Ricordando Ezio Raimondi, maestro ideale
Maria Raffaella Cornacchia, Ricordando Ezio Raimondi, maestro ideale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 5, settembre/dicembre 2015
«Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico»
(G. Pascoli)
Lettura e lezione come dialogo ed esperienza
Il 18 marzo 2014 è morto Ezio Raimondi, a lungo titolare della cattedra di letteratura italiana presso la facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, filologo di fama mondiale, critico letterario originale e versatile. Di origini umilissime, non può che essere proposto come modello positivo ai giovani di fronte alle incertezze e alle inquietudini – lavorative ed esistenziali – di questo tempo di crisi: egli ha dimostrato che, con la volontà, lo studio e l’intelligenza, anche il figlio di un ciabattino – come nelle fiabe – può ottenere il successo professionale e il pieno riconoscimento dei suoi meriti.
Maestro per formazione (frequentò l’istituto magistrale “Laura Bassi” di Bologna), per molte generazioni diventò Maestro (con la maiuscola) di lettura, di conoscenza e di amore per lo studio, e non solo dei classici italiani.
E fu Maestro anche mio, non solo o non tanto come professore all’università, ma soprattutto in anni più adulti, quando meglio ho capito il senso del suo insegnamento, al di là della preparazione per gli esami.
Ricordo dunque in primo luogo ciò che imparai subito da lui: l’importanza della presenza scenica quando si vuol trasmettere qualcosa agli altri. Le sue lezioni erano puro teatro: percorreva con lunghi passi delle sue lunghissime gambe la vasta aula universitaria dove si stipavano centinaia di ascoltatori («a che anno sei?» «oh, non faccio lettere, ma medicina: sono solo venuto ad sentirlo, dicono sia divertente!»); dimenava come flessibili rami di pino le sue spropositate braccia, e intanto la voce si abbassava talvolta, diaframmatica e nasale, o si elevava bruscamente, facendoci sussultare tutti. Quello che diceva, quello che leggeva, prendeva così corpo e carne, risonanze inattese che poi non si sarebbero più cancellate, che sento riecheggiare involontariamente nella mia voce, eredità forse sbiadita ma pronta a riaffiorare inaspettata, come certe espressioni del volto che sembrano quelle di un avo noto solo dalle fotografie.
Ricordo poi lo sgomento, seguendo le sue lezioni, di fronte alla vastità immemorizzabile e ancor oggi per lo più inaffrontabile di citazioni, riferimenti e rinvii a opere di ogni genere – letterature diverse, filosofia, antropologia, storia della scienza, psicologia, matematica eccetera eccetera: trecento, quattrocento libri per ogni corso annuale… che faccio? studio tutti i rimandi a memoria? ma che senso ha? mi chiedevo infastidita. E certe affermazioni che suonavano così astruse! «In una visione organizzata dell’universo, tutte le cose sono in permanente relazione e già vi è una forza dell’altezza, che più di ogni altra forza contribuisce a questo senso di unità organizzata dell’universo, che è l’immaginazione, fondatrice di unità di altezza», ci diceva (riporto testualmente dalle dispense universitarie) alla prima lezione di un suo corso monografico.
E forse parrà così anche a tanti studenti liceali – i nuovi «compagni di scuola» di Raimondi! – oggi, mentre seguono le loro lezioni. Però, ecco, questo io l’ho capito molto più tardi, e proprio grazie a lui: c’è uno studio «in profondità» e uno «in ampiezza», e si sostengono l’uno con l’altro. Ma senza l’ampiezza – la curiositas – la profondità diventa nozione ed erudizione; senza l’ampiezza navighiamo sempre sottocosta, ma alle Americhe non ci arriveremo mai. E forse non ci arriveremmo comunque – non tutti diventano Maestriconlamaiuscola – ma sarà pur bello essersi spinti «per l’alto mare aperto»…
Dunque, la lettura, le letture, anche se accumulate caoticamente (forse a volte proprio in forza di ciò) ci offrono un po’ per volta uno scorcio sulla vastità e la complessità dell’universo, e l’ordine ce lo possiamo mettere noi, anche molti anni dopo, con la nostra immaginazione e la nostra sensibilità.
Ricordo infatti Raimondi che declamava: «la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualche cosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva che può valere anche un atto d’amore». E questo atto d’amore ci fa sentire meno soli, ci trasforma in «un io che va alla ricerca continua di un noi».
La fisicità della lettura, l’incontro dialogico col testo: ma che senso hanno, se rimangono confinati tra le mura dello studio di un erudito?
Ecco, ricordo infine il senso della scuola, cioè il senso del dialogo tra generazioni, come me l’ha insegnato Raimondi, un 25 novembre di agitazioni studentesche di quasi vent’anni fa: «Perché facciamo queste cose? Nella scuola il perché spesso è stato abolito, e ho la sensazione che i giovani si portino dietro i loro perché, aspettando a un certo punto di metterli a confronto con qualche risposta. Il guaio è che per avere una risposta bisogna fare dei nuovi perché, quindi la vera risposta è un incontro, probabilmente, tra i vari perché, e non è un gioco di parole… E solo a questo titolo si giustifica una lezione: se non ci fosse, questo si potrebbe registrare tutto, metterlo a livello televisivo, ma non ci sarebbe più il faccia a faccia. È una cosa più importante di quanto non paia: una voce, per essere efficace, deve giocare sul faccia a faccia… Dunque, il guardarsi in faccia è la vera condizione del dialogo, cioè del cominciare a parlare e del passare all’altro delle esperienze, e farne in proprio… non si tratta solo di trasmissione di un sapere, è trasmissione di un’esperienza e, in quel momento, chi insegna è alla pari con chi ascolta: sono tutti e due insieme in un’esperienza comune».
Come tributo di riconoscenza personale, convinta che la sua parola, vigorosa e originale, possa ancora regalare ai giovani sorprese e curiosità testuali, ho pensato di riprodurre brevissimi ma illuminanti stralci di alcune sue lezioni, trascrivendone fedelmente la forma colloquiale originaria.
Don Abbondio: un prete mafioso senza peli sulla lingua
Una lettura creativa si misura direttamente col testo e con le sue difficoltà, entra nelle sue leggi di composizione, sta al gioco del testo. Oggi, qualche volta, si crede che il creativo consista nel dimenticare le regole del gioco del testo. No. Le regole del gioco bisogna assumerle e attraversarle: lasciarle da parte porta ad un incontro con un fantasma che ci siamo costruiti a nostro uso e consumo, ma non con il testo con tutte le sue difficoltà. Per questo capita spessissimo che si legga un testo, lo si frequenti per anni e anni e…
Manzoni è forse di tutti gli scrittori italiani il più disgraziato, perché è quello più avvilito dalla nostra esperienza scolastica e anche dai nostri pregiudizi sociali. Certo la nostra scuola è una falsificazione implacabile. Andrebbe detto, ma è materia molto complicata, che in questo caso la scuola realizza anche dei programmi sociali: in quanto lo scrittore più critico della nostra società è lo scrittore che meno si interpreta come critico della nostra società.
Non ci sono dubbi: Sciascia più volte, anche in tempi recenti, ha citato dei pezzi del Manzoni per dire che erano altrettanti commenti a quello che sta accadendo oggi. Come dire che c’è una materia infiammata di cui però noi abbiamo un certo sospetto, e vogliamo tenerci un poco a distanza. È vero che un grande scrittore e critico come Hoffmannstall, un austriaco di origine italiana, nei primi decenni del Novecento disse: attenzione, gli italiani non se ne rendono più conto, ma questo libro, che sembra che parli solo di preti, è un libro, invece, terribilmente laico, perché il gaglioffo, cioè il cattivo, è un prete, don Abbondio.
Chi è di noi che ha cercato di fare i conti con don Abbondio? Chi lo ha letto come il grande personaggio del conformismo? Noi lo leggiamo sempre in un’altra chiave: è un complice della mafia. Ci è mai stato detto a scuola che “bravo” in milanese si dice “bulo”? Perché il Manzoni, quando parla dei personaggi che ci sono intorno a don Rodrigo e all’innominato dice “la loro famiglia“? non parliamo ancora dell’ “onorata famiglia”?
È dunque una lingua molto più accesa di quello che sembra. E don Abbondio parla in modo straordinario, pieno di proverbi, ha una lingua molto concreta, perfino volgare. Quando incontra i bravi, tutto preso dalla tremarella, dice: «ah, ma questi giovani i pasticci li fanno per loro conto, poi però tocca al parroco». Ma cosa sono i “pasticci”? Gadda, un lettore che sente bene, dice: sui pasticci non ci sono dubbi, questo è il curato brianzolo con la goccia sotto il naso, che sta dicendo, abbastanza volgarmente, che Lucia è incinta e che quindi il parroco li deve sposare su due piedi. E infatti, poco dopo, quando don Abbondio parla con se stesso, ce l’ha con Renzo e dice: “questo tale poi il bruciore addosso se lo deve tenere; la sua morosa…”. È Manzoni, badiamo bene, che dice così: la sentono subito la lingua molto concreta, molto quotidiana. Don Abbondio è un inventore verbale senza pari, non fa altro che parlare per proverbi. Prima dei Malavoglia c’è già I promessi sposi,che è un romanzo per certa gente fatta solo di proverbi.
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