Vie per perdere il senso. Ipotesi di lettura su Beckett e Tadini
Giuseppe Nibali, Vie per perdere il senso. Ipotesi di lettura su Beckett e Tadini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 2, settembre/dicembre 2015
«Il significato di un testo è ciò che l’autore ha voluto dire con l’impiego di particolari simboli linguistici. Essendo linguistico, questo significato è pubblico, cioè identico a se stesso e riproducibile in più di una coscienza. Essendo riproducibile, è lo stesso in ogni tempo e in ogni luogo della comprensione. Comunque, ogni volta che questo significato viene costruito, il suo significato per l’interprete (la sua significanza) è differente»1. Queste sono le parole con cui il critico letterario statunitense Eric Donald Hirsch si riferisce alla connessione tra significanza e significato, nel campo minato dell’ermeneutica. Hirsch, nei suoi principali lavori, Validity in interpretation e The aims of interpretation critica, insieme ad Heiddeger e Gadamer, tutti gli altri “atei cognitivi”, ossia i promotori di un metodo ermeneutico atto a vedere l’opera solamente entro lo stretto rapporto che il proprio autore ha con essa. Uno dei nodi che Hirsch cerca di sciogliere è questo: riuscire a distinguere, nell’interpretazione di un testo, tra significato e significanza, tra quello quindi che è il significato voluto dall’autore dell’opera e quello che l’opera finisce per diventare con la rappresentazione che ne fa un lettore. Perdere il senso significa appunto mostrare come quel «fatto di coscienza» che è il significato possa anche avere come fine ultimo se stesso, girare, insomma, a vuoto, questo, infatti, «non è un elefante o un albero che se ne stiano già là, manifesti, come oggetti dall’esistenza data: nella sua realtà indeterminata, il significato non significa niente (o può significare tutto, il che è la stessa cosa) finché qualcuno non intende costruirlo, con un atto consapevole di espressione (la scrittura) o di comprensione (la lettura)»2.
Ed è questo, in ultima analisi, il fine che si propone Hirsch: creare una teoria generale dell’ermeneutica per arrivare a un’interpretazione oggettiva del significato. Per quanto riguarda la significanza di cui parla il critico statunitense, questa può essere accostata a quel concetto di rappresentazione sviluppato da un filosofo della lingua della caratura di Gottlob Frege, considerato da tutti come il padre della logica matematica moderna e della filosofia analitica. Frege, nel suo lavoro chiamato Senso e significato (Über Sinn und Bedeutung), parla a lungo degli elementi da cui le parole e le frasi sono composte: Segno, senso, significato; e riformula il concetto di rappresentazione: quando Frege parla di rappresentazione, e lo fa indagando la parte meno scientifica del suo lavoro, si riferisce a un elemento assolutamente soggettivo, che non deve essere messo alla pari degli altri tre, né deve essere preso in considerazione per un esame scientifico sul significato che, essendo oggettivo, non prescinde né è influenzato dalle rappresentazioni che vengono fatte sull’oggetto dai lettori.
Il senso negato in Samuel Beckett
Fu nel saggio The Theatre of the Absurd dello scrittore Martin Esslin che l’espressione di Teatro dell’assurdo fece il suo debutto nel mondo letterario. Il saggio, pubblicato nel 1961, si proponeva di antologizzare tutti gli autori che negli stessi anni si erano cimentati in percorsi artistici affini a quelli di Beckett, fra gli altri Jean Tardieu, Eugène Ionesco, Arthur Adamov e Georges Schehadé. Per parlare in modo congruo del teatro beckettiano non possiamo esimerci dal raccontare le condizioni storiche nelle quali è nato. Esslin infatti associa nel suo saggio il teatro sperimentale di Beckett e compagni alla filosofia esistenzialista, soprattutto ai concetti espressi da Sartre nei suoi scritti filosofici degli anni 30, riguardo l’assurdità dell’esistenza. L’epoca di Beckett, essendo stata falcidiata dalle guerre, ha ottenuto, come prodotto culturale, una calibrata risposta. Non fu felice la prima reazione che il pubblico del tempo ebbe nell’assistere a “Waiting for Godot”, Carlo Fruttero, nell’introduzione all’edizione Einaudi del ’56, prova a descriverla: «Inesistente l’intreccio, soppressa ogni linea di narrazione, di sviluppo, non viene concesso al pubblico il minimo stimolo a voltare pagina»3. Con precisione ancora più millimetrica lo scandalo del pubblico è stato descritto in presa diretta dalla celebre cronista dell’Irish Times Vivian Mercier, che avendo assistito alla prima, scrisse: «A play in which nothing happens, that yet keeps audiences glued to their seats. What’s more, since the second act is a subtly different reprise of the first, he has written a play in which nothing happens, twice»4.
I nostri due eroi, Estragone e Vladimiro, protagonisti della storia, sono infatti risucchiati in un vortice di assurdi dialoghi in attesa del misterioso Godot. Non si sa bene chi o cosa Godot rappresenti, né il motivo che spinge i due poverini ad aspettarlo. Sono tante, tantissime le rappresentazioni e le ipotesi di lettura ma quello che succede ai due malcapitati, quello che quei due lì in attesa significano davvero, nessuno può dirlo con certezza. La scena è appena abbozzata, è povera, “minimalista”, diversissima dal coevo teatro naturalista dove una ricca scenografia era parte integrante e necessaria della rappresentazione teatrale: «Strada di campagna, con albero. // È sera». E in questa strada di campagna, con niente intorno, si svolge la storia, piena di battute, spesso ridondanti e surreali, che nella maggior parte dei casi girano a vuoto:
«VLADIMIRO: Però, però … Quell’albero … (voltandosi verso il pubblico) … quella torbiera
ESTRAGONE: Sei sicuro che era stasera?
VLADIMIRO: Cosa?
ESTRAGONE: Che bisognava aspettarlo?
VLADIMIRO: Ha detto sabato. (Pausa). Mi pare.
ESTRAGONE: Dopo il lavoro.
[…]
ESTRAGONE: O giovedì.
VLADIMIRO: Come si fa?
ESTRAGONE: Se si è scomodato per niente ieri sera, puoi star sicuro che oggi non verrà.
VLADIMIRO: Ma tu dici che noi siamo venuti, ieri sera.
ESTRAGONE: Potrei sbagliarmi. (Pausa). Stiamo un po’ zitti, se ti va»5.
Se c’è un elemento commovente nella critica questo è proprio il bisogno che la stessa ha dell’ermeneutica, quello cioè di trovare, dietro il fitto puzzle della narrazione, dentro l’intreccio, una via utile all’interpretazione dello stesso, una via, in ultima analisi, che spalanchi finalmente un significato. È però la stessa nota commovente di ogni uomo, di ogni lettore dei testi beckettiani, come scrive Fruttero: «Chi legge non vuol credere che Beckett sia veramente “tutto lì”, si aspetta che da un momento all’altro la sua mano scenda a raccogliere d’un sol colpo tutte le carte sparse, e allora ogni enigma si chiarirà come in un romanzo giallo. Pare impossibile che quelle minuziose descrizioni di oggetti, luoghi, atti, non alludano a qualche altra cosa; i contorni sono così precisi, realistici, l’insistenza, il lavorio di rifinitura sono tali, che il bosco, la bottiglia di birra, il coltello da boyscout finiscono per prendere un rilievo sospetto»6. Ma quelle “minuziose descrizioni”, quegli appigli lasciati al pubblico e che sembrano costitutivi dell’intreccio, che sembrano delle tracce da seguire per una via di interpretazione, per una possibile esegesi ad altro non servono se non a fuorviarlo, o, addirittura, a ingannarlo. Nessuna consolazione quindi, né per la Mercier né per tutti gli altri spettatori che, nel 1953, sedendosi sulle poltrone del Théâtre de Babylone, si aspettavano che tutti i puntini, alla fine, venissero uniti. Nessuna consolazione per la “pancia” del lettore, nessun appiglio, niente che accenni a una fine, allo scoperchiamento di quel fatto di coscienza, che riempie i cuori con una conclusione carica di significato.
Questo non succede, non può succedere e i due protagonisti continuano nei loro dialoghi surreali, nell’insignificanza ontologica in cui, fuori dalla finzione narrativa, Estragone e Vladimiro sono nati e si sono sviluppati. Questo li avviluppa dentro una teca di vetro, dove, come attratti da una forza centripeta essi sono costretti a girare in ruote da criceti, senza una via di scampo. Il loro linguaggio, il significante, è esso stesso insignificante, surreale: «si può dire allora che non è il linguaggio a parlare, ma l’uomo (l’autore) che vuole imporgli un senso»7, ma Beckett, molto semplicemente, priva di senso i suoi personaggi e i loro dialoghi:
«VLADIMIRO: Proprio una bella serata.
ESTRAGONE: Indimenticabile.
VLADIMIRO: E non è finita.
ESTRAGONE: Sembra di no.
VLADIMIRO: Ѐ appena cominciata.
ESTRAGONE: Ѐ terribile.
VLADIMIRO: Sembra di essere a teatro.
ESTRAGONE: Al circo.
VLADIMIRO: Al varietà.
ESTRAGONE: Al circo»8.
È questa una «apertura esplicita»9, in Beckett come, anni prima, era stata in Joyce, al rumore. Il concetto di rumore, di cui parla Eco nel saggio Opera aperta, indica un aumento esponenziale di quel grado minimo di ambiguità che è proprio di ogni lingua, proprio, quindi, della stessa letteratura. Così facendo, l’opera, si apre alle più disparate significanze, perdendo, contemporaneamente, un significato unico. Nello stesso saggio, infatti, parlando di Joyce e Beckett, Eco definisce chiaramente quella che è l’opera aperta, cioè esposta alle più diverse ipotesi ermeneutiche, alle più diverse rappresentazioni, che diventano tutte corrette in mancanza di un unico significato imposto dallo scrittore. Dello stesso avviso, all’interno di una teoria pluralistica dell’interpretazione, è anche Roland Barthes, che è convinto che l’opera, qualunque opera, «possiede più di un senso, per struttura, e non per l’incapacità di coloro che la leggono»10
Essendo infatti il linguaggio, già di per sé, ambiguo, la sua decostruzione non può che contribuire a creare ambiguità, ma questo, in Beckett, non fa che accrescere, paradossalmente, i punti di riferimento, in quanto crea degli appigli, quelli di cui parlava Fruttero, ai quali il lettore inevitabilmente si appende e si riferisce per arrivare al significato, per provare a tracciare tutti i possibili percorsi ermeneutici. Tutto questo non approda da nessuna parte «Non c’è da meravigliarsi che, uscendo dal teatro, la gente si chieda cosa diavolo ha visto»11, perché il semplice fatto di essere dei lettori e degli ascoltatori, il semplice fatto di prendere parte come pubblico ci autorizza a entrare all’interno di quel bisogno di risoluzione del puzzle a cui la letteratura ci ha abituato. Questo il punto di forza, questa la debolezza del teatro dell’assurdo, quel tentativo risolutorio, quel bisogno ermeneutico, si infrange contro un’opera come Aspettando Godot, la significanza che i lettori e gli spettatori vogliono attribuirgli si schianta sul nòcciolo stesso dell’opera, la totale mancanza di senso.
Questo “mancanza” procede con dei dialoghi protratti fino alla caricatura, per esempio nel momento in cui il sopraggiunto Pozzo, alla fine del primo atto, si accomiata dai due straccioni Vladimiro ed Estragone:
«POZZO: ora vi devo lasciare.
ESTRAGONE: Allora, addio.
POZZO: Addio.
VLADIMIRO: Addio.
ESTRAGONE: Addio.
Silenzio. Nessuno si muove.
VLADIMIRO: Addio.
POZZO: Addio.
ESTRAGONE: Addio.
Silenzio.
POZZO: E grazie tante.
VLADIMIRO: Grazie a lei.
POZZO: Non c’è di che.
ESTRAGONE: Ma sì.
POZZO: Ma no.
VLADIMIRO: Ma sì.
ESTRAGONE: Ma no.
Silenzio»12.
Hirsch ci insegna che «convalidare un’interpretazione significa scegliere, tra disparate costruzioni di significato, l’ipotesi più plausibile e legittima»13, avendo in mente, come Reichtert e Booth, un «nucleo immutabile di significato»14, quel nòcciolo di cui parla M.H. Abrams in Behaviorism and decostruction e che individua il significato stesso di un’opera letteraria.
Prendendo per buone le ipotesi di Hirsch e degli altri monisti ermeneutici, quel nòcciolo di significato di cui si parla altro non è, in Beckett, che l’assenza stessa del significato. Si rifletta sulla scena, povera, poverissima, e si pensi a quello che scrisse Bernard Dort sul teatro brechtiano, in particolare sulla sua particolare scrittura scenica: «L’opera è realizzata pienamente in un linguaggio i cui elementi (ogni accessorio, ogni gesto e ogni movimento degli attori) hanno un significato, risultando estranei, pertanto, a qualsiasi intento decorativo. La rappresentazione – quella teatrale – è la più completa spiegazione che si possa immaginare di un testo»15. Così in un testo senza significato, anche le azioni, anche le “cose” con cui devono confrontarsi Estragone e Vladimiro scadono nel nonsense, siano esse una corda, o una scarpa.
Si pensi, come ultimo esempio, alla trilogia di romanzi scritti dall’autore irlandese tra il ’51 e il ’53: Molloy, Malone muore e L’innominabile, opere piene di “rumore”, dove il linguaggio tende costantemente al paradosso alla completa dissoluzione formale. Questa è la distruzione dell’intreccio, del romanzo ottocentesco, secondo la strada del “padre” Joyce, ma seguendo una via quasi opposta, se il primo, infatti, abbraccia più significati possibili, Beckett li nega. Pensiamo soprattutto al terzo romanzo, L’innominabile, dove un protagonista anonimo (l’innominabile, appunto) si lascia andare a un monologo logorroico e senza senso, pieno di ripetizioni, domande aperte, dal quale si evince la presenza di altri personaggi, grazie al quale entriamo forse, come lettori, all’interno del monologo interiore dell’autore stesso, senza punti di riferimento per la trama, povero di segni diacritici, senza significato. La reazione è la stessa descritta da Fruttero, nel teatro come nei romanzi di Beckett: «Si ha l’impressione che Beckett, a casa sua, stia ridendo malignamente alle nostre spalle, mentre con una semplice intervista alla televisione potrebbe chiarire ogni cosa»16.
Del raccontare, Emilio Tadini
«Non me ne importa niente della verità del colore», con questa potente frase di Vincent Van Gogh posta in esergo inizia l’ultimo romanzo di Emilio Tadini: Eccetera pubblicato da Einaudi nell’ottobre 2002, un mese dopo la morte dello scrittore. Questa eccentrica epigrafe non compare subito, nelle prime bozze non è presente, ma è lì, bella in primo piano, nella sua ultima stesura[17]: «Non me ne importa niente della verità del colore». Potrebbe essere questa frase anche il finale di Eccetera, potrebbe essere pronunciata da Mario, il protagonista, commesso in un negozio di colori nell’epilogo della narrazione. Ma quello che più conta è che questa è sicuramente una dichiarazione di poetica da parte dell’autore. Tadini ha una «frenetica voglia di parlare e raccontare»17, così come il suo protagonista Mario che si trova a correre (parola forse troppo grossa) su una utilitaria scassata per le strade della pianura padana insieme ad altri tre ragazzi, da lui ribattezzati Toro Seduto (il guidatore), La Donna del Mare (la sua ragazza) e Filo di Voce (spasimante di Mario), se ne aggiungerà poi un quinto, Quinto, appunto, detto Il Serpente per il suo rapporto di Servo-Padrone con Toro Seduto. Diluiti nei quattro personaggi si riconoscono alcuni tratti tipici dell’“Homo Padanus”, Toro è il nocchiero muscoloso della “carrozza” sulla quale i ragazzi si ritrovano, è stupido e machista; la sua fidanzata, La Donna del mare ama la musica e le discoteche, così come ama il mare; Mario, che è disgustato da Toro, è invece attratto da Samantha (questo il nome della ragazza) perché, e non può essere un caso, è incantato dal suo talento affabulatorio, dal suo modo di parlare: «Il fatto è che ogni tanto lei usa certe parole, e in un certo modo … / Parole italiane, d’accordo, ma invece sembra che usi parole di un’altra lingua apposta per non farti capire o se non altro per farti capire che fra te e lei c’è una bella distanza, la distanza di una lingua come minimo, se capisci quello che voglio dire»18.
La “distanza di una lingua”, è, almeno apparentemente, quella che Tadini mette fra sé e il lettore, già nel titolo infatti, in Eccetera, sembra si annidi quel bisogno primordiale che lo scrittore ha di parlare di altro «perché in eccedenza rispetto alle capacità memorative o elaborative del discorso umano. Tuttavia, come non è difficile notare, la difficoltà verbale, sintattica, veicola una più rilevante difficoltà concettuale. La stessa che Tadini fin dagli esordi ha posto al centro della sua poetica»19.
La locuzione eccetera è il noema del libro, appare sul quarto di copertina, insieme con uno dei protagonisti, sempre lei, la fascinosa Samantha: «Potrei aggiungere: “eccetera”. / Hai notato che io e la Donna del Mare ogni tanto diciamo “eccetera”? / Che sia un segno? / Del resto non è mica brutta come parola, se ci pensi. Vuol dire che sei abbastanza modesto da ammettere che ce la fai solo fino a un certo punto ma anche abbastanza sveglio da capire che il mondo è un bel po’ più grande di te, da capire insomma che devono esserci almeno un altro paio di Americhe più tre o quattro Cine. Bellissime, dietro l’angolo»20. Tadini si spinge verso quel qualcosa di “ulteriore” anche utilizzando quasi una “versificazione”, esprimendo il bisogno di andare a capo senza avere esaurito il margine, come se il suo fosse un pensiero poetico che, una volta espresso, si estende nella mente del lettore fino a inglobare tutto lo spazio grafico. È questa una sua caratteristica che aumenta l’icasticità del dettato, il suo carattere aforistico.
L’intreccio del libro è di per sé risicato: quattro ragazzi che se ne vanno in giro per le discoteche romagnole, con le loro sbronze, con i loro disagi, ma è nel non dato che si trovano le epifanie brucianti di questo romanzo, come se Tadini volesse farci concentrare, prima di tutto, su quello che nel testo manca, o è nascosto dietro le scene, ammassando tutto davanti agli occhi del lettore, e poi terminando la frase con la solita locuzione: Eccetera. Come ha scritto Renato Barilli a tal proposito «pronunciamo questa rapida formuletta quando siamo incalzati dal premere di eventi che comprendiamo di non poter controllare: abbiamo cominciato con un timido elenco, che però si è andato allargando a dismisura, inducendoci a concludere di fretta, appunto con quella parola, sospesa tra chiusura e apertura»21.
Mario è, e volutamente, il nome più comune a cui si possa pensare, un narratore omodiegetico e onnisciente ad un tempo. Come ha scritto brillantemente Paolo Di Stefano nell’articolo in cui ha presentato, per il Corriere della sera, l’ultimo libro dello scrittore milanese: «Qui gli autori preferiti di Tadini, da Céline a Gadda, sembrano darsi appuntamento: e il monologo delirante e concitato fino al termine della notte sembra proprio una ri-cognizione del dolore riveduta e aggiornata negli stessi luoghi, più o meno, frequentati dall’ Ingegnere; c’ è un impeto di rabbia e di sarcasmo che non ammette mezze misure, specie quando entrano in scena l’ “homo padanus” o certe allusioni al costume politico odierno»22. Sono infatti moltissimi gli ammiccamenti a Carlo Emilio Gadda, altro autore lombardo, ci vediamo la stessa ossessione per il significante, la stessa attenzione all’oralità, se l’italiano della Cognizione era visitato dal dialetto e inzuppato nello spagnolo, quello di Tadini è intriso della parlata “padana” dei ragazzi degli anni novanta e del duemila. Ma la frase posta in esergo, quella di Van Gogh, potrebbe anche essere: Non me ne frega niente della verità del significato, perché questo, sia per il Tadini scrittore che per il Tadini pittore, è il nòcciolo. L’opera ci si presenta in modo surreale, pone il protagonista in versione di cantastorie che, quasi come un pagliaccio, espone a un pubblico sempre nominato (il pronome Tu è costantemente presente) le sue avventure nelle discoteche padane, la storia, questa storia, è “raccontata”, ha in sé tutte le finzioni della favola, ne ha l’ambientazione, se ne riconoscono gli archetipi. L’arte “del raccontare” è più volte nominata, Tadini la conosce molto bene, quasi se ne vergogna, nello splendido secondo capitolo (ma chiamarlo capitolo, forse, non è idoneo) chiamato Suoni, significati si lancia in una apologia delle sue menzogne: «Quanto a quelle che chiami assurdità… Padronissimo di non crederci. Ma chi ti ha chiesto di crederci? Se mai, tutto quello che ti propongo è di darmi retta per un po’. Se riesco a beccarti quando sei soprapensiero… anche solo per un minuto… / A parte questo, d’accordo, prendiamole pure per buone, quelle parole. La colpa è mia, l’ho detto. E amen. / D’altra parte, vorrei anche vedere uno che viene a raccontare una storia non si presenti a mani in alto come minimo… / […] / Il fatto è che le parole possono cambiare. / Quello che le parole vogliono dire, può cambiare. / Forse, la cosa in sostanza non cambia mai, o cambia poco, delle parole, è come suonano. / Quella specie di musichetta… / Ti sembra poco? / Ti dico io… / Adesso devo andarmi a truccare»23.
«D’altra parte, vorrei anche vedere uno che viene a raccontare una storia non si presenti a mani in alto come minimo», Tadini sconvolge il puzzle, redige una sorta di avvertenza indirizzata al lettore, simile a quei “Chiarimenti indispensabili” della Cognizione, prima di iniziare il suo pubblico alla storia, presentandosi a mani in alto, senza voler esprimere nessun senso se non quello che selvaggiamente i lettori potranno cogliere, nessun colore, nessuna verità se non la sua personalissima, che infatti infesta la tela, che infesta il racconto. Quello che si evince dal testo è la voglia di Tadini di parlare una lingua attuale, l’oralità entra dentro la sua scrittura, ma questa non strozza né stravolge il dettato, che rimane fedelmente ancorato al reale. Non è un realismo sterile, quello di Tadini, ma l’adeguamento a una società mutevole e coeva, più volte lo scrittore strizza l’occhio al fantastico, al fiabesco, e la stessa avventura può essere definita come una favola contemporanea: «Più volte gli capita di trovarsi di fronte a situazioni tanto eccezionali da sfidare le potenzialità descrittive della parola. E simili situazioni, al limite del fantastico (o pienamente nel novero del fantastico), non mancano durante il viaggio»24, nel linguaggio di Emilio Tadini, il segno «crea una nuova idea di scrittura, che introduce un discorso nel non-discorso, un discorso per immagini»25. Questo discorso per immagini, che si tratti delle perplessità del protagonista riguardo il suo lavoro, che sia il racconto del sogno di Filo di voce, assurdo e surreale, dove possiamo leggere anche il Borges di Finzioni, o le splendide impressioni de “La legione straniera”, la chiodatura di prostitute sulle strade padane, il succo non cambia, «per Mario raccontare rappresenta infatti un complemento indispensabile al vivere, tanto che solo nella verbalizzazione il vitalismo espresso a più riprese (e implicito nella stessa passione di Mario per le discoteche) […] può trovare un freno»26. Così queste visioni spezzano il ritmo della narrazione, la dividono in frammenti creando una sospensione di senso. Così è appunto lo stesso gesto del raccontare, per un lettore che, complice, dia retta alle menzogne e ai brani veritieri, che comprenda e non dia troppa importanza alle sue sospensioni, che non cerchi lì un significato definito, ma che si sieda e ascolti la fiaba che Tadini vuole raccontare, senza aspettarsi una nozione morale, un significato recondito, se non lo svolgimento dettagliato e puntuale di un sogno realistico: «Solo, per piacere, aspetta un momento, non dire subito “saludos amigos”. Dammi ascolto. Non piantarmi lì come un cretino. / D’accordo, magari di’ “Non credo a una sola parola, sia chiaro”. / Ma intanto pensa: “Comunque, stiamo a vedere come va a finire” / Dai!27».
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Note
- Eric Donald Hirsch, The aims of interpretation, Chicago, The University of Chicago Press, 1976, p. 255.
- Federico Bertoni, Il testo a quattro mani – Per una teoria della letteratura, Firenze, La Nuova Italia editrice Scandicci, 1996, p. 87.
- Carlo Fruttero, Introduzione, in Samuel Beckett, Aspettando Godot, Torino, Einaudi, 1956, p. 5.
- Vivian Mercier, The Uneventful Event, in «The Irish Times», 18 febbraio 1956, p. 6.
- Samuel Beckett, Aspettando Godot, Torino, Einaudi, 1956, p. 25.
- Carlo Fruttero, Introduzione, in Samuel Beckett, Aspettando Godot, cit., p. 6.
- Federico Bertoni, Il testo a quattro mani – Per una teoria della letteratura, cit., p. 88.
- Samuel Beckett, Aspettando Godot, cit., p. 46.
- Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1993, p.89
- Roland Barthes, Critique et verité, Paris, Seuil, 1966, p. 50.
- Carlo Fruttero, Introduzione, in Samuel Beckett, Aspettando Godot, cit., p. 11.
- Samuel Beckett, Aspettando Godot, cit., p. 60.
- Federico Bertoni, Il testo a quattro mani – Per una teoria della letteratura, p. 93.
- Ivi, p. 290.
- Bernard Dort, La pratica del Berliner Ensemble, in Bernard Dort, Teatro pubblico, Padova, Marsilio, 1967, p.224.
- Carlo Fruttero, Introduzione, in Samuel Beckett, Aspettando Godot, cit., p. 11.
- Gianni Turchetta, Io quelli che sbadigliano li ammazzerei, Milano, CUEM, 2004, p. 19.
- Emilio Tadini, Eccetera, cit., pp. 101-102.
- Giacomo Raccis, L’opera letteraria di Emilio Tadini – L’œuvre littéraire d’Emilio Tadini, S.l., S.n., 2014-2015, p. 467.
- Emilio Tadini, Eccetera, cit., p. 59-60.
- Renato Barilli, Quelle tele piene di poveri cristi, in «l’Unità», 18 novembre 2002.
- Paolo Di Stefano, Con Tadini al termine della notte, in «Corriere della sera», cit., p. 35.
- Emilio Tadini, Eccetera, cit., p. 7
- Giacomo Raccis, L’opera letteraria di Emilio Tadini – L’œuvre littéraire d’Emilio Tadini, cit., p. 463.
- Silvia Pegoraro, Emilio Tadini: per una poetica della fiaba, in Emilio Tadini, La fiaba della pittura, a cura di M. Bianchi, Pagine d’arte, Capriasca (Svizzera) 2001-2002, p. 76.
- Giacomo Raccis, L’opera letteraria di Emilio Tadini – L’œuvre littéraire d’Emilio Tadini, cit., pp. 462-463.
- Emilio Tadini, Eccetera, cit., p. 138
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