarlo in una relazione – per l’epoca – affatto scandalosa; come che sia, egli ne trarrà l’ispirazione decisiva per Fosca, la singolarissima, sfuggente, pressoché ineffabile figura che anima e innerva l’omonimo romanzo, tuttora considerato il suo capo d’opera da molte voci critiche autorevoli.
In quei mesi, i problemi somatici di Tarchetti si aggravarono sensibilmente; abbandonata la vita militare, si trasferì a Milano, ove trascorse gli ultimi anni del suo breve percorso esistenziale e creativo fra egregi salotti letterari e una febbrile, disordinata attività di scrittura: basti qui menzionare L’innamorato della montagna, Racconti fantastici, Racconti umoristici, Storia di una gamba. Morì colpito dal tifo il 25 marzo 1869, appena trentenne. Lo stesso anno apparve postumo Fosca.
Ironia della sorte: la femme fatale, fragilissima quanto artigliante, che aveva ispirato il personaggio di Fosca gli sopravvisse: onorò sinceramente la sua memoria, facendo puntualmente recapitare, fra il resto, fiori freschi sulla sua tomba nel giorno dei morti.
Bibliografia essenziale
1. Opere di Igino Ugo Tarchetti, con particolare riferimento a Fosca
Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Bologna, Cappelli, 1967, 2 voll.
Una nobile follia. Drammi della vita militare, a cura di E. Ghidetti, Firenze, Vallecchi, 1971.
Fosca, a cura di F. Portinari (1971), Torino, Einaudi, 1982.
Racconti fantastici, a cura di N. Bonifazi, Milano, Guanda, 1977.
Una nobile follia. Drammi della vita militare, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Bologna, Cappelli, 1979.
Fosca, a cura di G. Finzi (1981), con uno scritto di C. E. Gadda, Milano, Mondadori, 2017.
Fosca, a cura di R. Bertazzoli (1989), Milano, Mursia, 2009.
Fosca, a cura di F. Mariani, Torino, Loescher, 1993.
Racconti fantastici, a cura di G. Finzi, Milano, Bompiani, 1993.
Paolina, a cura di R. Fedi, Milano, Mursia, 1994.
Fosca, a cura di E. Repetti, Torino, Talia, 1995.
Fosca, a cura di L. Della Bianca, Torino, SEI, 1995.
Disjecta. Frammenti lirici, edizione critica, introduzione e commento a cura di R. Mosena, Lanciano, Carabba, 2017.
2. Monografie e ricerche contemporanee su Tarchetti e, più in generale, sulla Scapigliatura
G. Carducci, Dieci anni a dietro (1880), in Id., Opere (vol. XXIII), Bologna, Zanichelli, 1937, ad indicem.
P. Nardi, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi (1924), Milano, Mondadori, 1968, ad indicem
B. Croce, Tra i giovani poeti, “veristi” e “ribelli”, in Id., La letteratura della nuova Italia (vol. V, 1933), Roma-Bari, Laterza, 1974, ad indicem.
A. Galletti, Il Novecento (1935), Milano, Vallardi, 1973, ad indicem.
W. Binni, La poetica del decadentismo (1936), Firenze, Il ponte, 2014, ad indicem.
L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche (1962), nuova edizione accresciuta e aggiornata a cura di L. Vetri, Venezia, Marsilio, 1990, ad indicem.
M. Petrucciani e N. Bonifazi, Poeti della Scapigliatura, Urbino, Argalia, 1962, ad indicem.
E. Ghidetti, Una nobile follia. Ragioni antimilitaristiche della cultura scapigliata, in “La Rassegna della Letteratura Italiana”, a. LXVIII, 1964, pp. 85-110.
J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo della storia del Risorgimento, Copenaghen, Apud Munksgaard, 1966, ad indicem.
G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Catalnissetta – Roma, S. Sciascia, 1967, ad indicem.
G. Contini, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968 (1968), introduzione di C. Segre, Milano, BUR, 2012.
G. Cusatelli, La poesia dagli scapigliati ai decadenti, in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana (vol. 8: Dall’Ottocento al Novecento), Milano, Garzanti, 1968, ad indicem.
E. Ghidetti, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria scientifica editrice, 1968.
A. Della Rocca, Tarchetti e Rovani. Temi e orientamenti della Scapigliatura, Napoli, Liguori, 1970.
L. Bolzoni – M. Tedeschi, Dalla Scapigliatura al Verismo, Roma-Bari, Laterza, 1975, ad indicem.
E. Gioanola, La Scapigliatura. Testi e commento, Torino, Marietti, 1975, ad indicem.
R. Tessari, La Scapigliatura. Un’avanguardia artistica nella società preindustriale (1975), Torino, Paravia, 1983, ad indicem.
F. Bettini, La critica e gli scapigliati, Bologna, Cappelli, 1976, ad indicem.
AA.VV., Convegno nazionale su Igino Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, Comune di San Salvatore Monferrato [Alessandria] e Cassa di Risparmio di Alessandria, 1977.
P. Del Negro, De Amicis “versus” Tarchetti. Letteratura e militari al tramonto del Risorgimento (1977), in Id., Esercito, Stato, Società. Saggi di storia militare, Bologna, Cappelli, 1979, ad indicem.
A. Ferrini, Invito a conoscere la Scapigliatura, Milano, Mursia, 1988, ad indicem.
G. Farinelli, Dal Manzoni alla Scapigliatura, Milano, Istituto propaganda libraria, 1991, ad indicem.
E. Paccagnini, Contributo alla bibliografia d’esordio di Tarchetti. Testi dispersi e varianti, in “Otto-Novecento. Rivista bimestrale di critica letteraria”, a. XVIII, mar.-apr. 1994, pp. 103-52.
A. Di Benedetto, Il romanzo antimilitarista di I. U. Tarchetti, in Ippolito Nievo e altro Ottocento, Liguori, 1996.
G. Rosa, La narrativa degli scapigliati, Roma-Bari, Laterza, 1997, ad indicem.
A. M. Mangini, La voluttà crudele. Fantastico e malinconia nell’opera di Igino Ugo Tarchetti, Roma, Carocci, 2000.
G. Farinelli, Scapigliatura, Roma, Marzorati-Editalia, 2001, ad indicem.
G. Padovani e R. Verdirame (a cura di), Il verme e la farfalla. Autori e testi rari della Scapigliatura da Tarchetti a Calandra, Caltanissetta, Lussografica, 2001, ad indicem.
G. Farinelli, La Scapigliatura. Profilo storico, protagonisti, documenti, Roma, Carocci, 2003, ad indicem.
N. Pireddu, Poe spoetizzato: l’esotismo tarchettiano, in R. Cagliero (a cura di), Fantastico Poe, Verona, Ombre Corte, 2004, ad indicem.
R. Carnero (a cura di), La poesia scapigliata, Milano, BUR, 2007, ad indicem.
M. Mura, Pratiche intertestuali. Influssi inglesi nell’opera di Iginio Ugo Tarchetti, Roma, Bulzoni, 2008.
R. Carnero (a cura di), Racconti scapigliati, Milano, BUR, 2011, ad indicem.
Note
- A. Cesari, La morte nella “Vita Nuova”, Bologna, Zanichelli, 1892, pp. 5-7.
- R. Tessari, Introduzione a La Scapigliatura, Torino, Paravia, 1975, pp. 5-6.
- E. Gioanola, Introduzione a La Scapigliatura, Torino, Marietti, 1975, p. 13.
- A. Cesari, La morte nella “Vita Nuova”, cit., p. 34.
- E. Gioanola, Introduzione a Id., La Scapigliatura, Marietti, 1975, p. 10.
- Ibidem, p. 12.
- Carducci, com’è noto, parla della Scapigliatura come di una “malattia romantica”; solo Croce conduce uno studio sistematico sui temi del gruppo che, tuttavia, non definisce come corrente, ma genericamente come “scrittori della nuova Italia”. Walter Binni, poi, la vede come primo embrione del Decadentismo. Sarà solo Gianfranco Contini ad additarla come un’avanguardia, audace quanto impreveduta, nonché capace di condurre all’espressionismo ineffabile del miglior Gadda.
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