I primi 300 anni delle Lettere persiane. Una buona occasione per ripensare ab imis Montesquieu
Davide Monda, I primi 300 anni delle Lettere persiane. Una buona occasione per ripensare ab imis Montesquieu, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 18, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.6055
La sua gloria fu l’Esprit del lois; le opere di Grozio e di Pufendorf erano mere compilazioni, mentre il capolavoro di Montesquieu sembrò l’opera di un uomo di Stato, di un filosofo, di un bel esprit, di un cittadino. Quasi tutti coloro che erano i giudici naturali di un libro del genere, i letterati e i giuristi d’ogni paese, lo considerarono e lo considerano ancora quasi un codice della ragione e della libertà.
Voltaire, Commentaire sur L’Espit des lois, 1777
La lezione morale di Montesquieu è uno spirito di generosa e cordiale simpatia verso tutti gli uomini; è un profondo rispetto per la libertà umana, una fiducia assoluta nell’Essere Infinito e Universale, la fede in Dio. Ed è pure uno spirito di commossa indulgenza per la piccolezza e la fragilità dell’uomo, per la caducità inevitabile delle nazioni e dei governi; è un odio feroce contro il dispotismo, la crudeltà, il fanatismo, il capriccio, contro tutto quel che fa soffrire gli uomini; è, in una parola, il culto della civiltà e, nel contempo, l’amore e la comprensione delle società umane.
F. Strowski, Montesquieu, 1912
Una riflessione ponderata e responsabile sui tre capolavori di Montesquieu e sulla loro ricchissima e, presumibilmente, inesauribile eredità giuridica, morale e culturale tout court appare oltremodo opportuna, specialmente in questo frangente di amara, inquietante miseria complessiva. Non per caso, forse, molti dei maggiori storici delle idee e delle lettere dei due secoli passati hanno sostenuto che le sue opere decisive hanno condizionato – in maniera sempre positiva e in misura tuttora incalcolabile – nazioni, costituzioni, codificazioni, istituzioni e organizzazioni determinanti nella vita civile del nostro pianeta.
Ma che si può aggiungere di realmente utile, dopo tanti e tanti studi antichi, moderni e postmoderni di prim’ordine, sul “Legislatore dei Legislatori”? In estrema sintesi, nelle paginette che seguono vorrei sottolineare come le convinzioni più originali di questo singolare illuminista possono ancora donare moltissimo a ciascun cittadino europeo del Terzo millennio, ma solo a condizione che egli sia disposto ad accoglierle con attenzione paziente e con spirito autenticamente critico.
Non solo in una “Repubblica delle Scienze e delle Lettere” vieppiù soggetta a gravi patologie quali lo specialismo, il disincanto e il sospetto, bensì generalmente nel mondo laico e pluralista che abitiamo non sembra agevole, almeno di primo acchito, patrocinare l’attualità del messaggio consegnatoci dal Barone di Montesquieu.
In merito all’uomo, parecchi interpreti di ieri e di oggi non hanno perso occasione per rimarcare quella sua serenità pressoché apollinea, quella sua solare e imperturbabile felicità di vita e di pensiero che gli avrebbe elargito una capacità singolare e quasi prodigiosa di armonizzare la totalità dei contrasti, delle amarezze, delle difficoltà di vario ordine che l’esistenza gli andava via via imponendo.
D’altra parte, posizioni di questo tenore potrebbero trarre in inganno, non solo sulla personalità dell’autore, ma anche e soprattutto circa il senso generale e profondo della sua opera, tanto originale quanto eterogenea. Di là dall’occasione – i trecento anni dalla “nascita”, ossia dall’editio princeps (1721) – e dalle celebrazioni nazionali e internazionali ad essa connesse, conviene forse cominciare o riprendere un dialogo ideale con Montesquieu proprio dalle Lettere persiane, da questo «vero e proprio trattato filosofico-politico in forma di romanzo epistolare» di cui – pochi mesi or sono – ha offerto un’esemplare e, per più versi, innovativa edizione1 Domenico Felice, il maggiore studioso italiano vivente dell’illuminista di Bordeaux.
In realtà – ha osservato Judith N. Shklar in un aureo libretto del quale anche Felice apprezza l’intelligenza esegetica ed ermeneutica – è difficile accettare l’immagine di un Montesquieu uomo semplice e felice. Scrisse un romanzo [le Lettres persanes] che, fra le altre cose, è un capolavoro di humour nero, il cui eroe, Uzbek, despota orientale e personaggio profondamente malinconico e tormentato, per molti versi assomiglia all’autore. Alcuni amici di Montesquieu e il figlio lo chiamavano Uzbek: la somiglianza non era dunque un segreto. Non molto tempo dopo il romanzo, inoltre, Montesquieu scrisse diverse novelle più brevi, che, diversamente dalle Lettere persiane, non sono racconti filosofici, ma storie violente, cupe e passionali, piene di coincidenze e di sciagure. Tutta la produzione romanzesca di Montesquieu, in realtà, verte sull’impossibilità della felicità umana, cosa che non fa pensare a un autore soddisfatto di se stesso o del mondo. A livello sociale, tutte le sue opere suggeriscono che le nostre abitudini e le nostre credenze acquisite ci danneggiano psicologicamente, e che i nostri bisogni e le istituzioni non sono mai in armonia. Anche questa non è la testimonianza di uno spirito sereno2.
Dottissimo, accorto e – spesse volte – inflessibile anatomista dell’humana condicio, Montesquieu è tutto salvo che un ingenuo, privilegiato osservatore delle cose del mondo, che si culla e si compiace, indifferente o distratto, in una gioia olimpica, e che, di conseguenza, proietta sull’universo intero questa sua percezione idealizzata.
All’opposto, questo giurista-filosofo, che per decenni aveva scandagliato de visu le meschinità, le rovine, gli eccessi e gli orrori dell’umanità di ogni tempo, possedeva una consapevolezza puntuale, lucidissima, quasi angosciata dell’“aspra tragedia dello stato umano”, e – in primis et ante omnia – dell’oppressione dispotica, di quel monstrum insieme socio-politico ed etico-religioso che signoreggiava, ora più ora meno indisturbato, presso la maggior parte dei popoli della terra.
Sapeva bene, in una parola, che la natura umana era quasi dappertutto umiliata e offesa, e pertanto s’impegnò senza requie né troppe divagazioni – specie dopo il suo periplo dentro il cuore pulsante della cultura europea, di cui ci ha lasciato egregia testimonianza nel journal de voyage – a comporre l’Esprit des lois, una fatica intellettuale di ambizioni e proporzioni maestose e, per molti aspetti, sorprendenti, che si proponeva in primis di additare quelle che gli apparivano le più assurde e crudeli miserie morali e istituzionali del suo secolo e, in secundis, di illustrare, pur senza farsi troppe illusioni circa i risultati ottenibili in concreto, quelle possibili vie di scampo che, nei secoli successivi, hanno quindi fornito all’Occidente talune delle sue basi assiologiche più solide e durevoli.
Specie dall’uscita di un pamphlet sottile quanto dissacrante di Althusser (1959) ad oggi, un policromo manipolo di studiosi perlopiù francesi e italiani, pur non discutendo l’eccellenza di un homme de lettres che si segnala, fra l’altro, per l’originalità assoluta di pensiero e di dettato, la coerenza delle opinioni e il rispetto verso le più insigni, vivifiche e progressive tradizioni culturali e istituzionali d’Europa, ha posto tuttavia l’accento sul fatto ch’egli fu, essenzialmente, un uomo dell’antico regime, il quale non avrebbe mai e poi mai compreso né, a fortiori, legittimato – per esempio – la rivoluzione francese, Napoleone e, più in generale, le tante e tante ideologie che si andarono a mano a mano affermando dopo la rivoluzione americana.
Ancora, in merito alle sue posizioni giuridiche, morali, politiche e religiose, già all’alba dell’Ottocento fu considerato da taluni critici – ma a torto, come largamente dimostrato da voci autorevolissime – un pur dotto e rispettabile sostenitore di idee ormai obsolete e, alle volte, pressoché infondate, che erano state comunque superate dal genio e dalle investigazioni d’ingegni delle generazioni successive.
Da ultimo, il fatto che abbia ognora mantenuto, perlomeno a quanto mi consta, rapporti cauti, prudenti e discreti con i due maggiori movimenti socioculturali e politici a lui contemporanei – alludiamo, s’intende, all’Illuminismo e alla Massoneria – certo non giocò a suo favore: com’è noto, aderì a entrambi, e tuttavia ricusò non solo di compiere, ma pure di avallare ogni tipo di gesto o attività che gli apparisse in contrasto con quei precisi parametri di pensiero e azione che, frutto com’erano di considerazioni lunghe, vissute e (non di rado) patite, sentiva oramai carne e sangue propri.
Ma desidero sottolineare nuovamente che le convinzioni più incisive, fortunate ed amate di questo illuminista affatto singolare possono dire e dare moltissimo – non solo a mio giudizio, va da sé – a ciascun cittadino europeo dei nostri tempi inquieti e “liquidi”, a patto che sia disposto ad accoglierle con mente davvero libera, con spirito schiettamente critico.
D’altro canto, come sottacere che tali posizioni, tutto sommato chiare e distinte, stanno alla base della nostra paideia, dei nostri diritti e dei nostri doveri? Oggi chi ignora, inoltre, che esse sono state ponderate da quasi tutti gli autori più solidi e originali (giurisperiti, filosofi, storiografi, letterati, sociologi, antropologi, psicologi etc.) che, per le ragioni più varie, ci troviamo a frequentare? E chi può negare, infine, che molte di queste idee sanno sovente spingerci, quasi prodigiosamente, ad operare a beneficio degli altri, di tutti gli altri, senza però negligere un vigilato amore di noi stessi?
Come ben illustrato da penne egregie di ieri e di oggi, buona parte degli opera omnia scritti e riscritti non senza gravi, logoranti fatiche dal perspicace, incontentabile intellettuale di Bordeaux può migliorare la nostra persona, stimolando o consolidando nel nostro intimo, nel nostro “foro interno”, virtù che trascendono spazi e tempi: menziono qui solo il rispetto genuino dell’humana dignitas, la tolleranza, la libertà (in primis negativa), l’uguaglianza (in primis formale), la fratellanza universale, nonché, in ambito stricto sensu morale, la fedeltà, la lealtà, l’autodisciplina, la modestia, la dedizione costante e responsabile al lavoro per il bene dell’umanità e, last but not least, l’autentica com-passione, sia verso quanti ci sono cari sia verso il prossimo.
Ma, lasciando ora da parte l’instancabile e, talora, insuperato lavoro di tanti e tanti studiosi de race, desidero ribadire con energia che al cittadino europeo degli anni Duemila farebbe assai bene soffermarsi direttamente su parecchie delle conclusioni elaborate, diffuse e difese da Montesquieu: pongo mente, in primo luogo, a quel che ha asseverato in campo etico-civile, politologico e spirituale. Così, potrebbe farne proficuamente oggetto di quelli che Pierre Hadot (1922-2010) – incomparabile storico del pensiero antico e filosofo tout court, che oggi, a giusto titolo, è celebre e celebrato in tutt’Europa – ha definito “esercizi spirituali”. Si tratta di una pratica filosofica – o, in altri termini, di uno stile di pensiero e di vita – che ha elargito alla posterità la migliore filosofia pagana, e che soltanto in seguito il Cristianesimo ha recepito e assimilato.
Io credo che in un ambito filosofico – asseriva Hadot una dozzina d’anni or sono, in una delle sue ultime interviste, tentando di fornire l’essenza di una riflessione durata ben più di mezzo secolo3 – l’“esercizio spirituale” possa considerarsi come una pratica volontaria, tutta personale, destinata a provocare una profonda trasformazione dell’individuo, una profonda metamorfosi del sé. Per alcuni filosofi antichi, questa pratica potrebbe essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare le difficoltà della vita: la malattia, la povertà, la mancanza del necessario, la variazione improvvisa della fortuna impongono un esercizio interiore che ci aiuta nella quotidianità e, nello stesso tempo, ci insegna a ragionare e a interiorizzare il sapere.
Tra gli officia precipui della filosofia, ad avviso di Hadot, non spicca quello di progettare e via via portare a compimento «discorsi nuovi» o «edifici concettuali fine a se stessi»: «La filosofia deve soprattutto insegnarci ad andare al di là di noi stessi, a superare il perimetro limitato del nostro io, e a farci prendere coscienza del nostro appartenere alla grande comunità degli esseri umani. Solo così pensiero e azione possono aiutarci a cercare il bene comune, rinunciando a inseguire i piccoli egoismi e le miserie legate al nostro “particulare”».
Una consapevolezza di questo tipo ci permetterebbe altresì di osservare da una prospettiva ben diversa il fluire delle cose vieppiù enigmatico, frenetico e sconvolgente entro il quale, volentes aut nolentes, siamo tutti gettati: «Si tratta di cercare – concludeva Hadot – una vita più razionale e ragionevole, che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci parte integrante dell’immensità del mondo. Un processo che non prevede un punto di arrivo. Siamo di fronte a una sfida infinita che, pur non producendo sempre risultati di alto livello, ci aiuta comunque a misurarci con i grandi misteri dell’esistenza».
D’altra parte, di là dalle indagini specialistiche, numerosi altri intellettuali di prim’ordine hanno espresso, negli ultimi lustri, una preoccupazione non lieve né passeggera per la situazione in cui versa l’uomo postmoderno, che si trova di giorno in giorno più confuso dinanzi alle sfide imposte dal divenire socioeconomico, e che sempre più spesso stenta a compiere e, più ancora, a portare avanti scelte etiche nel contempo razionali e responsabili. Faccio riferimento, anzitutto, a quanto hanno argomentato in proposito Morin, Bauman, G. Steiner, G. Reale, La Capria, Ceronetti, Todorov, M. C. Nussbaum, R. De Monticelli e M. Marzano.
Pur in forme, maniere e toni alquanto dissimili, tutti hanno manifestato di credere ancora pienamente nel valore morale, formativo e terapeutico della tradizione culturale d’Occidente effettivamente conforme a quegli alti, nobilissimi princìpi che fondano e vivificano anche la Carta costituzionale italiana del 1948 – la quale tanto deve, com’è risaputo, a Montesquieu.
Pertanto, ben consapevole di essere in ottima compagnia, io pure sono persuaso che, confrontandosi adagio e meticolosamente con tali classici, l’uomo della “società liquida” di un postmoderno avanzato potrebbe rendere di gran lunga migliore la qualità complessiva della sua esistenza, e lasciare a chi verrà, fra l’altro, un mondo meno appiattito, ingiusto, aggressivo. Per riuscire in quest’intento, nondimeno, dovrebbe smettere una volta per tutte di pensare che tale colloquio vissuto con le filosofie, le lettere e le arti sia inconciliabile coi ritmi delle sue giornate, o troppo oneroso, o addirittura inutile, nella misura in cui i “monumenti” delle lettere e del pensiero poco o nulla avrebbero a che fare con i nostri dubbi, le nostre angosce, le nostre speranze.
Seguendo con rispetto sincero e, insieme, con encomiabile giudizio le orme esigenti e ineguagliate di mentori dell’Occidente quali Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, nonché, fra i moderni, Grozio, Descartes, Pascal, Malebranche e Locke, Montesquieu ha sovente dato prova di saper guidare, sostenere e persino illuminare con precetti, coordinate e ipotesi di efficacia formidabile un novero di generazioni cospicuo quanto, naturalmente, eterogeneo. Condannando qualsiasi forma di eccesso, servilismo e barbarie, schierandosi strenuamente per gli intramontabili ideali dello studio vero, questa figura generosa, lungimirante e davvero cosmopolita ha dimostrato con la vita e con l’opera quanto bene possano fare a noi stessi e all’umanità intera valori come la moderazione, la libertà di pensiero, la giustizia, la filantropia, la saggezza, la sapienza, la ricerca della Verità.
Note
- Cfr. Montesquieu, Lettere persiane, a cura di D. Felice, Milano, Feltrinelli, 2020.
- J.N. Shklar, Montesquieu (1987), Bologna, il Mulino, 1998, p. 30.
- Cfr. N. Ordine, Il segreto di famiglia del filosofo Hadot, in “Il Corriere della sera”, 28 febbraio 2008, p. 37.
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