Bibliomanie

Il ruolo della lingua
di , numero 42, luglio/dicembre 2016, Didactica,

Il ruolo della lingua
Come citare questo articolo:
Clara D’Agostino, Il ruolo della lingua, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 42, no. 7, luglio/dicembre 2016

La lingua è uno strumento di comunicazione fondamentale per l’uomo, che non solo lo rende unico rispetto ad ogni altro essere vivente, ma che viene anche utilizzato in ogni ambito della vita quotidiana. Antica ma al tempo stesso moderna, la lingua conserva espressioni, vocabolario e grammatica della tradizione passata, ma è sempre disposta a cambiare e a rinnovarsi per soddisfare nuove esigenze. La mia analisi linguistica esplora la creazione ‘Neolingua’ in 1984 che George Orwell utilizza come strumento di controllo del pensiero nella società totalitaria qui descritta, e l’importanza del linguaggio e della comunicazione nei campi di concentramento (attraverso l’esperienza concentrazionaria di Primo Levi) unitamente al problema della convenzionalità del linguaggio nell’opera La trahison des images (René Magritte, 1928).
Nell’appendice finale del romanzo di George Orwell ritroviamo uno studio approfondito sul ruolo della Neolingua, che nel corso della storia viene solamente accennato. Before we concentrate on the role of Newspeak in the book “1984”, I would like to introduce the most important features of this novel. Orwell wanted to describe a future totalitarian society, which is ruled by the ideology of “The Party” and by its chief “The Big Brother”. This frightening new world is divided into three main states: Oceania (America, Great Britain, Ireland, Australia, New Zealand and South Africa), where the story is settled, Eurasia and Eastasia. The Big Brother controls every aspect of the everyday life, through the telescreens, the Thought Police and the creation of a new means of communication: the Newspeak, which is the official language of Oceania. In 1984 however no-one uses it as the only means of communication and only few people are asked to draw up dictionaries and write articles in the newspapers using it. The protagonist of the book, Winston Smith, works for the “Ministry of Truth” where he has to rewrite historical records or old pages of newspapers, often using the new vocabulary. He’s also one of the last men to still believe in human values in a totalitarian age, in fact he tries to rise up against the authority of the Big Brother. It was expected that the Newspeak would have completely replaced Standard English (or Oldspeak) by 2050. The few words used in 1984 are, effectively, only provisionals and still contain superfluous expressions. The Newspeak is based on the English language, as we know it today, and on the needs of the dominant ideology, but thanks to the use of ‘prefix’ and ‘affix’ the number of words is extremely reduced. Furthermore it’s divided into three categories: A vocabulary, B vocabulary and C vocabulary. The A vocabulary concerns the words needed for the business of everyday life; the grammar has two peculiarities and the first one is linked to the use of prefix and affix that I’ve mentioned before: the parts of the speech are completely interchangeable. For example the affix ‘un-’ is used to point out something negative, so the adjective ‘dark’ could be replaced by the word ‘unlight’, and the word ‘light’ by the word ‘undark’. The second distinctive feature is the regularity of the grammar: there are only few irregular inflections, for example in the pronouns. The B vocabulary consists of words which have been constructed for political purposes and implications, and that are intended to impose a mental attitude. Often the words that belong to this vocabulary are euphemisms, they mean exactly the opposite (as for example the Ministry of Peace, Minipax, deals with war). The C vocabulary, supplementary to the others, consists entirely of scientific and technical terms. The purpose of newspeak is not only to create a new means of communication, to replace the old view of the world and its old habits, but to make all other ways of thinking impossible. After its complete adoption every ‘heretical’ thought should be literally ‘unthinkable’. The unwanted words and the secondary meanings are abolished. The intention of the Party was to produce the speech mechanically from the larynx without involving any brain process at all, to free the words from the influence of conscience. The Newspeak is different from the other languages because every year its vocabulary shrinks instead of growing larger1.
Divergendo dall’uso della lingua come strumento di controllo totalitario e ideologico, vorrei continuare parlando della lingua come ancora di salvezza per sfuggire alla bestializzazione dell’essere umano nel lager nazisti. Partendo dall’esperienza concentrazionaria di Primo Levi ho deciso di analizzare il ruolo che ebbe la lingua nei campi di concentramento. All’arrivo nel campo risaltava immediatamente la grande confusione linguistica, un misto di ordini urlati, imprecazioni e lingue mai prima udite: una perpetua Babele, ‘un film sfocato e frenetico’ come l’autore stesso lo definisce. In questo universo a sé stante nessuno aveva il tempo o la pazienza di comunicare gli ordini nelle differenti lingue, perciò sapere il tedesco era di vitale importanza. Comprendere la lingua nazista creava una sorta di spartiacque: coloro che ne conoscevano almeno le basi potevano instaurare una parvenza di rapporto umano, mentre chi non capiva veniva eliminato nel giro di pochi giorni. Mezzo sostitutivo della parola, erano le percosse, spesso applicate utilizzando un nerbo di gomma che ironicamente veniva chiamato “der Dolmetscher” (che in tedesco significa appunto l’interprete), in quanto era in grado di farsi capire da tutti. I più colpiti da questa radicale incomunicabilità erano jugoslavi, italiani, greci e in misura minore anche ungheresi e francesi. La maggior parte dei prigionieri, coloro che avevano superato le dure procedure d’iniziazione, cercava di difendersi dall’isolamento, rifiutandosi di essere trattati alla stregua di animali, e cercando, nei pochi momenti di lucidità mentale, ovvero quando il pensiero non correva ai bisogni fisici più impellenti (fame, freddo, igiene personale), di captare brandelli di conversazione e stralci di banali informazioni. Il non-parlare aveva effetti devastanti sull’individuo, realizzando la crudele volontà dei nazisti di assimilare i prigionieri a delle bestie, riconoscibili attraverso dei numeri marchiati a fuoco sulle braccia (come per esempio il tatuaggio chiamato ironicamente ‘Die Himmlische Telefonnummer’, il numero di telefono celestiale/per il cielo). Un esempio è l’utilizzo del verbo ‘fressen’, che in tedesco si riferisce all’azione del mangiare divorando tipica degli animali. Ulteriore sofferenza derivava dal fatto che non era possibile ritrovare il desiderio di stringere un contatto o di comprendersi dall’altra parte. Alla poca comunicazione interna al campo faceva eco quella con il mondo esterno, molti lager erano infatti isolati gli uni dagli altri, e gli unici prigionieri “nuovi” erano quelli provenienti da altri luoghi di prigionia. Per questo motivo c’era bassa circolazione di notizie, che pervenivano in maniera vaga e saltuaria, ed elevata disinformazione. La lingua ufficiale dei campi era il tedesco, un tedesco diverso e più complesso, visto e considerato che la società concentrazionaria era costituita da un assembramento molto diversificato di lingue e culture. Il tedesco dei dominatori, delle SS, e dell’amministrazione interna era solo una variante imbarbarita della lingua del Terzo Reich, scheletrico e urlato, costituito per la maggior parte da oscenità e imprecazioni, sigle ed eufemismi volti a celare la disumana realtà dei campi (ad esempio l’uso della parola ‘docce’ per indicare le camere a gas, anche fisicamente adibite come docce, con spogliatoi e rubinetti).
Speculare alla lingua delle SS nacque la ‘Lagersprache’, detta anche ‘Lagerjargon’. Questa sorta di dialetto era influenzato dalle altre lingue parlate all’interno e nei dintorni del campo stesso, quindi in ogni lager si caricava di diverse varianti e inflessioni (sottogerghi specifici). In tal modo si evidenzia anche la componente multietnica e cosmopolita degli internati. Una parola comune ai differenti campi era ‘Muselmann’ (musulmano), usata per indicare un prigioniero prossimo alla morte, che aveva perso i connotati umani e acquistato le sembianze di un cadavere ambulante, definiti da Primo Levi i ‘sommersi’. Oppure l’utilizzo delle parole abbinate fra loro ‘Schmutzstück’ e ‘Schmucksütck’ (rispettivamente immondizia e gioiello) per indicare le donne nella stessa condizione. Le frasi erano brevi e articolate in maniera elementare, gli unici aggettivi utilizzati avevano funzione ironica o dispregiativa. Il lessico ne risultava perciò nettamente impoverito e spesso conteneva imprecisioni di tipo grammaticale; le frasi erano sempre identiche e usate principalmente per soddisfare le esigenze più impellenti. Questo dialetto fungeva da strumento di interazione, vitale per la sopravvivenza, per ridare l’umanità che era stata tolta ai prigionieri al loro arrivo nel campo, nel processo di bestializzazione portato a compimento dai nazisti. La lingua era divisa principalmente in tre categorie: Fachsprache, Geheimsprache e Gruppensprache. La prima corrisponde ad un linguaggio tecnico e settoriale, che caratterizza le situazioni di vita quotidiana e nella quale si ricorre a nuove denominazioni per le differenti strutture e situazioni del lager. Il linguaggio in codice, anche detto Geheimsprache, era usato per comunicare sia all’interno del lager, fra gli stessi detenuti, che all’esterno, in modo tale da non farsi comprendere dalle SS. La Gruppensprache era propria di un gruppo ed era sentita come elemento di coesione e difesa contro le minacce esterne.
Non bisogna però ignorare la forte presenza del linguaggio nell’arte, per trasmettere un messaggio, per comunicare emozioni oppure per spingere a riflettere sulla realtà che ci circonda (noi andremo ad analizzare proprio quest’ultimo caso). La trahison des images, ovvero Il tradimento delle immagini, è un’opera del pittore belga surrealista René Magritte, un olio su tela realizzato nel 1928-29 e attualmente esposto al County Museum of Arts, Los Angeles. Nonostante la tecnica pittorica sia impeccabile e di stampo accademico, sicuramente memore della precisione analitica della tradizione fiamminga, lo sguardo d’insieme trasmette una sensazione di ambigua inquietudine. L’opera raffigura in maniera realistica e dettagliata una pipa (spesso i soggetti dei suoi quadri erano infatti banali ed appartenenti alla quotidianità), che si staglia su uno sfondo monocromatico uniforme, a tinte tenui e una scritta, costituita da una calligrafia semplice e quasi infantile che recita: “Ceci n’est pas une pipe” (ovvero: “Questa non è una pipa”). L’intento dell’allora trentenne Magritte, al momento dell’inserimento della didascalia, era quello di sottolineare la differenza fra oggetto reale e la sua rappresentazione; non ci troviamo di fronte a quell’oggetto che nella realtà quotidiana assume il ben noto nome di pipa, ma ad una sua raffigurazione pittorica. Come lui stesso dirà, in seguito alla presentazione al pubblico della sua opera: “Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa.” Provocando una sorta di smarrimento nello spettatore, Magritte ci spinge a riflettere sul sottile confine che separa la realtà circostante dalla rappresentazione della stessa. Su questa dimensione si gioca il problema della convenzionalità del linguaggio, del paradosso logico-linguistico che muta il rapporto fra l’oggetto, la sua rappresentazione in immagine e la parola che convenzionalmente indica questo oggetto. Secondo il pittore il rapporto fra un oggetto e il nome che gli viene attribuito è fissato in virtù di una convenzione, che nella realtà quotidiana viene vissuta in maniera scontata. La nostra visione è spesso standardizzata, diamo per scontato cose che non lo sono. Sicuramente è più facile affermare che quell’oggetto sia una pipa, ma così facendo stiamo travisando la realtà, applicando una semplificazione operata dal linguaggio, che a sua volta si adatta alle esigenze pratiche quotidiane. In conclusione, le opere di Magritte ci svelano la relazione del linguaggio con la realtà, andando a far luce sul paradosso che è presente soprattutto quando per l’osservatore “non c’è nessun problema” apparente.

Bibliografia
George Orwell., 1984. Milano, Oscar Mondadori, 2014
George Orwell., Nineteen Eighty-Four. London, Penguin Books, 2008
Primo Levi., Se questo è un uomo. Torino, Giulio Einaudi editore, 2005
Primo Levi., I sommersi e i salvati. Torino, Giulio Einaudi editore, 2007
Donatella Chiapponi., La lingua nei lager nazisti. Roma, Carocci editore, 2004 Marcel Paquet., Magritte. Colonia, Taschen, 2015
Bietoletti, Conte, Dantini, Lombardi., Arteviva, libro scolastico. Firenze, Giunti e Tancredi Vigliardi Paravia Editori, 2012

Note

  1. Prima di concentrarsi sul ruolo della Neolingua nel romanzo 1984, vorrei introdurne le caratteristiche principali. George Orwell voleva descrivere una società totalitaria del futuro, controllata dall’ideologia del Partito e dal suo capo ‘Il Grande Fratello’. Questo nuovo e spaventoso mondo è diviso in tre stati: Oceania, dove la storia è ambientata, Eurasia e Estasia. Il Grande Fratello controlla ogni aspetto della vita quotidiana attraverso i teleschermi, che non possono mai essere spenti, la Psicopolizia e la creazione di un nuovo mezzo di comunicazione: la Neolingua, che è anche il linguaggio ufficiale dell’Oceania. Nel 1984 nessuno la usava come unico mezzo di comunicazione e solo poche persone avevano il compito di redigere dizionari e scrivere articoli sui giornali servendosi di essa. Il protagonista del romanzo, Winston Smith, lavora per il ‘Ministero della Verità’ dove ha il compito di riscrivere documenti storici e vecchie pagine di giornali, spesso usando il nuovo vocabolario. Lui è anche uno degli ultimi uomini rimasti che crede nel valore dell’uomo in un’epoca totalitaria, infatti cerca di reagire e di ribellarsi all’autorità del Grande Fratello. Era stato previsto che la Neolingua avrebbe completamente sostituito la vecchia entro il 2050. Le poche parole usate nel 1984 erano solo provvisorie e contenevano ancora espressioni superflue. La Neolingua è basata sull’inglese standard, come lo conosciamo oggi, e sulle esigenze dell’ideologia dominante ma, grazie all’uso dei prefissi, il numero delle parole risulta estremamente ridotto. In più, viene divisa in tre categorie: lessico A, lessico B e lessico C. Il lessico A riguarda tutte le parole utilizzate nella vita quotidiana; la grammatica ha due peculiarità e la prima è collegata all’uso dei prefissi che ho accennato prima: le parti del discorso sono completamente intercambiabili. Per esempio il prefisso ‘s’ è usato per indicare qualcosa di negativo, in questo modo l’aggettivo ‘buio’ può essere sostituito dalla parola ‘sluce’, e la parola ‘luce’ da ‘sbuio’. La seconda caratteristica distintiva è la regolarità della grammatica: esistono solo poche irregolarità, per esempio nell’uso dei pronomi. Il lessico B consiste in parole costruiti appositamente per fini politici, che hanno lo scopo di imporre un’attitudine mentale. Spesso le parole che appartengono a questo lessico sono eufemismi, indicano cioè esattamente l’opposto (come per esempio il Ministero della Verità, dove lavora il protagonista, si occupa della contraffazione dei documenti e delle fonti storiche. Oppure il Ministero della Pace che si occupa della guerra). Il lessico C è supplementare agli altri due e consiste in termini tecnici e scientifici. Lo scopo della Neolingua non è solo quello di creare un nuovo mezzo di comunicazione per sostituire la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini, ma di rendere impossibile ogni altra visione ideologica. In seguito alla sua totale adozione, tutti i pensieri ‘eretici’ saranno letteralmente ‘impensabili’. Le parole non volute e i doppi sensi verranno totalmente aboliti. L’intenzione del partito era quella di produrre meccanicamente il discorso dalla laringe, senza coinvolgere i processi mentali, e liberare le parole dall’influenza della nostra coscienza. La Neolingua è diversa da ogni altro linguaggio mai esistito, perché ogni anno si rimpicciolisce invece che ampliarsi.

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