Attraverso i muri. Storie al tempo della pandemia
Andrea Broglia, Attraverso i muri. Storie al tempo della pandemia, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 17, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9816
Al braccio alzato del carabiniere che intimava l’alt misi la freccia e accostai l’automobile nei pressi della pattuglia; la strada deserta, lo sfarfallio delle prime luci della sera. Spento il motore, un silenzio spettrale.
Era la seconda settimana di aprile del 2020, gli italiani da un mese vivevano un’esperienza mai vissuta; il lockdown e la pandemia avevano trasformato completamente la vita di ciascuno. Tra me e il militare le espressioni non verbali erano dimezzate dalla mascherina, ma c’era una calma quasi irreale, una gentilezza naturale, la stessa situazione che avevo trovato arrivando a New York un mese dopo l’11 settembre. Certo dovevano controllare i miei documenti che mi autorizzavano a circolare, ma il desiderio più grande era scambiare finalmente due chiacchiere con qualcuno.
Con un cenno della mano il brigadiere mi fermò mentre stavo recuperando il tesserino dei giornalisti dalla tasca interna, e subito attaccò discorso. Venivo dall’ospedale di Baggiovara, alla periferia di Modena, dove, insieme a Daniele Ferrero, il regista, avevo registrato le prime storie. I due carabinieri erano molto interessati, volevano ultime notizie, sapere cosa dicevano i medici, qual era la situazione nei reparti di terapia intensiva. All’ospedale ci aveva accolti il responsabile della rianimazione, il dottore Andrea Marudi, portandoci fino alla soglia della zona rossa; lì avevamo messo le nostre telecamere, su un balconcino dove si affacciava una porta che si apriva solo dall’interno, collegata alla terapia intensiva. Man mano erano usciti i medici, gli infermieri, gli oss e gli addetti alle pulizie. La primaria, la dottoressa Elisabetta Bertellini, aveva capito subito l’importanza di quello che stavamo facendo, la necessità di raccogliere ‘a caldo’ i vissuti di tutti quelli che erano impegnati in prima linea, senza gerarchie. Smarrimento, paura, senso di impotenza davanti alle tante morti: eppure prevalevano tenacia, volontà, dedizione.
Beatriz Alvaro, spagnola, due grandi occhi dolci, innamorata dell’Italia e di un italiano, madre di una bimba di 4 anni lo racconta con parole semplici: “Sia io che il papà siamo due infermieri, facciamo i turni opposti per stare con lei, quindi o c’è l’uno o c’è l’altro… nostra figlia, anche se ha solo quattro anni, sa cosa facciamo come mestiere, sa che sacrifici facciamo, siamo dei genitori che stanno cercando di aiutare gli altri, no? E questo credo sia un bell’esempio…Spero che in un futuro lei si ricordi di questo periodo.”
Antonio Damasio, uno dei più grandi neuroscienziati contemporanei, ha scritto1 come i sentimenti siano anch’essi motori dell’evoluzione: ““La ricerca strategica della felicità si basa sui sentimenti… senza i sentimenti non vi sarebbero motivazioni. L’esperienza del dolore e la chiara coscienza dei nostri desideri hanno portato i sentimenti, buoni o cattivi, a convergere sull’intelletto, gli hanno dato uno scopo, e l’hanno aiutato a creare nuove modalità di regolazione della vita.” Mai come in quest’esperienza abbiamo trovato conferma a queste parole. Il segreto dei sentimenti, infatti, è la loro natura ibrida: la caratteristica di raccogliere in un solo mazzo, in una sola impressione, tanto le rappresentazioni del mondo che è fuori di noi, quanto quelle del corpo e del mondo interiore. Quest’empatia che l’uomo sviluppa per i suoi simili genera comportamenti straordinari, come la dedizione di coloro che hanno combattuto in prima linea il covid 19 per aiutare i loro simili, rinunciando a vedere i propri cari, vivendo separati dalla famiglia, ogni giorno a contatto con un male sconosciuto, sottoposti a profondo stress.
Come Domenico Napoli, operatore sanitario presso la Residenza per Anziani “La Pineta” di Torino. Per tre mesi ha scelto di rimanere nella Rsa senza mai tornare a casa, accanto ai suoi vecchi, per non abbandonarli, per accudirli fino all’ultimo istante, per non farli finire a morire in ospedale. Otto operatori su dodici erano a casa malati per covid, Domenico si è ricavato una stanza al pianterreno e non ha mai mollato, neanche quando ha dovuto passare una notte con un cadavere nella stanza accanto, chiuso in quel sacco a cui erano costrette le salme di persone decedute per il virus. “Allora, detto crudo crudo, ne ho visti tantissimi decessi in questi anni – racconta Domenico – Ho composto tantissime salme, ne ho viste di morti, ma la gestione della salma covid mi ha toccato. È stata un’esperienza che mi ha segnato profondamente… gestire la salma covid vuol dire togliere la dignità a una persona.” Quel sacco è rimasto nella memoria di molti. Ce lo conferma Michele Zito; per settimane ha lottato tra la vita e la morte. Un suo compagno di camera è invece morto dopo una notte tormentata e il giorno dopo Michele ha assistito al suo trattamento: “…a un certo punto arriva un addetto della camera mortuaria con un telo che dispiega su una barella. Mette la persona all’interno di questo sacco… e micidiale è il rumore della cerniera che percorre i due metri per chiudere questo sacco… pure adesso ho la pelle d’oca a pensare a quei momenti.” Un brivido l’ha provato anche il maestro Angelo Pacchiana quando in ospedale si è collegato, grazie ai social, con i suoi alunni: “…io avevo lo scavo di 18 chili persi in pochi giorni ma i bambini questo non l’hanno percepito, hanno percepito solo il loro maestro Angelo davanti agli occhi e la profondità del loro mondo interiore mi ha ridato vita e speranza. Ho ripreso nella grande sofferenza a sorridere alla vita e a tessere speranza. Ho la pelle d’oca”. Angelo ha voluto parlare di suo padre, nonno Celso. Ci ha mostrato la sedia che prediligeva, i suoi attrezzi, la sua capacità di creare con le mani e pochi strumenti. Nonno Celso era un ponte fra le generazioni; questi ponti sono crollati, in certe zone del nord Italia una generazione se ne è andata. Angelo vive al piano di sopra nella stessa casa dei genitori a Nembro, in val Seriana, uno dei paesi più flagellati durante la prima ondata della pandemia. A fine febbraio si sono isolati dal mondo; si facevano lasciare la spesa sull’uscio e hanno preso tutte le precauzioni possibili. Eppure due mesi dopo uno dopo l’altro Angelo e i suoi genitori si sono ammalati e nonno Celso non ce l’ha fatta. “A Nembro – ci ha detto Angelo – il virus o era dentro di noi o passava attraverso i muri…”. Una frase che ci ha colpiti tanto da diventare il titolo del progetto che abbiamo realizzato. In un anno e mezzo di lavoro, Mneo – Archivio Italiano della Memoria ha raccolto 190 storie e ha deciso poi di produrre una docuserie e un lungometraggio, “Attraverso i muri, storie al tempo della pandemia”, trasmesso il 19 marzo in prima serata da Rete4 (è disponibile alla visione, gratuitamente, sulla piattaforma Mediaset).
Raramente il materiale che raccogliamo per l’Archivio di Mneo viene poi rielaborato per creare un documentario; questa volta l’abbiamo ritenuto necessario, per due motivi. Il 55° rapporto del Censis2 recita in apertura: “L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste…”. E questo accade a infezione ancora in corso e possiamo quindi immaginare che numeri avremo fra qualche anno. I documentari prodotti da Mneo, basati sulle testimonianze dirette e senza alcun commento raccolte tra aprile 2020 e luglio 2021, rappresentano quindi una prima risposta a questo fenomeno che temiamo in crescita. Inoltre il trauma vissuto da tutti, anche se con intensità diverse, non può essere semplicemente rimosso senza essere rielaborato. Occorre parlarne, portar fuori i vissuti, ascoltarci. Siamo convinti delle parole di Stefania Sacchezin, psicologa dell’associazione Emdr, specializzata in traumi, che ha assistito il personale medico e paramedico profondamente traumatizzato dalla violenza della pandemia: “…noi sappiamo che le comunità che sono riuscite a costruire un senso sulle grandi tragedie sono anche quelle che poi sono diventate resilienti – ci ha detto – Chi ha omesso, sottratto, nascosto e non ha fatto memoria non è poi stata una comunità così resiliente dal punto di vista anche storico e sociale.” A questo crediamo che servano i nostri documentari.
Il trauma l’abbiamo percepito a ogni incontro. Roberto Goisis3 psicologo milanese che si è gravemente ammalato di covid, durante la registrazione della sua testimonianza si è sfogato in più momenti, non riuscendo a trattenere le lacrime. Mesi dopo, all’anteprima del nostro lungometraggio al cinema Anteo di Milano, Roberto è intervenuto per raccontare come quell’incontro con noi gli ha permesso di superare il trauma. “Ero congelato, quando ho raccontato la mia vicenda ad Andrea mi sono liberato, è stato come essere dal mio psicoterapeuta”. E detto da uno psicoterapeuta…
In molti ci hanno ringraziato alla fine dei loro racconti. Esternare la propria storia ha permesso loro di portar fuori il dolore. Oliviero Valoti, direttore dell’UOC Anestesia e Rianimazione Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha vissuto in prima linea la battaglia contro l’onda di tsunami e troppe volte è stato obbligato a scelte che non avrebbe mai pensato di dover fare, decidere chi salvare fra due pazienti poiché gli strumenti a disposizione mancavano. Le cosiddette C-pap, caschi che erogano un flusso d’aria a pressione costante, non erano mai sufficienti. “E quindi ho dovuto fare una scelta – dice Oliviero Valoti – e così parecchie volte anche i miei colleghi hanno dovuto fare queste scelte, dire all’infermiera “guarda, il paziente tal dei tali viene fuori da una storia di linfoma, ha 82 anni, non la passa questa situazione. Per cui togligli il casco, lo mettiamo in sanificazione e lo mettiamo a questo”. Così abbiamo fatto. Mi sono armato di una siringa di morfina, sono andato da questo paziente. Scusate (pausa in cui piange, ndr)… e lui si è meritato la morfina.”
Bergamo e le sue valli sono state colpite duramente dalla prima ondata e per questo motivo abbiamo lanciato un’iniziativa straordinaria tra giugno e luglio del 2020. In accordo coi sindaci Giorgio Gori di Bergamo e Claudio Cancelli di Nembro, abbiamo organizzato quelle che noi chiamiamo “scatole della memoria”, ovvero strutture effimere poste nella piazza principale dei due centri, che per tre giorni sono state a disposizione dei cittadini che volevano depositare la propria memoria sulla pandemia. Abbiamo così raccolto altre storie oltre a quelle che avevamo ricercato nel corso della nostra campagna ‘MNEO4COVID’. Un arricchimento che ci ha convinti a ripetere in futuro quest’esperienza. Il racconto più toccante ce l’ha donato Maria Pelliccioli, moglie di Stefano, morto a causa del covid. Un giorno alla sua porta ha bussato un signore chiedendo della famiglia di Stefano. Maria gli ha risposto “sono io la sua famiglia, perché non abbiamo figli”. E quest’uomo le ha consegnato il diario dei suoi giorni trascorsi in camera con il marito defunto. Maria ce l’ha voluto leggere.
Una testimonianza così forte che abbiamo deciso di inserirla a chiusura del lungometraggio “Attraverso i muri” e che suggerisco di vedere e ascoltare.
Qui in nota4 l’estratto.
Nel nostro viaggio siamo stati in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Campania e proprio a Sorrento abbiamo incontrato Gennaro Arma, il comandante della Diamond Princess, la nave da crociera che ai primi di febbraio del 2020 è diventata la prima zona rossa al di fuori della Cina. Bloccata al largo del Giappone in una situazione eccezionale: 4000 persone da gestire potendo sbarcare solo i malati, con migliaia di persone rinchiuse nelle proprie cabine. Per Bibliomanie proponiamo questo montato in anteprima. Aggiungo solo che alla fine del racconto ho chiesto a Gennaro Arma, fuori onda, se quando scese dalla nave il 3 marzo 2020 fosse stato contattato dall’Italia da qualche autorità per informarsi sulle procedure adottate per evitare il propagarsi del contagio e sui casi affrontati. Il comandante ha sorriso e mi ha risposto che solo un giornalista americano gli aveva rivolto questa domanda. Nessuno dall’Italia si prese l’onere di consultare Gennaro Arma. Eppure 5 giorni dopo in Italia sarebbe scattato il lockdown. Sulla Diamond Princess avevano già scoperto che c’erano persone asintomatiche, avevano stabilito la necessità di creare percorsi differenziati, separando le aree ‘sporche’ da quelle ‘pulite’. La stessa distrazione si è ripetuta con le ong che operano nei territori dove nel recente passato si sono sviluppate epidemie importanti, come quella di Ebola in Sierra Leone. Eppure, come ci hanno riferito a Emergency, nessuno si è preoccupato di ascoltare queste realtà che avevano già esperienza o lo si è fatto troppo tardi. E così gli ospedali sono stati i primi centri di diffusione del virus.
Quando abbiamo progettato la docuserie, abbiamo pensato di dividere la narrazione in grandi capitoli il cui tema sarebbe stato interpretato da un’artista. Dispnea, sugli effetti tremendi della malattia, rappresentato da Roberto Tedesco dell’Aterballetto. Apnea, sull’esperienza di chi ha vissuto in prima linea la battaglia contro il covid interpretato dalla compositrice e pianista Katia Pesti. La forza della comunità, in cui si è visto come la solidarietà e il senso di comunità siano stati decisivi nell’affrontare la pandemia, riletto dallo street artist Millo attraverso un grande murales realizzato a Nembro. Naufraghi, per raccontare la tragedia dal punto di vista delle famiglie, allontanate dai propri cari e impossibilitati a celebrarne i riti funebri, è contrappuntato dalla creazione in ceramica dell’artista Elisa Muliere. E infine l’ultimo capitolo, Sull’orlo del precipizio, ancora in fase di montaggio, dedicato agli effetti del lockdown, che avrà nel funambolo Andrea Loreni il suo interprete.
Il tema dell’ultimo capitolo è altrettanto doloroso. I più deboli sono stati le prime vittime, ma in realtà l’isolamento e la paura hanno sicuramente ferito una larga fetta di popolazione del nostro Paese. Ce lo hanno confermato i medici e gli psicologi che si occupano di adolescenti, dove si sono quadruplicati i suicidi e sono aumentati in termini esponenziali fenomeni patologici, come bulimia e anoressia, autocutting e hikikomori5. La Dad e l’obbligo del distanziamento hanno penalizzato bambini autistici e portatori della sindrome di Down. Ci siamo occupati dei carcerati, di cui ricordiamo le violente rivolte durante il primo lockdown, delle donne vittime di maltrattamenti familiari costrette a convivere con i loro persecutori, dei più piccoli, privati delle relazioni sociali, dei pazienti psichiatrici che abitano nelle case alloggio, dei minori emigrati clandestinamente in Italia poco prima dell’inizio della pandemia, dei ragazzi che avendo entrambi i genitori ricoverati non avevano altre possibilità di alloggio e tutela. E infine l’enorme crescita dei ‘nuovi poveri’: siamo partiti dal paradosso del comune più ricco d’Italia, Basiglio, alle porte di Milano, dove improvvisamente i volontari della Croce Verde, come ci ha raccontato Carlo Visconti, hanno dovuto iniziare a consegnare pacchi di aiuti alimentari a oltre duecento famiglie. Si trattava perlopiù di badanti, colf e addetti alle cucine e ai bar; tutti evidentemente trattati in nero, senza alcuna protezione, precipitati improvvisamente nella povertà, i cosiddetti invisibili. Marco Latrecchina, responsabile del progetto di Emergency ‘Nessuno escluso’ ci ha raccontato: “…Mi hanno detto: “guarda c’è qualcuno per te”. Questo è un ufficio operativo da cui gestiamo le operazioni sul campo, sull’Afghanistan, sull’estero; non siamo abituati a vedere persone beneficiari. Li vediamo sul campo, no? Era una signora vestita bene, credevo volesse lasciare il curriculum, volesse offrirsi come volontaria. È scoppiata a piangere e ci ha detto: “Io non ho mai dovuto chiedere aiuto a nessuno, ho sempre lavorato”. Lei lavorava come lavapiatti per un ristorante a giornata, il marito lavorava nell’edilizia, erano tutte e due fermi a casa. Hanno tirato la cinghia per un mese e mezzo; a un certo punto, quando hanno finito la carta igienica, vergognandosi molto, hanno dovuto chiedere aiuto.” Emergency, a Milano, ha coordinato il lavoro spontaneo di gruppi nati sul territorio, centri sociali e gruppi di volontari, costituitisi in brigate, giovani ventenni che grazie a un’organizzazione capillare sono stati in grado di intercettare le esigenze di migliaia di famiglie dimenticate dalle istituzioni. Non solo per fornire cibo, ma anche supporto psicologico, attività per i più piccoli, assistenza agli anziani. “Abbiamo anche ricevuto chiamate di persone che minacciavano di suicidarsi al telefono e quindi potete immaginare che non è sicuramente una situazione gestibile nella normalità…” ci ha raccontato Raja Quouanin, della Brigata Lena Modotti di Milano. L’operazione si è estesa anche a Napoli. Anche qui famiglie che si erano sempre arrangiate, costrette a umilianti richieste di aiuto. “… Mi è capitato più volte di trovare persone che prendono il pacco che noi consegniamo e ci chiedono di fermarci e spostare i prodotti – dice Peppino Fiordelisi, responsabile della sede napoletana di Emergency – All’inizio noi non riuscivamo a capire, poi ci siamo resi conto che in realtà lo fanno perché provano vergogna a uscire con il pacco in mano e far capire alle altre persone che sono, che hanno chiesto aiuto…”. Centri che sono diventati l’ultimo rifugio nelle città sempre più deserte, come testimonia Federica Bosi, dell’associazione culturale Villa Pallavicini di Milano: “…È arrivato qui da noi un ragazzo che conoscevano bene, perché aveva fatto varie attività con noi, che era rimasto tre notti prima senza casa, ed era un ragazzo della mia età, italiano. È rimasto senza casa, ha avuto una specie di break down psicologico, senza casa, senza famiglia, senza fidanzata e senza lavoro nel giro di tre giorni. Quindi erano tre giorni che vagabondava per Milano.” Vagabondi. Proprio da uno di loro, Davide Chiarolanza, un clochard (“Siamo in Italia, io sono un barbone…”) era iniziato il nostro lavoro. La storia numero zero, così l’abbiamo chiamata. Nel momento in cui il primo ministro ci imponeva un necessario “Tutti a casa!” ci siamo chiesti come potesse fare chi la casa non c’è l’ha, un homeless. “Qui sei in strada 24 ore su 24. Devi studiare come trovare da mangiare, dove andare a dormire, dove lavarti, dove cambiarti – racconta Davide – Devi sempre stare in piedi e passeggiare ma oh! Ma se non c’ho neanche la casa come faccio sempre a passeggiare?” Per lui i bagni pubblici erano chiusi, così come le biblioteche dove andava a leggere il giornale e a caricare il telefonino. Gli amici che incontrava nei pub, disposti a offrirgli da bere o per allungargli una sigaretta, erano spariti. Restava solo la polizia a intimargli di andare a casa! La solitudine piano piano ha invaso la vita di tutti, ma qualcuno ha pagato un prezzo altissimo.
Note
- Antonio Damasio “Lo strano ordine delle cose” Adelphi 2018 e “Sentire e conoscere” Adelphi 2022.
- Rapporto Annuale Censis, Roma, 3 dicembre 2021.
- Pietro Roberto Goisis- Angelo Antonio Moroni “Lock-mind. Due diari dalla pandemia” Enrico Damiani Editore 2022.
- Estratto della lettura di Maria Pelliccioli: “A Stefano. Questo è il suo letto, il comodino e l’armadio col numero 30 è libero, sistemi le sue cose e si metta a letto, torneremo fra poco”. Ho un compagno di stanza, imparerò poi che si chiama Stefano. Un po’ più grande di me. Un po’ di problemi più grandi dei miei. Mi guarda attraverso le fessure delle sponde del letto, ha la maschera per l’ossigeno che fra poco metteranno anche a me. Vedo solo i suoi occhi, mi fa un cenno di saluto, ricambio con un gesto della mano. Prima di uscire dalla stanza l’operatore sanitario me lo affida: “noi facciamo accessi periodici, ma se ci fosse bisogno suoni il campanello per lui perché non è in grado”. Lo farò per i giorni e le notti successivi, parola. Lui annuisce sbirciando fra le sponde del letto. Ho l’impressione che sia contento di questa cosa, lo sono anch’io. È buio, dopo uno spazio di tempo per me è troppo lungo arrivano gli operatori. Con cura ed attenzione sistemano Stefano per la notte, io osservo, gli parlano, si raccomandano affinché faccia il bravo e cerchi di dormire. Capisco che non li rivedremo più fino al mattino. Sono le 21:30, la notte che ci guarda dalla vetrata si preannuncia lunga, spengono le luci. “Buonanotte Stefano”. Non ottengo risposta Ho dormito per non so quanto; ricordo gli occhi che bruciavano e che alla fine ho chiuso con piacere. Albeggia, Stefano durante la notte si è tolto il camicione e ha fatto a brandelli il pannolone. Come aveva fatto visto che è contenuto? Dorme senza affanni, vorrei coprirlo ma ho paura di svegliarlo e lo lascio così, meglio. Fatico a respirare dopo aver fatto igiene personale; mi metto a letto e indosso la maschera dell’ossigeno, meglio, devo stare attento. La porta della stanza sbatte contro la parete poiché è stata aperta e spinta col carrello medicale. “Buongiorno ragazzi!” Un’esuberante operatrice sanitaria fa il suo ingresso nella nostra stanza, dove da 12 ore regnava il silenzio. “Buongiorno Stefano, come va? Hai dormito? Ma, ma che cosa hai fatto stanotte? Ma guarda come sei ridotto. Ma dove sei stato? Mangia poco, probabile che abbia altri problemi oltre al coronavirus che ci accomuna. La giornata passa succhiando ossigeno come fossimo poppanti al seno della mamma. Viene buio Stefano si addormenta, qualcosa lo disturba notevolmente, i lamenti di Stefano non cessano, mi stringe il cuore, chiamo, mi dicono al citofono che sono in un’altra stanza e che bisogna resistere ancora per una mezz’ora. Alla fine arrivano, Stefano viene sistemato per bene, ma soprattutto gli viene somministrato un calmante che permetterà a lui e anche a me di passare decentemente il resto della notte. Un cenno di saluto, alle prime luci del nuovo giorno incrocio un sorriso di Stefano con un movimento del capo che vale più di mille parole. Stefano sta sempre peggio. La fuliggine appena fuori dalla vetrata si fa sempre più fitta, il rumore della serratura che apre la porta della stanza stamattina annuncia la visita medica ultimativa che mi restituirà alla mia vita, alla mia famiglia, ai miei affetti. Devo andare Stefano, anche tu devi andare, lo sai. Abbiamo fatto un po’ di strada insieme con sofferenza. Grazie Stefano. Ci vediamo, Giacomo”. Bella vero? Questo è quello che mi rimane di mio marito, però devo dire, grazie a questo signore che me l’ha consegnato. È il più bel regalo che poteva darmi (si commuove, ndr). Il più bel ricordo di mio marito. Lo ringrazio tanto
- Hikikomori: Questo termine nasce per definire un fenomeno caratterizzato principalmente da ritiro sociale (social withdrawal) e una volontaria reclusione dal mondo esterno. La vita dei giovani hikikomori si svolge pertanto all’interno della loro casa o camera da letto. Le uniche interazioni con l’esterno avvengono attraverso internet, attraverso l’utilizzo di chat, social network e videogame. Abbiamo intervistato lo psicoterapeuta dott. Antonio Piotti, uno dei massimi esperti del fenomeno nato in Giappone e ora diffuso anche in Italia, specialmente dopo il secondo lockdown.
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