Note sulle pratiche terapeutiche consuetudinarie in Rwanda tra colonialismo e seconda repubblica
Chiara Torcianti, Note sulle pratiche terapeutiche consuetudinarie in Rwanda tra colonialismo e seconda repubblica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 19, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9820
1 Introduzione1
Gli studi africanistici negli ultimi decenni hanno riconosciuto nelle pratiche cosiddette consuetudinarie, sviluppate in contesti tradizionali, punti di vista privilegiati per cogliere la portata del più ampio mutamento sociale. In questo contesto interpretativo, gli strumenti propri della storiografia, quali le fonti d’archivio, entrano in dialogo con quelli offerti da antropologia della cura, sociologia, subaltern studies. La ricerca, che sarà illustrata brevemente in queste note, si propone di cogliere le dimensioni storiche cui partecipano le eterogenee prassi di cura, rilevate per la prima volta in Rwanda a inizio Novecento dai missionari, ma agite sino agli sgoccioli del “secolo breve”. Proprio alle relazioni dei Padri Bianchi, uno dei perni dell’indagine, emerge l’intuizione, seppur non scientificamente orientata, che esse fossero linguaggi e serbatoi di credenze tanto duttili quanto persistenti. Queste pratiche infatti possono essere lette come spazi simbolici di incontro tra individuo e società, tra le comunità dei vivi e degli spiriti, ma anche aperti all’espressione delle istanze del singolo. Pertanto, esse sono al tempo stesso manifestazione e motore del mutamento sociale, suscettibili di essere (re)interpretate dagli specialisti e dai pazienti. Il disagio, la sofferenza, l’incertezza del vivere, gli stravolgimenti sociali derivati dall’inserimento del paese in un’economia internazionale, tanto negli anni 1910-1920 quanto negli 1980, riplasmarono le ragioni profonde che spingevano i rwandesi a praticare questi rituali di cura, anch’essi inseriti nel flusso del divenire storico.
2 La liturgia della regalità sacra e la persistenza di un sistema simbolico nel quotidiano
Il simbolismo culturale rwandese […] ricalca l’immagine del popolamento, è onnipresente ma diffuso e mobile. […] Il Rwanda tradizionale non aveva arti figurative né luoghi di culto fissi né capitali stabili né villaggi […]. Il simbolismo letterario e rituale, strettamente connessi, non differiscono essenzialmente da quelli che impregnano la vita quotidiana, […] alla quale innumerevoli imiziro (divieti) imprimono una dimensione allo stesso tempo poetica e mistica.2
Il rituale della regalità sacra rwandese, riconducibile all’universo bantu, connotava una molteplicità di entità politiche spesso preesistenti alla monarchia, di matrice mututsi, affermatasi nell’attuale Rwanda centrale a partire dal XVI secolo3. Esso offre una rappresentazione coerente e strutturata di molteplici prassi, diffuse nel corpo sociale in epoca precoloniale, permeate dalla medesima logica culturale. Le credenze di fondo della liturgia si articolavano su un duplice aspetto ideologico. Da un lato, il compito di integrare le differenti componenti socio-economiche del regno era svolto dalla dialettica blocco/flusso, intrecciata al binomio malattia/cura essenziale nella concezione consuetudinaria del soggetto e del cosmo. Dall’altro la redistribuzione simbolica, ovvero il versante dell’ideologia regale che poneva l’accento sulla partecipazione e sul consenso sociale. Il Rwanda precoloniale era connotato, infatti, da una struttura politica diversificata e da unità culturale4. Quindi, non stupisce che molti frammenti della liturgia regale abbiano continuato a trovare un più prosaico riscontro nella quotidianità dei rwandesi, ben oltre il raggiungimento dell’indipendenza, ottenuta nel 1962.
I liquidi pertanto rivestono un ruolo di primo piano nell’immaginario collettivo di questo popolo, che ha continuato a riporre idealmente la legittimità del vincolo sociale negli scambi reciproci e nel consumo condiviso di bevande fermentate. In base allo stesso principio, nella concettualizzazione del corpo umano è centrale la disciplinata circolazione dei suoi umori. Paradigmatica risulta la figura del umwami (sovrano), supremo detentore e veicolo del fluido imaana, «principio dinamico di vita e di fecondità che i rwandesi cerca[va]no di cogliere mediante tecniche rituali.5» Alcune piante, residenze e tombe regali, animali e oggetti utilizzati nelle pratiche divinatorie, accanto ad alcuni specialisti rituali e agli spiriti degli antenati, si riteneva la intercettassero6. Non a caso i liquidi erano i vettori favoriti di imaana, emblemi di flusso e fertilità: pioggia, sangue, seme, saliva, latte, miele. Tuttavia, affinché restasse pervia la connessione tra cielo e terra, il corpo dell’umwami, metonimia del sistema cosmologico, doveva essere in grado di aprirsi e di chiudersi in maniera controllata7. Il re ed i suoi ritualisti erano pertanto
grandi regolatori […] che mantenevano il fragile equilibrio del nostro mondo intermedio ed ambivalente. Essi erano attenti a tutti i segni che permettevano loro di emettere una diagnosi sulle alterazioni del corso normale delle cose e di tentare di porvi rimedio.8
3 Le pratiche tradizionali di cura nei resoconti dei Padri Bianchi
I Missionari d’Africa Padri Bianchi, sin dal loro arrivo in Rwanda alla fine del XIX secolo, seppero sfruttare con pragmatismo la vulnerabilità del contesto politico-sociale9. Inizialmente, essi promossero l’affermazione di una chiesa che accoglieva la parte più povera della popolazione, colpita dalla carestia e da epidemie. I primi dispensari medici divennero punti di riferimento per le comunità rurali, tanto che questa pur limitata attività sanitaria funse da veicolo di diffusione della nuova religione tra rwandesi di tutte le età e le condizioni sociali. L’agire dei missionari alsaziani, permeato tanto di razionalismo occidentale quanto di cattolicesimo, li indusse a adottare il paradigma biomedico. Probabilmente, fu proprio questo uno dei motivi principali per cui i divinatori e gli operatori magico-terapeutici continuarono ad essere consultati dai rwandesi: il cristianesimo non sembrava in grado di proteggerli adeguatamente, a differenza di quanto accadeva con gli imandwa (spiriti), gli antenati e l’eroe mitico Ryangombe10. Questa figura si era intrecciata, sin XVII secolo, al culto di possessione kubandwa, diffuso nell’area dei Grandi Laghi africani e trasformato in una sorta di «teatro liturgico, capace di canalizzare le istanze di ribellione e la protesta sociale in una fuga dalla realtà, creando una vivificante relazione tra gli adepti ed un gruppo di spiriti privi di legami di sangue con questi ultimi.11»
Neppure i medium di tale culto riuscirono tuttavia a sviluppare un’efficace offensiva al proselitismo cristiano. La parallela affermazione del dominio tedesco e missionario tuttavia incise sulla fenomenologia di tali prassi consuetudinarie, se padre Arnoux ebbe a definire il kubandwa una «società di culto segreta.» Sulla scorta delle trasformazioni sociali, esso, infatti, da strumento di unione tra i rwandesi, si stava ritirando progressivamente in una sfera più clandestina ed intima12.
A partire dagli anni 1920, infine, la profonda sinergia politica e culturale tra la chiesa cattolica e l’amministrazione belga spinse ancor più i fenomeni socio-culturali consuetudinari ad assumere forme inedite o meno appariscenti per sopravvivere nel nuovo Rwanda ridisegnato da burocrazia coloniale, neo-tradizionalista, estremamente conflittuale13. I Padri Bianchi si cimentarono, sin dai primi anni di permanenza nel paese, in accurate analisi delle pratiche che intendevano sradicare o manipolare in funzione della cristianizzazione. Nonostante essi non ne cogliessero appieno la polisemica portata culturale, le loro ricerche gettano luce sulle dinamiche socio-politiche vissute dal popolo rwandese al momento dell’impatto con il sistema coloniale. Ecco come padre Nicolet, nel luglio del 1928, chiosava sul culto di Nyabingi, praticato nel nord del paese:
Da un lato i pazienti si recano dagli abagirwa [i suoi sacerdoti] poiché si ritiene che invocandola essi possano guarire da malesseri e malattie quali epidemie e sterilità femminile. […] D’altro canto essa è concepita dal popolo come protettrice contro tutte le autorità che non siano la sua. È dunque […] uno stato nello stato.14
Si ritiene che Nyabingi fosse una sovrana dell’antico regno settentrionale di Ndorwa della fine del XVIII secolo, il cui spirito venne poi collocato, di lì a qualche decennio, al centro di un culto retto dalle intraprendenti abaheko ba nyabingi (profetesse)15. Nyabingi continuò ad essere associata a fertilità, salute e prosperità; eppure fu il potenziale autonomistico del culto a scatenare una repressione durissima dei suoi seguaci da parte delle autorità coloniali16.
3.1 Divinazione e possessione
I Padri Bianchi descrissero una vasta gamma di terapie consuetudinarie, dalle quali si evince che la fonte del malessere fosse ritenuta esterna al soggetto. Essa poteva coincidere con un umuzimu (antenato) non adeguatamente onorato dai discendenti oppure con un vivo che decideva di provocare un disturbo in un altro essere umano. L’umupfumu (divinatore) era considerato un guaritore magico se attraverso il proprio ihéembe (corno rituale di bovino) rintracciava l’avvelenatore o ne contrastava i sortilegi, oppure uno stregone se lo utilizzava per scopi malvagi. Solo i composti che richiedevano una preparazione più complessa erano di stretta competenza di specialisti, che facevano essiccare scorze, foglie, radici, per poi ridurle in polvere e creare una mistura diluita con acqua17.
Infine, risultava «sufficiente metterne un poco nella birra o nel burro della vittima o cospargerne un bastone o una lancia per ottenere l’effetto desiderato.18»
Spesso la pratica di possessione del kubandwa veniva invece assimilata dai Padri Bianchi ad un tipo di divinazione diffusa nel nord del paese, ovvero kuraguza biheko, in cui la malattia si presentava tanto come segno iniziatico individuale quanto come prassi terapeutica comunitaria. Si ricorreva al kubandwa per guarire da una infermità gettata da uno spirito o per prevenire un’afflizione che l’umupfumu dichiarava imminente, ma anche per ottenere fecondità19.
3.2 Dialettica blocco/flusso
Di seguito illustrerò qualche esempio del raccordo tra la simbologia sottesa alle pratiche analizzate dai Padri Bianchi e quella del blocco/flusso propria della liturgia regale. Il sangue mestruale risultava impuro agli occhi dei rwandesi, nonché alla base dei veleni più tossici. D’altronde, quasi tutte le modalità di divinazione riportate dai missionari prevedevano che l’oggetto utilizzato nella sessione fosse cosparso con l’imbuto (saliva) del cliente. Inoltre, molti composti terapeutici erano a base di acqua di caolino: il bianco, simbolo di benessere e di fertilità, si riteneva contrastasse «l’annerimento» indotto nella vittima20.
Espliciti echi di quegli «atti magici o stregoneschi» rilevati dai missionari si ravviseranno nelle prassi di cura consuetudinarie di epoche successive. Questo vale sia per il maleficio del «tranello dell’arco» sia per quello che «sospende la fecondità di una donna o la uccide durante la gravidanza». In entrambi i casi, l’origine del disturbo era imputabile ad un umurozi (avvelenatore, stregone, plu. abarozi). Il primo sortilegio consisteva nel seppellire un piccolo arco di bambù, venuto in contatto con un cadavere umano, nel sentiero che la vittima calpestava regolarmente, per provocarle problemi di salute. Il secondo, incardinato più chiaramente sul dualismo di blocco/flusso, prevedeva di appendere ad una trave della casa della vittima i fasci dell’erba ishinge solitamente utilizzati per la pavimentazione o di legare le braccia della sventurata con fibre vegetali abitualmente avvolte attorno alle gambe21.
Dagli anni 1940, la fiducia dei rwandesi verso i Padri Bianchi si rafforzò anche grazie alla testata «efficacia in termini biomedici dei farmaci dei loro dispensari.22»
Nonostante vari specialisti consuetudinari della cura continuassero ad operare nelle colline, solo quelli che seppero esaltare gli elementi della loro arte più compatibili con la medicina occidentale, come la farmacopea, seguitarono ad esercitare alla luce del sole. Fu proprio nella società rurale di quegli anni che dunque prese avvio un radicale processo di differenziazione del campo terapeutico: le prassi “magiche” furono affiancate da quelle consuetudinarie “epurate” e da altre più schiettamente cosmopolite23.
4 Pratiche terapeutiche nel nord del Rwanda negli anni Ottanta24
Nel 1973, il colpo di stato del generale Juvenal Habyarimana sancì la nascita della Seconda repubblica. La spregiudicatezza del presidente nello sfruttare la congiuntura politico-economica internazionale spinse il paese a uscire dall’isolamento diplomatico in cui era stato confinato sin dall’indipendenza. D’altronde, la strumentalizzazione politica dell’etnismo si incardinò su una congiuntura storica estremamente instabile, in cui trovarono espressione il malcontento popolare innanzi al dilagante affarismo di stato, una monetarizzazione crescente e diseguale della società rurale, l’affermazione di una nuova polarizzazione funzionale dello spazio sociale sulla scorta di risorse e di valori propri dell’economia cosmopolita.
Nell’area settentrionale del paese, sottomessa al regno centrale solo nel corso degli anni 1920, alla base della eziologia e della terapia vi sono sia il dualismo flusso bloccato/emorragico che una visione persecutoria della disgrazia, specie per quanto riguarda le malattie femminili legate alla fertilità. Gli avvelenatori sono spesso soggetti che, adottando una logica di accumulazione monetaria e di ascensione sociale, impediscono al circuito di forze e beni di innervare e ratificare la complessità dei rapporti sociali. Infatti, la stregoneria fa parte di un più ampio discorso pubblico, in cui confluiscono e si scontrano molteplici interpretazioni, credenze, prassi. Pur innestandosi sui conflitti per la terra in ambito rurale o sulle rivalità professionali nelle città, le accuse di uburozi (stregoneria) riflettono la frustrazione degli individui rispetto ad un contesto politico-sociale governato sempre più da principi estranei alla prospettiva tradizionale, al quale essi non sono chiamati a contribuire in maniera piena e che resta refrattario ai loro tentativi di comprensione25.
Per dirla con Geshiere,
«I discorsi e le pratiche della stregoneria hanno carattere elusivo, a volte sovversivo. […] La sua forza sembra risiedere precisamente nella sua ambivalenza che sbaraglia tutte le distinzioni e si presta a delle re-interpretazioni costanti. […] Pressoché ovunque in Africa, le forze occulte sono considerate come un male originario, e pertanto queste forze possono anche essere canalizzate ed utilizzate per scopi costruttivi. 26
In continuità con la simbologia sottesa ai rituali regali, tali terapie pongono i fluidi al centro della rappresentazione sia del corpo che della proficua partecipazione del soggetto alla società. È la circolazione dell’amaràso (sangue) tra umutìma (cuore) e ubwonko (cervello) ad essere principalmente colpita dallo stregone. L’amashéreka (latte materno) gode tuttora di un altissimo prestigio simbolico, mentre l’amashoro (seme maschile), definito sangue purificato, contiene, al pari dei fluidi femminili, il principio fecondo intaanga (dono di sé). Inoltre, queste prassi presentano tratti in comune con i complessi fenomeni socio-culturali colti dai Padri Bianchi decenni prima. Prendiamo due esempi.
Una delle patologie più comuni pare sia l’ifuumbi femminile, che può causare la mancanza di amanyaaré (secrezioni vaginali) durante i rapporti sessuali. I sintomi sono dolori al basso ventre e sanguinamenti anomali, ai quali i terapeuti oppongono un composto di piante e radici associate ai colori giallo e bianco, caratteristici del seme e dell’inkuri (latte). Si può dunque affermare che gli operatori intendano il trattamento in analogia con l’immagine simbolica del disturbo, inteso come manomissione dell’ordinario scorrere dei fluidi corporei. Palese invece il collegamento tra malattia e atto stregonesco nel kumanikira amaraso (sospendere il sangue), che impedisce alle donne di dare alla luce i propri figli27. Uno dei metodi di avvelenamento è quello di procurarsi igisaanza (fluidi corporei) della gestante e di farne un pacchetto assieme a specifici estratti vegetali, appendendolo poi all’interno della sua casa. La terapia stabilisce un parallelismo rituale tra il corpo della donna, la sua abitazione e gli elementi della natura, con lo scopo di reinserirla nel flusso cosmico. L’umupfumu determina se il malessere è riconducibile ad un atto stregonesco oppure ad una manifestazione di Nyabingi. Nella terapia per quest’ultimo disturbo, riscontrato di rado ed esclusivamente in quest’area del paese, può entrare in gioco il sacerdote della dea. Se il sofferente è una giovane donna, la sua malattia è considerata il segno di predilezione da parte della divinità28.
La distinzione tra operatori della cura e divinatori è molto labile specie per quanto riguarda il già menzionato kuraguza amahèembe (divinare con i corni). L’utilizzo degli amahèembe rimanda tanto all’innesco quanto alla cura di disturbi provocati da un umurozi ed inerenti la fecondità29.
5 Il valore terapeutico dell’idioma della possessione nel centro-sud del Paese negli anni Ottanta
Nelle regioni centrali e meridionali del Rwanda sono attuate pratiche terapeutiche che, pur condividendo la simbologia di fondo con i coevi sistemi di cura del settentrione, se ne distaccano sia nel ricorso al kubandwa (culto di possessione) che nella contemplazione di una causa del disagio anche interna al soggetto. Infatti, se la biomedicina non ottiene gli effetti auspicati o la malasorte imperversa, gli individui vanno in cerca di spiegazioni per la loro sventura presso l’umupfumu e l’umuvuuzi (operatore della cura)30.
Il kubandwa è un «idioma pratico-simbolico» consuetudinario, rielaborato all’interno di una società in transizione, nel tentativo di fronteggiare l’instabilità che il mutamento genera in singoli e gruppi. Perciò quando i rwandesi lo scelgono per articolare la percezione della disgrazia o del dolore, essi puntano il dito contro altri vivi quali principali responsabili di tali contesti di disagio: parenti, vicini di casa, amici. Non a caso, forse, molte accuse di possessione si basano su uno dei nodi critici di questa società: quello della collocazione economica della donna e del suo potenziale (ri)produttivo, nonché della trasmissione inter-generazionale delle conoscenze «sull’ambiguo corpo femminile.31»
Come già rilevato, sin dal periodo di affermazione del colonialismo tedesco, il culto di Ryangombe si era affermato sia quale elemento-chiave della coesione sociale del paese, sia proiezione mitica capace di lambire territori essenziali per il singolo quali salute, fecondità, benessere. Ecco perché molti operatori consuetudinari odierni consigliano ai loro pazienti di officiare i riti kubandwa: essi confidano nella tutela che l’eroe mitico riserva ai suoi iniziati32. Nelle descrizioni delle principali categorie di spiriti offerte dai terapeuti, spicca la credenza che essi provengano da luoghi lontani e che puniscano i comportamenti ritenuti antisociali nel quadro dell’etica consuetudinaria. Inoltre, essi provocano nelle vittime stati alterati di coscienza, convulsioni, problemi all’apparato riproduttivo. Ai pazienti spesso è imposto di aspirare dalle narici un composto di erbe medicinali.
La figura semi-divina di Nyabingi, onorata nel nord del paese, diviene, in un differente contesto, un temibile spirito del kubandwa. L’omonimo malessere deriverebbe dall’involontaria profanazione degli altari della dea, collocati spesso sugli incroci delle principali strade del paese, compiuta dai rwandesi del sud che, alla metà del XX secolo, si spostavano verso Kenya ed Uganda per cercare lavoro. Essendosi poi scoperti posseduti da nyabingi, questi ultimi si sarebbero dovuti convertire al culto o sarebbero divenuti schiavi spirituali di un umugirwa del nord33.
Si potrebbe affermare che, da quando la natura del dominio ha cominciato a mutare radicalmente sotto il segno della monetarizzazione e del lavoro migrante imposto dai colonizzatori, il malessere nyabingi avrebbe permesso ai rwandesi di rintracciare cause familiari a processi sempre maggiormente improntati sull’astrattezza e sull’impersonalità del modo di produzione capitalistico. In questo contesto si inserisce anche la concettualizzazione più recente, da parte di pazienti e terapeuti, delle forme globali della malasorte, tra le quali l’indebitamento e la disoccupazione, proprio attraverso l’antico idioma della possessione.
6 CONCLUSIONI
Parafrasando Chrétien e Prunier, le pratiche consuetudinarie hanno una storia, a maggior ragione quelle che, pur nel loro carattere polisemico, si riconnettono al registro della cura, ambito simbolico e della prassi in cui le necessità del singolo e quelle della società vengono a incontrarsi e spesso a confliggere34.
In questo breve intervento, consapevolmente non esaustivo, mi sono interrogata dunque sulle accezioni di storicità ad esse applicabili. Questi fenomeni, in prima battuta, si sono rivelati dinamici e versatili compromessi del simbolismo tradizionale rispetto ai valori cosmopoliti. Eppure, se si concepiscono tali pratiche culturali come punti di osservazione privilegiati sui mutamenti di una comunità, essi portano a riflettere su un ulteriore aspetto della loro persistenza. Attualmente, le società africane
ci appa[iono] come sempre più condizionat[e] dalla precarietà. La società […] è riconosciuta come assetto fragile e problematico di sistemi di relazione che regolano le attività collettive e l’ordine, il disordine e l’incertezza vi sono contemporaneamente presenti.35
Per dirla con Roberto Beneduce:
la possibilità che un insieme di malesseri, disturbi o sofferenze, o il ripetersi di insuccessi vengano ad essere aggregati e interpretati secondo una logica esplicativa piuttosto che un’altra traduce un processo sociale più complesso, dove dobbiamo sistematicamente considerare il ruolo delle dinamiche simbolico-culturali e quello delle dinamiche storiche.36
Quindi, così come la stregoneria, forza livellatrice, resta un’arma dei più deboli innanzi ai processi di differenziazione sociale e di pauperizzazione, il ricorso all’idioma della possessione continua a nutrire il bisogno di affermare un’identità nel presente che si confronti al tempo stesso con le trasformazioni e le cicatrici del divenire storico. Attraverso i sistemi di cura consuetudinari, quindi, i rwandesi connetterebbero l’iter terapeutico individuale al trattamento delle patologie che affliggono i corpi sociali postcoloniali, provando a tematizzare tanto la nozione di sé quanto l’impatto di fenomeni globali sulle comunità.
Note
- Questo saggio è un adattamento della mia tesi magistrale dal titolo Pratiche mediche consuetudinarie e trasformazioni sociali in Rwanda tra colonialismo e indipendenza (corso di laurea in Storia d’Europa, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna), discussa nel 2008 e avente come relatore la Prof.ssa Irma Taddia (docente ordinario di Storia e istituzioni dell’Africa).
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